Repubblica Democratica del Congo

Quattro mesi dopo la caduta di Bunagana, un centro importante al confine tra la Repubblica Democratica del Congo (Rdc) e l’Uganda, i ribelli del Movimento 23 marzo (M23) continuano ad avanzare verso Goma (il 13 novembre erano fermi a una ventina di chilometri dalla città). Nel capoluogo della provincia del Nord Kivu gli abitanti sono in preda alla paura e alla rabbia. Paura di assistere a una nuova ondata di profughi (le Nazioni Unite ne hanno già contati 180mila). E rabbia contro diversi obiettivi. Per esempio, contro l’esercito congolese, che dovrebbe fermare i ribelli, ma è paralizzato dalla mancanza di mezzi e dalla sfiducia dei soldati nei confronti degli ufficiali. Nel mirino ci sono anche il disinteresse delle autorità di Kinshasa, ma soprattutto il Ruanda, accusato di sostenere i ribelli. Questa rabbia è condivisa dal governo, che alla fine di ottobre ha espulso l’ambasciatore ruandese Vincent Karega. Secondo il ministro degli esteri della Rdc, “le autorità ruandesi hanno dimostrato che non possiamo fidarci di loro”. L’amarezza dei leader congolesi è forte, anche perché il presidente Félix Tshisekedi aveva moltiplicato i gesti di buona volontà verso il paese vicino, concedendo a Kigali vantaggi commerciali.

Il problema è che Tshisekedi aveva riservato anche all’Uganda importanti agevolazioni commerciali e militari. Per esempio, aveva permesso all’esercito di Kampala di entrare nel suo territorio per condurre operazioni contro la milizia Forze democratiche alleate (Adf), che da oltre vent’anni si oppone al presidente Yoweri Museveni, ma attacca e uccide soprattutto civili congolesi. Inoltre, gli ugandesi, rivali commerciali dei ruandesi, erano stati autorizzati a costruire una strada che collega Beni a Kasindi, importante per le esportazioni di coltan e oro verso l’Uganda.

La guerriglia riparte

Secondo gli osservatori, le rivalità commerciali tra Kigali e Kampala, e il desiderio di controllare le vie di comunicazione, sarebbero all’origine della “risurrezione” dell’M23. Dieci anni fa il movimento – che riuniva tutsi congolesi ma anche miliziani ruandesi e ugandesi – era stato messo all’angolo dall’esercito congolese e dalla missione dell’Onu Monusco. Il leader ribelle Bosco Ntaganda era stato arrestato e mandato alla Corte penale internazionale, dove aveva confermato le sue origini ruandesi. Trasferiti nei campi profughi in Uganda, i combattenti ribelli avevano sperato di trarre benefici, come altri prima di loro, dall’amnistia e dalle offerte d’integrazione nell’esercito congolese, anche ad alti livelli. Ma così non è andata. Lo spiegamento delle forze ugandesi nel Nord Kivu, l’arrivo di altri eserciti regionali (Sud Sudan, Kenya, Burundi) per conto della Comunità dell’Africa orientale, e il fatto che il Ruanda sia stato escluso da questa iniziativa (dai contorni e dai finanziamenti poco chiari), sono tutti sviluppi che Kigali ha percepito come “atti ostili”, e che forse l’hanno spinta a dare il suo sostegno militare ai ribelli.

Gli Stati Uniti hanno pubblicato un comunicato che condanna la ripresa dei combattimenti dell’M23, chiedendo che riparta il dialogo intercongolese sul disarmo, la smobilitazione e il reinserimento nella società degli ex combattenti. Hanno inoltre chiesto ai paesi della regione di porre fine al sostegno accordato all’M23 e ad altri gruppi armati.

Nel frattempo l’avanzata dell’M23 è fonte di frustrazione per Kinshasa e d’indignazione per l’opinione pubblica congolese. E minaccia di accentuare il pericoloso isolamento del Ruanda e il rischio che scoppi una terza “guerra africana” in territorio congolese. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1487 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati