A volte un film rappresenta chiaramente lo sforzo di un regista di dire qualcosa, di inviare un messaggio proverbiale. In Ultima notte a Soho di Edgar Wright, il messaggio è confuso nel transito tra la presunzione epigrammatica del film e la sua forma cinematografica. Ha la forma di un classico racconto di formazione. La giovane di provincia Eloise Turner (Thomasin McKenzie) arriva nella grande metropoli per realizzare i suoi sogni ma finisce per perdere le sue illusioni. La sceneggiatura (che Wright ha scritto insieme a Krysty Wilson-Cairns) espande questo concetto in una storia sociale che si fonde con i tropi dei film horror per rivelare una stravaganza di incubi soffocati che Eloise dovrà affrontare per avere successo. La forma imposta alle valide idee del film finisce per soffocare una loro espressione chiara e ponderata. Appassionata di moda, Eloise vive nel mito della Swinging London degli anni sessanta, un mito alimentato dalla nonna, anche se proprio quel contesto spinse la madre di Eloise al suicidio. Una complicata serie di incastri tra realtà e sogno trasforma la vita di Eloise, che si ritrova proprio a Londra negli anni sessanta, aspirante cantante, costretta ad affrontare la mostruosa misoginia che conobbe anche sua madre. Gli aspetti più affascinanti di Ultima notte a Soho riguardano proprio la storia familiare di Eloise, la convergenza di eredità culturali e personali attraverso le generazioni. Ma il film lascia queste connessioni inespresse e le tratta superficialmente. Invece che fondere sostanza e stile, sacrifica la prima al secondo, anche se Wright non è uno “stilista” del calibro di Wes Anderson o Sofia Coppola. Richard Brody, The New Yorker

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Questo articolo è uscito sul numero 1434 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati