Quando ha incontrato per la prima volta Dalal Daoud, Sapir Sluzker Amran faceva ancora l’avvocata a tempo pieno. Era il novembre 2018 e come ogni anno Sluzker Amran cercava un modo per celebrare la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. All’epoca Daoud, cittadina palestinese d’Israele, stava scontando una pena di 25 anni nell’unico carcere israeliano per sole donne, Neve Tirtza, per aver ucciso il marito che l’aveva ripetutamente molestata, violentata e incatenata in casa. Dopo aver sentito la storia di Daoud e averci parlato al telefono, Sluzker Amran aveva deciso cosa fare: avrebbe raccolto denaro per dimostrarle che c’erano donne fuori dal carcere che s’interessavano a lei.

Quando si sono incontrate di persona, Sluzker Amran ha deciso di lanciare una campagna per la liberazione di Daoud, riducendosi le ore di lavoro per dedicare un giorno alla settimana a coordinare l’iniziativa. “Un piccolo gruppo di donne e alcune organizzazioni si sono unite, pianificando tutto insieme a Dalal”, racconta Sluzker Amran. La campagna univa la protesta sul campo a una grande attività sui social network e sui mezzi d’informazione tradizionali, oltre a un’azione di pressione in parlamento. Tutte iniziative per raccontare in modo diverso la storia di Daoud, sottolineando la sua capacità di sopravvivere in una situazione impossibile. Ha funzionato: nel giugno 2019 è stata messa in libertà vigilata. Oltre ad aver trasformato la vita di Daoud, è stato un momento cruciale anche per Sluzker Amran, dopo quasi dieci anni di tentativi per trovare un equilibrio tra attivismo e carriera. “Il giorno in cui è stata liberata, ho deciso di lasciare il mio lavoro da avvocata, perché ho capito che quello che avevo appena fatto era più efficace”, ricorda.

Nel quartiere di Giva​t Amal a Tel Aviv, il 29 agosto 2021 (Laetit​ia Vancon, The New York Times/Contrasto)

Trovata la formula per il successo, Sluzker Amran era a corto di mezzi per metterla in atto su scala più grande. Quello di cui aveva bisogno era un movimento e sapeva esattamente a chi rivolgersi per renderlo possibile: alla sua storica alleata in tante battaglie, Carmen Elmakiyes Amos. Le due per anni avevano partecipato a una serie di lotte legate alla povertà e all’edilizia pubblica, e condividevano il sogno di fare “un passo avanti, verso qualcosa di più organizzato”, spiega Elmakiyes Amos.

Così verso la fine del 2019 è nato un nuovo movimento: Shovrot kirot (“abbattere i muri”, in ebraico). Il nome rende omaggio a una poesia di Vicki Shiran, una delle fondatrici del femminismo mizrahi (termine con cui ci si riferisce agli ebrei immigrati in Israele da paesi arabi o musulmani). I versi di Shiran raccontano la storia di una donna che vuole abbattere i muri che la imprigionano per volare nel cielo. Ma Shovrot kirot è anche una frecciata polemica nei confronti del femminismo “liberale” tradizionale, accusato di ignorare il razzismo e le difficoltà economiche vissute da molte donne non bianche. “Queste femministe parlano di rompere le barriere e celebrano donne privilegiate che dovrebbero essere la nostra ispirazione”, afferma Sluzker Amran. “Ma noi abbiamo a che fare con donne che prima di rompere le barriere devono abbattere dei muri, donne che non hanno una casa o temono che il marito possa ucciderle. Sono loro le nostre vere fonti di ispirazione”.

Abbiamo a che fare con donne che devono abbattere dei muri, che non hanno una casa o che temono di essere uccise dal marito

La storia di Sluzker Amran ed Elmakiyes Amos comincia nell’estate 2011. Le manifestazioni per la giustizia sociale si moltiplicavano sul raffinato Rothschild boulevard di Tel Aviv, il fiore all’occhiello del distretto finanziario della città, diffondendosi rapidamente in tutto il paese. Centinaia di migliaia di persone scendevano in strada e piantavano tende per protestare contro la mancanza di alloggi e l’aumento del costo della vita, intonando lo slogan ispirato alle primavere arabe: “Il popolo chiede giustizia sociale!”.

Sluzker Amran aveva vent’anni e voleva partecipare, così entrò nella prima tenda sul Rothschild boulevard. Ma invece di incontrare un movimento impegnato a migliorare le condizioni economiche delle persone più emarginate della società, trovò una folla di attivisti per lo più ashkenaziti (ebrei discendenti dagli immigrati provenienti dall’Europa centrale e orientale) di classe media, preoccupati essenzialmente di abbassare il prezzo degli affitti a Tel Aviv. Sconfortata, tornò a casa.

Quello che mancava tra i manifestanti era il riconoscimento del fatto che non tutti gli israeliani sperimentano le stesse difficoltà economiche. Da decenni i mizrahi subiscono da parte della classe dirigente sionista ashkenazita una discriminazione e un’emarginazione che hanno prodotto una classe etnica inferiore all’interno della società ebraico-israeliana. I mizrahi hanno resistito all’oppressione fin dalla fondazione dello stato: dalle sommosse nei maabarot (campi per immigrati ebrei) all’inizio degli anni cinquanta alla rivolta del quartiere Wadi Salib di Haifa nel 1959, alle proteste delle Pantere nere israeliane negli anni settanta. La lotta per una ridistribuzione giusta delle risorse del paese e per il riconoscimento delle ingiustizie del passato è in corso ancora oggi.

Mentre la protesta del 2011 cresceva, Sluzker Amran tornò con la sua tenda e trovò un nuovo gruppo nell’accampamento chiamato “Senza scelta”, messo in piedi da persone senza mezzi né accesso ad alcuna forma di alloggio, a cui si sentiva più vicina. “Invece di stare con gli studenti o con gente della mia età, mi sono ritrovata a stringere relazioni con senzatetto, madri single ed ex detenuti che avevano bisogno di trovare un posto in cui vivere”, racconta. In seguito arrivò agli accampamenti di protesta che si erano formati nei quartieri più poveri e in prevalenza mizrahi nelle zone sud di Tel Aviv, dove un’amica comune la mise in contatto con Elmakiyes Amos.

Entrambe erano insoddisfatte della prospettiva limitata degli accampamenti di protesta principali. “Volevamo che la gente parlasse anche di povertà, edilizia pubblica, sussidi per i figli e tutte le questioni meno ‘sexy’”, spiega Elmakiyes Amos. Così, una sera lei e altre attiviste fondarono un nuovo movimento chiamato Lo nechmadim/Lo nech­madot, “Non simpatici/non simpatiche”, facendo il verso all’espressione usata negli anni settanta dall’allora premier Golda Meir dopo il suo incontro con le Pantere nere israeliane.

Tre categorie in una

Da allora, Lo nechmadim/Lo nechmadot ha guidato un’incessante lotta per le case popolari in Israele, insieme ad altri movimenti e organizzazioni dal basso. Tuttavia, le due attiviste si sono rese conto che “il modo in cui eravamo organizzate aveva funzionato prima, ma ora avevamo bisogno di altro”, come afferma Sluzker Amran. Riflettendo sulle loro esperienze nella cooperazione, Sluzker Amran ed Elmakiyes Amos hanno individuato un problema generale che definiscono il “triangolo delle ong”. C’è una separazione totale, affermano, tra gli esperti che lavorano nelle organizzazioni per i diritti umani, le comunità emarginate, che spesso diventano dipendenti dal loro sostegno, e chi finanzia le ong, di solito grandi fondazioni internazionali, ricchi donatori o governi stranieri.

Dopo una battaglia di anni, gli abitanti hanno ottenuto un pacchetto di risarcimenti da parte del governo, ma i fondi sono rimasti bloccati

Il modello di Shovrot kirot vuole unire questi tre soggetti: chi riceve gli aiuti è in prima linea nella lotta per i suoi diritti, e i finanziamenti derivano principalmente da piccole donazioni. “Chi ha fatto questo lavoro sa quanto sia importante questa libertà”, spiega Elmakiyes Amos. In due anni il modello sta già mostrando segnali di successo: “Alcune donne che aiutavamo sono diventate collaboratrici del movimento, come donatrici o attiviste”. Daoud ne è un ottimo esempio. Dopo il rilascio si è unita a Shovrot kirot e ora si occupa di carcere e reinserimento, soprattutto di donne. “Le persone fuori non hanno idea di quello che succede in cella”, dice Daoud. “Il mio obiettivo è che nessuno debba passare quello che ho passato io”.

Tuttavia, l’ambizione di sostenere il movimento attraverso piccole donazioni si sta rivelando impegnativa. Lo scoppio della pandemia di covid-19 ha aggravato il problema. “Per ora ci limitiamo a sopravvivere, ma abbiamo bisogno di aumentare il budget mensile proveniente dalle piccole donazioni, altrimenti non saremo in grado di continuare”, avverte Elmakiyes Amos. “Alla maggior parte delle persone non interessa il tema delle donne che vivono in povertà, soprattutto mizrahi o etiopi. È difficile fargli capire perché cose come la povertà, il diritto a un tetto e all’elettricità sono una parte inseparabile della lotta per i diritti umani in Israele, e perché non sono meno importanti della lotta contro l’occupazione dei territori palestinesi e per la democrazia”.

Oggi più di trentamila famiglie in Israele sono nelle liste d’attesa del governo per le case popolari, mentre altre migliaia non possono neanche presentare domanda a causa dei criteri rigidi. Un altro problema è che chi ottiene una casa popolare non può fare quasi nulla se le autorità decidono di sfrattarlo, spingendolo nella precarietà.

L’impresa di Sisifo

Negli ultimi anni il quartiere di Givat Amal a nord di Tel Aviv è diventato simbolo di un sistema che non funziona e della lotta per la giustizia. “Nel 2011 le persone sono scese in strada perché sentivano di essere state abbandonate dallo stato”, afferma Ronit Aldouby, che fa parte del comitato di Givat Amal e ha vissuto nel quartiere fino a quando nel novembre 2021 gli ultimi abitanti sono stati espulsi, e le loro case sono state demolite. “Anche noi ci siamo unite alle proteste, ma il problema è che a Givat Amal lo stato è sempre stato assente”.

Quella di Givat Amal è una storia di sfruttamento, abbandono e promesse infrante. Fondato nel 1947 da una classe dirigente sionista ashkenazita che considerava i mizrahi “materiale umano” per colonizzare la Palestina, i suoi primi abitanti ebrei furono insediati lì per impedire il ritorno dei profughi palestinesi del villaggio di Al Jammasin al Gharbi. Tuttavia, alle famiglie mizrahi fu impedito di ottenere il possesso formale delle proprietà in cui erano state trasferite. Nonostante le promesse secondo cui gli abitanti non sarebbero stati sfrattati senza un risarcimento e una nuova sistemazione, la terra in cui vivevano è stata ripetutamente venduta, fino a quando nel 2005 l’attuale proprietario, il magnate immobiliare Yitzhak Tshuva, approvò un progetto edilizio che rese inevitabile il loro sgombero. Dopo una battaglia di anni, gli abitanti hanno ottenuto un pacchetto di risarcimenti da parte del governo, ma i fondi sono rimasti bloccati nell’ufficio del ministro della giustizia Gideon Saar, il cui partito Nuova speranza oggi controlla anche il ministero per l’edilizia abitativa.

Shovrot kirot ha avuto un ruolo cruciale in quella che Aldouby descrive come “l’impresa di Sisifo” degli abitanti di Givat Amal. In una protesta organizzata all’inizio di febbraio in sostegno agli abitanti espulsi, circa cento attivisti hanno bloccato l’incrocio trafficato tra Givat Amal e la casa di Gideon Saar, che per un crudele scherzo del destino affaccia proprio sulle rovine del quartiere. All’entrata di Givat Amal c’era un cartello con scritto: “Una politica di sfratti è violenza contro le donne”. “Carmen e Sapir ci portavano a tutti i dibattiti in parlamento”, racconta Aldouby. “Sono anche nel gruppo WhatsApp degli attivisti del quartiere, così ricevono gli aggiornamenti e possono ragionare insieme a noi su cos’è necessario fare. Sono con noi durante ogni fase e decisione”.

Sapir Sluzker Amran, a destra con il megafono, durante una manifestazione per il rilascio di Dalal Daoud. Ramla, Israele, 19 giugno 2019 (Avi Dishi, Flash90)

Anche se si definisce un movimento femminista mizrahi, la natura di Shovrot kirot consente di connettere la lotta mizrahi con le battaglie di altre comunità oppresse in Israele, compresi i cittadini palestinesi. Negli ultimi mesi il movimento è stato sempre più attivo a Jaffa, dove un aggressivo processo di gentrificazione sta escludendo la popolazione palestinese rimasta in città dopo la nakba (la “catastrofe”, la cacciata dei palestinesi in seguito alla creazione di Israele nel 1948). Anche in questo caso le madri single pagano il prezzo più alto dei mancati investimenti nell’edilizia pubblica da parte dello stato e del comune.

Nel novembre 2021, proprio nella settimana in cui gli ultimi abitanti di Givat Amal erano cacciati dalle loro abitazioni, Farida Najar, una madre single palestinese che da quattro anni era in lista d’attesa per la casa popolare, ha piantato una tenda in un parco di Jaffa insieme ai suoi quattro figli. A lei si sono unite altre otto madri con i figli, riempiendo il parco di tende per protestare contro l’incapacità del comune di Jaffa-Tel Aviv di risolvere il problema, finché è stato raggiunto un compromesso. Ohad Amar, avvocato esperto di diritti sociali di Shovrot kirot, ha organizzato l’assistenza legale per le donne. “I loro diritti in termini di sicurezza sociale e abitativa non sono rispettati, nessuna ha un avvocato né qualcuno che le aiuti per presentare domanda per i sussidi”, dice. Le nove donne hanno trovato una sistemazione temporanea, e le loro richieste di contributi economici sono in attesa. Ma, secondo Amar, anche con questi sussidi “continueranno a vivere in povertà”.

Destra e sinistra

Un altro gruppo emarginato è quello delle ebree etiopi. Elmakiyes Amos ricorda l’episodio di una donna mizrahi, Rachel Levy, cacciata di casa insieme ai figli quando sua madre è morta, perché non aveva i requisiti per continuare a vivere in una casa popolare. “Le autorità hanno dato l’alloggio a una donna etiope”, racconta. “Quando ha visto Rachel, che aveva piantato una tenda nel prato dopo lo sfratto, la nuova inquilina si è scusata. Ma Rachel le ha risposto: ‘Non è colpa tua. Non dovremmo litigare per questo appartamento, dovrebbe essercene uno per te e uno per me’. Ai miei occhi la tristezza di questa storia è tutta qui. Questa situazione è l’esempio perfetto di una politica che mette uno contro l’altro i gruppi più deboli. Ed è anche il motivo per cui devono combattere insieme”.

Creare solidarietà tra comunità oppresse è senz’altro una delle ambizioni delle attiviste di Shovrot kirot, anche se attualmente è solo un effetto indiretto del loro lavoro. Amar ritiene che esista ancora una tensione tra chi promuove i diritti sociali e chi quelli politici, innanzitutto la causa palestinese. Parte di questa tensione deriva dalla natura particolare della divisione tra destra e sinistra in Israele, dato che quella che è considerata sinistra – e in particolare la sinistra sionista – rappresenta prevalentemente i benestanti, per lo più ashkenaziti, della società, mentre quella che è considerata destra tradizionalmente rappresenta i più poveri, in maggioranza mizrahi.

“Non abbiamo ancora trovato una base per unire le campagne e le lotte”, sostiene Amar. “Non sono sicuro che siamo pronti per mettere insieme la lotta per i diritti dei palestinesi e quella contro il capitalismo. Per la sinistra in Israele è più facile interessarsi dei territori occupati che delle persone a cui è staccata l’elettricità, perché in quel caso devono chiedersi ‘Questo significa che devo pagare più tasse?’”. E continua: “D’altra parte stiamo costruendo dei ponti per mettere insieme il discorso sui diritti dei palestinesi e quello sui diritti sociali. Credo che Shovrot kirot abbia bisogno di promuovere la consapevolezza sulla giustizia sociale in modo da poter combattere allo stesso tempo il capitalismo e il colonialismo”.

Sluzker Amran crede che ci sia un valore strategico nel concentrarsi prima di tutto sulla propria comunità. “Non abbiamo rinunciato a combattere l’occupazione. Io credo che saranno i palestinesi a mettere fine all’occupazione”, sottolinea. “Ma quello che possiamo fare è assicurarci che le nostre comunità siano in condizioni migliori, e parlare di tutto in modo da riconoscere le somiglianze. Non punto al ‘campo della pace’, in cui la maggioranza proviene da luoghi privilegiati e da famiglie di sinistra. Punto alle persone che sanno cosa significa subire la brutalità della polizia” e la sanno riconoscere anche quando è rivolta contro i palestinesi. Poi chiarisce: “Non è la stessa cosa, ma le persone vedono le analogie. Per me fare questo lavoro significa combattere anche l’occupazione”.

Per Sivan Tahel, un’attivista di Shovrot kirot che si occupa della questione della violenza della polizia, al movimento non conviene conformarsi alle etichette politiche tradizionali: “Dire: ‘Sono una donna mizrahi’ è già una dichiarazione politica, perché svela davvero le relazioni di potere; non come dire ‘sono di destra’ o ‘sono di sinistra’. Per questo spazi come il nostro sono importanti. Noi non siamo vicini ai partiti. Il nostro obiettivo non è trovare una collocazione all’interno del sistema, ma cambiare il sistema”.

Tuttavia, pur riconoscendo le connessioni tra i diversi gruppi emarginati che affrontano gli stessi problemi sociali, Tahel mette anche in guardia dal rischio di appiattire le differenze: “Connettere le persone significa creare un meccanismo che sovverte il sistema del divide et impera. Ma se vogliamo unire le lotte, è importante riconoscere che ogni gruppo ha la sua unicità”. E conclude: “Parlare della lotta mizrahi come di una porta per accedere alla lotta di un’altra comunità che è presumibilmente più debole di noi è dannoso, perché i mizrahi sono esclusi e oppressi da settant’anni. Essere mizrahi significa dover costantemente combattere e convincere le persone che stiamo dicendo la verità a proposito della nostra oppressione. Perciò la lotta mizrahi deve trovare le sue risposte e Shovrot kirot ci sta dando la forza per farlo”. ◆ fdl

Ben Reiff è uno scrittore e attivista che vive nel Regno Unito.

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Questo articolo è uscito sul numero 1463 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati