09 settembre 2012 17:34

Brillante Mendoza è tra i registi più acclamati nell’ambito di quel cinema d’autore più avanzato che malgrado la globalizzazione da noi quasi mai arriva. O forse proprio a causa della globalizzazione, vista la tendenza di quest’ultima a moltiplicare un apparente diversità, fatta di cloni, livellando verso il basso e omologando: si veda, per restare in ambito cinematografico, l’esempio della programmazione delle multisale.

Tutto il contrario di quel che fa Mendoza. In appena cento minuti ecco un film etnografico e non folcloristico. La vita in tutta la sua diversità. In tutta la sua vividezza. Compresi i suoi aspetti più crudi, ma così necessari, come la nascita (il parto) e la morte (degli animali, per sfamarsi o, al massimo, per riti matrimoniali). È la vita nei suoi aspetti più naturali. Un flusso, che l’approccio del regista filippino rispecchia in pieno.

Mendoza è di ritorno a Venezia, dopo il bellissimo Lola presentato in concorso a Venezia nel 2009. Allora scrissi che Lola era “il” volto del festival, per quell’edizione. Lola, vecchietta dal viso dai mille strati di pelle, mutevole. Donna angelica, zombie o strega? Un viso ambiguo nel quale nessuno di questi tre aspetti prendeva il sopravvento. Emergeva, semplicemente, un viso realmente umano. Dove le stratificazioni della pelle equivalevano alla sedimentazione del dolore visto sugli altri e di quello vissuto in prima persona senza che questo però ne annullasse l’interiorità. Al contrario, la rendeva amorevolmente consapevole del valore di ciascuna persona, nella fattispecie i ragazzi perduti, spesso nella criminalità.

Thy womb (Sinapupunan, il titolo originale) è il proseguo di Lola, in qualche modo, e il suo rovescio. Siamo di nuovo tra abitazioni di povera gente costruite nell’acqua, delle sorte di palafitte. Ma non siamo più nella bidonville lacustre di Manila, dove i giovani sono praticamente tutti divorati dall’alienazione e dal conseguente precipitare nella criminalità come in Lola, ma in un vero villaggio-isoletta fatto di case in legno. Gli abitanti sono qui di religione musulmana. E vivono soprattutto della lavorazione delle alghe marittime. Che diventano, ad esempio, magnifiche tappezzerie. Ma sono anche pescatori e cacciatori di perle. Sono i bajau dell’isola di Tawi-Tawi.

La vividezza dei colori è del resto uno dei protagonisti del film, insieme alla coppia “ufficialmente” protagonista: la comunità del villaggio di Tawi-Tawi e la natura. Vividezza dei colori, cioè della vita, “brillantezza” della luce. Il regista porta davvero bene, in questo nuovo lungometraggio, il nome di battesimo. E il battesimo, nel senso di nascita, di “arrivo” alla vita, è centrale in Thy womb. Si apre e si chiude con dei parti. Assolutamente veri e filmati frontalmente. La ricerca di nuova vita è centrale in questo film, dove i due coniugi protagonisti vorrebbero dei figli ma non riescono ad averne: ma con generosità grande, quanto semplice, la moglie del protagonista (interpretata da una stella filippina di prima grandezza, Nora Aunor, che ha qui accettato una sorta di anonimato attoriale), accetta che un’altra donna dia alla luce per lei il bambino tanto desiderato. A lei, levatrice di lunga esperienza, è negata la gioia primaria della vita. La gioia di un “grembo suo”.

Se qualcuno leggesse però questo film come un’opera umanistica in senso classico, e soprattutto nel senso della melassa indigesta di tanto cinema italiano, si sbaglierebbe. Mendoza brilla anche per la sua ambiguità. Come sempre. Forse bisognerebbe scrivere dualità. Anche in quei film, come Thy womb e* Lola*, più dolci, più umani appunto. L’organico è inscindibile dalla morte, pienamente inserita, nella sua crudezza, nel flusso della vita: il parto o lo sgozzamento di un bufalo. Noi, nel nostro mondo asettico quanto ipocrita, deleghiamo delle persone, loro devono farlo direttamente. Non c’è cattiveria. E la morte (potenziale) portata dalla guerra interna – una guerriglia che disturba la vita anche nei suoi momenti più belli come nel caso delle feste di matrimonio – non ferma la comunità, cioè il flusso. Si continui a ballare.

Ci si ferisce in acqua, e si teme che uno squalo attirato dal sangue possa fare una carneficina. I procedimenti di regia, chiaramente imprestati dal cinema di genere, sembrano suggerirlo. Ma lo stacco di montaggio è netto e subito ci si ritrova nell’approccio documentaristico. Lola, altro rovescio, era una fiction contaminata dal documentario con un attrice dalla presenza molto forte. Qui è l’inverso. Così quando due enormi balenotteri maculati si muovono sotto il pelo dell’acqua, straordinaria sequenza ripresa dal basso dei fondali, e noi li vediamo aggirarsi, enormi, intorno alla fragile imbarcazione, ancora una volta temiamo il peggio. Ma non accade niente. Siamo in un documentario naturalistico o in un thriller acquatico? La dualità formale è il riflesso della dualità dei sentimenti locali, ma soprattutto nostri, oscillanti di continuo tra serenità e inquietudine. Tutto questo sta a noi capirlo, con i pochi dialoghi, i tanti suoni, le tante immagini colorate. E la camera dolcemente fluttuante.

La coppia ricambia, verso la natura. Come quando su una spiaggia, di notte, assiste silenziosamente al rito delle tartarughe giganti. Ma senza sottrarre loro nulla. I bajau sono davvero uniti, in osmosi con la natura. Qui, nessuna dualità. Sono nobili nomadi del mare.

È questo il film più fresco del concorso, forse dell’intera selezione.

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