Da quando l’inflazione ha cominciato a crescere, gli economisti si scontrano sulle cause e su cosa bisogna fare per farla diminuire. Dopo che i banchieri centrali hanno alzato il costo del denaro, l’inflazione sta calando e di conseguenza il dibattito potrebbe sembrare puramente accademico. In realtà oggi è più importante che mai. L’inflazione sta scendendo soprattutto perché sono calati i prezzi dell’energia, una tendenza che non durerà per sempre. L’inflazione di fondo, cioè quella depurata dai prezzi di beni particolarmente volatili, come l’energia e i prodotti alimentari, è più ostinata. E la storia suggerisce che in questi casi è difficile contrastarla. Ecco perché le principali banche centrali ripetono che il lavoro non è finito. “Ci vorrà ancora molto tempo per riportare l’inflazione al 2 per cento”, ha affermato il 29 giugno Jerome Powell, presidente della Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti).

“Non possiamo esitare, non possiamo cantare vittoria”, ha dichiarato Christine Lagarde, la presidente della Banca centrale europea. Questo significa che gli scontri tra economisti non sono destinati a finire. Il primo fronte è in parte ideologico e si concentra sulle responsabilità dei rincari.

Una teoria non convenzionale ma popolare dà la colpa all’avidità delle aziende. È emersa per la prima volta negli Stati Uniti a metà del 2021, quando i margini di profitto delle aziende non finanziarie erano insolitamente alti e l’inflazione stava per decollare. Oggi sta prendendo piede una seconda ondata alimentata dal Fondo monetario internazionale (Fmi), che di recente ha rilevato come i profitti in crescita “siano responsabili della metà circa dell’aumento” dell’inflazione registrata nell’eurozona negli ultimi due anni. Anche Lagarde è sembrata più favorevole a questa tesi quando ha affermato davanti al parlamento europeo che “alcuni settori” hanno “tratto benefici” dal caos economico e che “è importante che l’antitrust prenda in esame questi comportamenti”.

L’inflazione dovuta all’avidità (greedflation, in inglese) è un concetto rassicurante per chi è di sinistra e pensa che la colpa dell’inflazione sia troppo spesso attribuita ai lavoratori. Tuttavia, sarebbe strano pensare che le aziende diventino all’improvviso più avide, determinando un’accelerazione dei prezzi. L’inflazione è provocata da un eccesso di domanda rispetto all’offerta, una condizione che offre molte opportunità di profitto. Secondo l’analista Neil Shearing, la tesi sull’inflazione dovuta all’avidità “confonde i sintomi con le sue cause”. I salari tendono a rincorrere i prezzi e non viceversa, perché, come osservano gli economisti dell’Fmi, “i salari reagiscono agli shock più lentamente dei prezzi”.

Interventi di stimolo

Il secondo fronte riguarda la geografia. Inizialmente l’inflazione negli Stati Uniti è stata causata da fattori interni più di quanto è successo nell’eurozona. Durante la pandemia la Casa Bianca ha speso il 26 per cento del pil in interventi di stimolo, mentre le grandi economie europee non sono andate oltre il 15 per cento. Dopo che la Russia ha invaso l’Ucraina, l’Europa ha subito uno shock energetico molto più forte rispetto agli Stati Uniti, sia a causa della sua dipendenza dal gas naturale russo sia per la maggiore quota di entrate destinata al pagamento dell’energia. In un saggio recente, l’economista capo dell’Fmi Pierre-Olivier Gourinchas e i suoi colleghi attribuiscono solo il 6 per cento dell’aumento dell’inflazione di fondo dell’eurozona all’eccesso di domanda, contro l’80 per cento negli Stati Uniti.

Questo significa che l’Europa può cavarsela con politiche meno restrittive. Secondo gli autori dello studio, il pacchetto di aiuti, pari al 3 per cento del pil, lanciato di recente per sostenere il pagamento delle bollette non ha contribuito al surriscaldamento dell’economia e potrebbe aver impedito il radicamento di una mentalità inflazionistica (gli autori avvertono che le cose sarebbero potute andare diversamente se i prezzi dell’energia non fossero calati, permettendo di ridurre l’ammontare dei sussidi). Inoltre, in Europa i tassi d’interesse sono più bassi: i mercati finanziari prevedono un picco del 4 per cento nell’eurozona, rispetto al 5,5 per cento degli Stati Uniti.

Nonostante tutto, i problemi su entrambe le sponde dell’Atlantico sembrano diventare progressivamente più simili. Gli aumenti dei prezzi in entrambe le aree geo­grafiche sono legati a una forte spesa interna. Calcolata su basi comparabili, l’inflazione di fondo è più alta nell’eurozona. E lo stesso vale per l’aumento dei salari. Secondo la banca Goldman Sachs, i salari stanno aumentando del 4-4,5 per cento su base annua negli Stati Uniti e quasi del 5,5 per cento nell’eurozona.

Da qui deriva l’importanza di un ultimo fronte: il mercato del lavoro. Anche se i margini di profitto crollano, le banche centrali non possono raggiungere l’obiettivo di riportare l’inflazione al 2 per cento su base stabile senza un riequilibrio tra la domanda e l’offerta di lavoro. L’anno scorso gli economisti si chiedevano se per arrivarci negli Stati Uniti fossero necessari tassi di disoccupazione più alti. No, secondo Chris Waller, della Fed, convinto che sia più plausibile una diminuzione del numero insolitamente elevato di posti di lavoro vacanti. Olivier Blanchard, Alex Domash e Lawrence Summers erano più pessimisti, e osservavano che in passato i posti di lavoro vacanti erano diminuiti solo con l’aumento della disoccupazione. Da allora la visione di Waller è in parte diventata realtà: secondo la Goldman Sachs, i posti di lavoro vacanti sono diminuiti abbastanza da riequilibrare per tre quarti il mercato del lavoro.

Ultimamente però il processo sembra in stallo. Blanchard e Ben Bernanke, ex capo della Fed, stimano che, alla luce dell’ultimo rapporto rilevato tra posti di lavoro vacanti e disoccupazione, sarà necessario per un “certo periodo di tempo” un tasso di disoccupazione superiore al 4,3 per cento. Gli economisti Luca Gagliardone e Mark Gertler sono convinti che la disoccupazione potrebbe arrivare al 5,5 per cento nel 2024. Questo farebbe calare l’inflazione al 3 per cento nel giro di un anno, per poi proseguire “molto più lentamente” verso il 2 per cento. Nell’eurozona i posti di lavoro vacanti non sono stati particolarmente alti rispetto alla disoccupazione, rendendo la strada verso una disinflazione indolore ancora più imprevedibile. È questo il fronte più delicato della lotta all’inflazione, nonché quello con la posta in gioco più alta. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1520 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati