08 marzo 2015 14:27

Qualsiasi racconto ha uno sviluppo. Quando ci si chiede cosa sia un racconto, argomento sul quale i narratologi si scervellano da tempo, di solito si arriva alla conclusione che il racconto è la storia di un cambiamento da un punto A a un punto B. Forse qualcuno in Giappone potrebbe dirci che anche la descrizione di un pezzo di realtà nel suo equilibrio ha una natura narrativa, ma non è il caso di allargare troppo il discorso. Diciamo che in genere si racconta sempre qualcosa che comincia in un modo e finisce in un altro. Nei racconti brevi e semplici, dove c’è un solo arco narrativo breve, questo cambiamento si risolve nel giro di pochi istanti. Quando la storia si fa più complessa, chi racconta decide se concentrarsi sull’esito finale o no, se puntare sullo sviluppo o sulla risoluzione della vicenda e come far finire la sua storia: se aperta, con finale sui titoli di coda, con finale ed epilogo (”sei mesi dopo…”) o in quale altro modo.

Nei racconti seriali però, qualunque sia la loro forma, è implicito che chi ne fruisce aspetti il finale con trasporto, e goda anche dei depistaggi che la storia proporrà, tra morti improvvise, tradimenti e capovolgimenti di fronte. Quello delle narrazioni a puntate non è l’unico caso in cui il modo in cui un contenuto viene distribuito influisce sulla vicenda. Anzi, l’idea che le storie esistano a priori, che vivano in purezza prima di muoversi versi chi ne godrà, è figlia del romanticismo e dei suoi slanci ideali molto poco realistici. Le fiabe della buonanotte devono essere sempre identiche, e costituiscono per il bambino un punto saldo cui appoggiarsi prima della notte; una famiglia indiana che va a vedere il Katakali rivive una storia che sa a memoria mentre chiacchiera svaccata e mangia, quindi la trama è fatta per non essere stupefacente nello svolgimento, e viene seguita a singhiozzo nell’arco di parecchie ore; l’Iliade e l’Odissea sono scritte a moduli perché venivano raccontate a pezzi dai cantori, e anche se ci sembrano storie con un inizio e una fine come un film, per il loro pubblico erano più simili a Dr. House.

Quando Netflix nel 2013 trasmise la prima stagione di House of cards si scoprì che i finali sospesi non erano un elemento necessario del racconto seriale televisivo. La distribuzione via internet, a differenza del broadcast dove non cambia se mi vedono contemporaneamente in cento milioni o in dieci, preferisce poco affollamento sugli stessi contenuti per ragioni di server e nuvole. House of cards, così come ogni serie di Netflix, viene resa disponibile nella sua interezza il giorno dell’uscita, ed è prodotta per un pubblico che ha già pagato un abbonamento: non c’è bisogno di tenerlo agganciato, e volendo ciascuno può scegliere come vedere le puntate, al limite anche l’intera serie la notte dell’uscita. Di conseguenza le storie hanno anche un andamento più lineare, e non c’è bisogno che i finali delle puntate siano pensati per costruire livelli spropositati di suspense.

I festeggiamenti per Stefano Callegaro, vincitore di Masterchef 2015.

La sospensione dell’incredulità, quel principio che sta alla base della fruizione di qualsiasi racconto, prevede che ci si fidi di quello che succede e si attribuisca una attendibilità alla logica interna del racconto. Masterchef, come Pechino express, è un racconto seriale registrato. Se anche si sa razionalmente che nel mondo reale il vincitore della quarta serie di Masterchef Italia è già noto, se non da noi almeno da qualcuno, nella logica del racconto seriale differito il vincitore del talent culinario è ignoto fino alla messa in onda. Se qualcuno, come ha fatto il noto tg satirico di un canale televisivo concorrente l’altro giorno, svela il finale di Masterchef in anticipo rispetto al momento televisivo della proclamazione, rovina la sorpresa a chi aspetta questo esito con trasporto, ma ha anche stracciato in faccia a tutti il contratto di sospensione dell’incredulità. È vero che tutti vorrebbero sapere chi è l’assassino, come vanno a finire le beghe ereditarie della famiglia, se la bella Emily si sposerà o no, se lo Smilzo prenderà il potere, ma nessuno vuole saperlo fuori dalla logica interna del racconto. Ma non sono solo i temutissimi spoiler di trama a incrinare la relazione tra racconto e pubblico. Però certo, fatta salva la fede, se qualcuno ogni domenica ricordasse che il sangue di Cristo delle cerimonie religiose cattoliche è un vino liquoroso prodotto da un’azienda vinicola con un nome, e comprato dalla parrocchia con regolare fattura, la notizia non gioverebbe certo all’efficacia del rito.

Su questi temi Stephen King ha scritto Misery, storia di una donna instabile che salva e sevizia l’autore del suo romanzo a puntate preferito, costringendolo a risuscitare il suo personaggio preferito appena defunto. Master Humphrey’s clock era un settimanale di storie di Charles Dickens, di cui alcune brevi e autoconcluse, e altre a puntate come The old curiosity shop (La bottega dell’antiquario). Si racconta che nel 1841, quando arrivò via nave l’ultimo capitolo della storia, che raccontava la vicenda intricatissima della povera e sfortunata Nell, alcune migliaia di persone raggiunsero il porto e chiesero conto al capitano della nave: “Nell è morta?”. Il capitano annuì, e sul pontile si diffuse lo sconforto.

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