Iriccioli scuri le danzavano sul volto mentre ridevamo, ripercorrendo i ricordi del carcere e di quello che intanto succedeva nel mondo. Eravamo entrambi fuori dalla prigione e dal paese che ci aveva oppressi. A Washington, negli Stati Uniti, finalmente c’incontravamo liberi e al sicuro. Sanaa Seif infilava le mani dentro le maniche della giaccia, anche se in albergo faceva caldo. Il freddo che provava veniva da dentro.

La conversazione si è fatta un po’ cupa quando mi ha detto di voler tornare in Egitto. Dopo aver portato nel mondo la grande campagna per chiedere la liberazione di suo fratello Alaa Abdel Fattah, in carcere dal 2019, Seif ha deciso di partecipare come osservatrice indipendente alla Conferenza sul clima dell’Onu, Cop27, a Sharm el Sheikh, in Egitto, dal 6 al 18 novembre. Il suo obiettivo è spingere i leader internazionali a chiedere il rilascio del fratello. “Devo andare. Non ho altra scelta”, mi ha detto.

L’ultima volta che avevo visto Sanaa Seif era stato nella sala visite del carcere di Tora, al Cairo, nel 2019. Lei, la sorella Mona e la madre Laila Soueif venivano a trovare Alaa Abdel Fattah, detenuto per aver condiviso un post sulla morte di un prigioniero politico. Io scontavo una condanna a quindici anni di carcere per “assembramento illegale”. Dalla rivoluzione del 2011 la famiglia Seif ha pagato cara la sua audacia e la sua lotta. Abdel Fattah ha trascorso più di otto anni in carcere, scontando una condanna dopo l’altra, finché è stato di nuovo imprigionato nel corso di un’ondata di arresti nel settembre 2019 con l’accusa di aver diffuso notizie false.

Ora la situazione è più tragica che mai. Alaa Abdel Fattah è in sciopero della fame da più di duecento giorni, dopo aver esaurito tutte le opzioni per chiedere la libertà e il rispetto dei suoi diritti umani fondamentali. All’inizio della Cop27 il 6 novembre ha avviato anche lo sciopero della sete (in una lettera datata 12 novembre afferma di aver ripreso a bere e in un’altra del 15 novembre annuncia di aver messo fine anche allo sciopero della fame). Abdel Fattah ha deciso: lascerà la prigione, in piedi o in una bara.

Chi controlla il corpo

In passato consideravo gli scioperi della fame in carcere come un segno di disperazione, una resa finale. I prigionieri smettono di mangiare perché l’agonia è insopportabile. Vogliono solo che finisca. Ma dopo aver sperimentato le dinamiche di potere interne al carcere ho acquisito una nuova consapevolezza. La guerra tra noi e loro riguarda il corpo: chi lo controlla e chi lo spezza. Il potere dei secondini si basa sul controllo dei nostri corpi, per questo sono ossessionati dalla sottomissione fisica: rasano i capelli, spogliano, perquisiscono, non ci danno da mangiare e ci negano vestiti e libri così che non possiamo nutrire neanche le nostre menti. I tiranni ricevono autostima da questo abuso.

Si può pensare che gli scioperi della fame siano incoraggiati dalle autorità, perché hanno il loro stesso obiettivo: spezzare il corpo del prigioniero. Ma quando sei tu che scegli di spezzare il tuo corpo gli sottrai la loro fonte di potere. Sono loro che hanno il diritto di spezzare, non tu, perciò ti alimentano e ti salvano con la forza per riprendere il controllo e riconquistare l’autorità e il fulcro della loro esistenza. Il messaggio è: se tenti di nutrire il tuo corpo, lo distruggeremo. Se cerchi di demolirlo, lo risaniamo, per poterlo abbattere di nuovo con le nostre mani.

Guardo la battaglia di Abdel Fattah per la libertà e capisco. Non lotta per morire, ma per vivere. Usa la sua ultima arma di resistenza: il possesso del suo corpo. Lo fa perché non ha altra scelta. Per dirla con le sue parole: “Sono in carcere perché quelli che stanno al potere vogliono fare di alcuni di noi un esempio. Saremo un esempio allora, ma a modo nostro”.

L’arrivo di Sanaa Seif a Sharm el Sheikh il 7 novembre è stato uno degli eventi più seguiti della Cop27. La conferenza stampa che ha tenuto il giorno dopo era piena di gente. Ha detto: “Mio fratello e io abbiamo visto nostro padre morire mentre eravamo in carcere. Ma non gli è bastato. Abbiamo esaurito le vie legali, ma non gli è bastato. Siamo incastrati in questa tragedia, e sono qui a parlare non solo della mia famiglia, ma di tutta la generazione della primavera araba, che paga il prezzo della rivoluzione ed è stata torturata in carcere e negli obitori”.

Il regime ci ha messo nove anni a costruire la bolla che tiene l’Egitto in una morsa. Per mantenerla ci hanno pompato dentro tutta la loro propaganda, i loro abusi, le prigioni e fiumi di sangue. Sanaa Seif l’ha fatta scoppiare ed è apparso chiaro che il mondo si è schierato con l’oppresso.

La rabbia consuma il regime che ha speso milioni per ospitare una conferenza il cui obiettivo principale era insabbiare i suoi crimini e occultare le violazioni, ma si è trasformata in una piattaforma globale che mette sotto i riflettori la questione dei detenuti. Le autorità muoiono dalla voglia di arrestare Sanaa Seif, ma non possono farlo sotto gli occhi del mondo. Seif dice: “Alaa ha già vinto. Indipendentemente da come andranno le cose, quello che è successo mette fine alla battaglia in corso dalla rivoluzione del 25 gennaio: in assenza di armi, la vostra narrazione è troppo piccola e banale per reggere”.

Dopo anni di carcere, è difficile per me aggrapparmi alla speranza. Ma oggi guardo Alaa Abdel Fattah che combatte con il suo corpo fragile, e Sanaa Seif con la sua voce forte, e voglio credere che il capitolo finale si stia ancora scrivendo. Scelgo di sognare che abbraccerò Abdel Fattah e la sua famiglia. Scelgo di credere che non siamo ancora stati sconfitti. ◆ fdl

Abdelrahman el Gendy è un ex prigioniero politico egiziano. Ha trascorso in carcere sei anni: è stato arrestato nell’ottobre 2013, quando aveva diciassette anni, e rilasciato nel gennaio 2020.

Da sapere
Due lettere scritte a mano

Alaa Abdel Fattah, protagonista della rivoluzione del 2011 e in carcere da anni, ha avviato uno sciopero della fame il 2 aprile 2022 e il 6 novembre, giorno dell’apertura della Cop27 a Sharm el Sheikh, anche della sete. Il 14 novembre i suoi familiari hanno ricevuto una sua lettera scritta a mano datata due giorni prima in cui afferma di stare bene e di aver ricominciato a bere acqua. Il 15 novembre in un’altra lettera consegnata alla famiglia Abdel Fattah annuncia di aver messo fine allo sciopero della fame. I familiari hanno ricevuto il permesso di visitarlo in carcere il 17 novembre. Al Jazeera


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Questo articolo è uscito sul numero 1487 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati