Immaginate un parco zoologico antartico. Immaginate i visitatori, con indosso pesanti cappotti invernali, cappelli e guanti, mentre entrano in una grande gabbia climatica, accolti dal garrito rauco dei pinguini Imperatore. Sulle rocce che si alternano ai ghiacci, i pinguini di Adelia raccolgono comicamente piccoli ciottoli. Sopra le loro teste volano i petrelli delle nevi. Nella sezione dedicata ai mammiferi marini, le tondeggianti e variopinte foche di Weddell si immergono lentamente nelle acque cristalline. Una bambina avvolta in una tuta da neve le osserva premendo le mani contro il vetro spesso, separata dall’Antartide da pochi centimetri trasparenti.

Nello zoo i pinguini e le foche sono gli animali più importanti, ma a impressionare di più è la fauna bentonica, cioè gli animali che popolano i fondali marini. Ci sono anemoni grandi come cesti, stelle marine a dodici punte che crescono fino a raggiungere le dimensioni del coperchio di un bidone per la spazzatura; i cosiddetti ragni marini, il cui corpo è talmente sottile che gli organi riproduttivi e il tratto digestivo devono incunearsi all’interno delle zampe. E poi ci sono i pesci, tra cui sedici specie di “pesci ghiaccio” nototenioidei che vivono a 2,2 gradi sotto zero e mantengono i loro organi liberi dal ghiaccio rimpinzandosi di proteine antigelo.

Dopo essersi lasciati alle spalle la sala principale di questo parco a bassa temperatura, i visitatori passano sotto una replica dello scheletro di un berardio australe, una specie conosciuta soprattutto grazie a un cranio ritrovato sulle coste della Nuova Zelanda nel 1846. Nello zoo non c’è abbastanza spazio per i grandi cetacei, ma questi resti raccontano tutti i segreti dell’oceano australe, un luogo talmente vasto e inesplorato da poter facilmente nascondere branchi di mammiferi lunghi dieci metri ciascuno.

Purtroppo, però, questo parco delle meraviglie antartiche non esiste. È solo un’idea nata dalla fantasia di Lloyd Peck, biologo dell’organizzazione British antarctic survey che da trent’anni studia la vita in Antartide e nell’oceano australe. In un’epoca in cui ampie parti del continente si stanno riscaldando rapidamente, Peck si rende conto del pericolo imminente. Gli animali che dipendono dal ghiaccio marino per la riproduzione – le foche di Weddell, i pinguini imperatore e di Adelia – si spostano più a sud, lungo gli strati sottili che svaniscono progressivamente. I delicati coralli molli, i ragni marini e altre specie che si sono adattate alle temperature più fredde dei fondali rischiano di morire di fame perché le acque calde fanno aumentare il loro fabbisogno energetico.

Visto attraverso gli occhi di Peck, lo zoo antartico più che un sogno sembra una necessità. Eppure, mentre tutte le risorse di organizzazioni e agenzie governative sono dedicate alla protezione di poche specie che attirano l’attenzione dell’opinione pubblica, l’imminente collasso di un ecosistema unico passa quasi inosservato. Un parco rappresenta un sostegno per un ecosistema in crisi, una polizza assicurativa che potrebbe permetterci di ripopolare l’ambiente nel caso in cui l’umanità riuscisse a fermare le emissioni di CO2 e l’Antartide potesse guarire. “Abbiamo le banche dei semi per l’agricoltura e i parchi per conservare le specie a rischio”, sottolinea Peck. “Ma per l’Antartide non c’è niente di simile”.

Perdere una specie endemica in Antartide significa perderla ovunque, lasciando scomparire un pezzo del patrimonio del nostro mondo

La pompa della biodiversità

Le più vecchie descrizioni scientifiche degli animali antartici risalgono a metà dell’ottocento. Uno dei primi esemplari a essere esaminati, un Glyptonotus antarcticus, fa parte di una famiglia di crostacei che comprende anche le pulci di mare di cui sono piene le nostre spiagge. Ma al contrario delle pulci, cresce fino a raggiungere le dimensioni di una mano. Il gigantismo è molto diffuso nel continente. Le eccezionali dimensioni delle creature antartiche sono probabilmente dovute ai più alti livelli di ossigeno contenuti nelle acque fredde, che forniscono agli animali più carburante per crescere. Anche il modo in cui si è formata l’Antartide ha contribuito all’unicità e alla diversità della vita lungo le sue coste. Dopo la separazione del continente dal Sudamerica, circa trenta milioni di anni fa, la vorticosa corrente circumpolare ha creato una barriera che solo le creature marine più forti sono riuscite a superare. E ha anche separato l’Antartide dalle acque più calde degli oceani vicini, innescando un graduale calo della temperatura. Settanta milioni di anni fa le temperature superficiali dell’oceano australe raggiungevano anche i 21 gradi centigradi. Oggi raramente superano gli 1,1 gradi.

Il raffreddamento era una tendenza generale, ma nei millenni ci sono stati anche periodi di riscaldamento. Mentre il pianeta oscillava tra temperature sotto zero e climi temperati, il ghiaccio marino e i ghiacciai ricoprivano e poi scoprivano i fondali sulla piattaforma continentale. Secondo una teoria, questa periodica apertura e chiusura degli habitat ha funzionato come una sorta di “pompa della biodiversità”, generando la fauna bentonica che, in nicchie riparate, può crescere fino a creare una foresta pluviale sottomarina di spugne, coralli molli e giganteschi anemoni di mare. Si stima che nelle acque profonde che circondano il continente antartico vivano circa ventimila specie, un livello di biodiversità comparabile con quello di altri ambienti marini, fatta eccezione per le barriere coralline tropicali. Eppure di queste specie non si sa quasi nulla. “Solo ottomila hanno un nome”, spiega Melody Clark, biologa molecolare del British antarctic survey. Un nome è solo il primo passo di uno studio scientifico. Di queste ottomila specie, aggiunge Clark, conosciamo i cicli vitali e i rapporti ecologici “solo di una manciata delle più comuni, che si trovano facilmente vicino alle stazioni di ricerca. C’è ancora tantissimo di cui non sappiamo nulla”.

Clark è particolarmente interessata agli adattamenti molecolari al freddo, un fenomeno esemplificato dai pesci ghiaccio. A differenza di tutti gli altri vertebrati, i pesci ghiaccio non hanno globuli rossi e dunque neanche l’emoglobina, la proteina che trasporta l’ossigeno. I vasi sanguigni dei pesci ghiaccio sono più grandi di un terzo rispetto a quelli di altri pesci di dimensioni simili che vivono in regioni più temperate, e questo permette all’ossigeno nell’ambiente di circolare liberalmente dentro il loro corpo. “Dal punto di vista biologico sono più unici degli elefanti, dei leoni, delle tigri, delle aquile e di tutti gli animali più noti”, sottolinea Peck. “Nei pesci ghiaccio la vita funziona in modo diverso”. Ma questa diversità sembra condannata a sparire. Dal 1950 l’aria che circola intorno all’Antartide si è riscaldata di tre gradi, a un ritmo cinque volte superiore rispetto alla media globale. Si stima che la temperatura della superficie dell’oceano australe salirà di un grado nei prossimi cinquant’anni. Per gli animali che si sono adattati a vivere in acque che restano stabilmente sotto lo zero questo piccolo aumento può avere conseguenze enormi. Le acque più calde, infatti, contengono meno ossigeno. In sostanza il pesce ghiaccio “potrebbe rappresentare un vicolo cieco dell’evoluzione”, spiega Clark.

E non è l’unica creatura su cui incombe questa minaccia. Secondo alcuni studi, due terzi delle specie terrestri del continente subiranno un declino causato dal riscaldamento climatico e dallo scioglimento dei ghiacci. Le prospettive per le specie marine sono altrettanto disastrose. Gli esperimenti di Peck e Clark hanno dimostrato che anche un innalzamento minimo delle temperature può provocare nei briozoi e nei policheti – i principali colonizzatori dei fondali vicino alle coste – cambiamenti del metabolismo che li rendono incapaci di immagazzinare abbastanza nutrienti durante i quattro mesi della notte polare, quando il plancton di cui si nutrono scarseggia.

Un esperimento irripetibile

Ma perché dovremmo cercare di salvarli tutti? Qual è il valore di una specie? Cosa importa se un pesce ghiaccio di cui non abbiamo mai sentito parlare sparisce nei risvolti della storia? Un’argomentazione comune è che questi animali, con la loro capacità di adattamento al freddo, nascondono i segreti della conservazione dei tessuti e contengono enzimi che potrebbero sbloccare processi industriali a bassa temperatura. In un’ottica meno utilitaristica, sono il prodotto evolutivo di un esperimento naturale che difficilmente si ripeterà. Separata dal resto del mondo dalla corrente circumpolare, l’Antartide ospita una grande quantità di specie endemiche, di cui quasi metà non si trova in nessun altro luogo della Terra.

Perdere una specie endemica in Antartide significa perderla ovunque, lasciando scomparire un pezzo del patrimonio del nostro mondo. Non esistono riserve che in futuro potrebbero permetterci di reintrodurre questi animali in natura, almeno per il momento. Ma finché ci sarà l’azoto liquido potremo almeno conservare i dati genetici. Prima di costruire strutture per ospitare animali viventi, Clark e Peck vorrebbero creare uno “zoo congelato” per archiviare il materiale genetico della fauna antartica.

Questo archivio non solo garantirebbe una base per studiare l’adattamento al freddo, ma nell’idea di Peck permetterebbe in un futuro lontano di riportare in vita le specie scomparse. “Se le temperature tornassero a scendere avremmo almeno le informazioni necessarie per ricreare gli animali che in passato vivevano sulla Terra”, spiega. “Magari tra cinquecento anni potremmo ricostruire un intero ecosistema”.

Per quanto mettere da parte il dna sia molto più semplice che realizzare uno zoo per ospitare pinguini, foche e migliaia di creature di cui sappiamo poco o nulla, si tratterebbe comunque di un’impresa. Per conservare una porzione sufficiente della biodiversità, infatti, servirebbero almeno trenta o cinquanta esemplari di ognuna delle ventimila specie antartiche. Teniamo presente che queste ventimila specie sono solo quelle abbastanza grandi da essere viste a occhio nudo.

Anche le creature microscopiche dell’Antartide sono uniche nella loro capacità di adattarsi al freddo estremo: come i vertebrati antartici, anche i tardigradi, i rotiferi o i nematodi sono molto diversi dai loro “parenti” che vivono in zone temperate. Poi ci sono i batteri, per esempio quelli che nell’oscurità dell’inverno sopravvivono in luoghi dove i venti montani sferzano la roccia e le temperature scendono fino a sessanta gradi sottozero. Anche loro andrebbero raccolti. Nonostante tutte le difficoltà, si può immaginare di poter compiere un simile sforzo, soprattutto considerando che il costo del sequenziamento genico si riduce ogni anno. “Potremmo farlo senza grossi problemi, se solo ci fossero i soldi”, conferma Clark. “Ma finora non sono state avviate iniziative valide”.

Con più risorse sarebbe possibile sviluppare progetti di riproduzione in cattività per le creature antartiche, non necessariamente su una scala così vasta come quella immaginata da Peck nella sua idea di un ecosistema chiuso (anche se questo sarebbe lo scopo finale) ma abbastanza da garantire che almeno una manciata di animali dell’Antartide possa passare attraverso il collo di bottiglia del cambiamento climatico. Per riuscirci, però, bisogna cominciare a lavorare immediatamente.

“Sull’allevamento di queste specie sappiamo pochissimo”, sottolinea Peck. Di gran parte dei ragni marini giganti, per esempio, gli scienziati non conoscono nemmeno le abitudini alimentari e non sarebbero in grado di stimolarli all’accoppiamento e neanche solo di mantenerli in vita. “Anche se cominciassimo immediatamente, servirebbero forse trent’anni prima di costruire strutture adeguate”, spiega Peck. “Verosimilmente tra cinquant’anni cominceremo a perdere un numero significativo di specie antartiche, se non avvieremo in fretta il processo di conservazione”.

Così come una città non è definita solo dalle persone che la abitano, l’Antartide non si esaurisce nella sua fauna. È un luogo fatto di calma ed enormi spazi vuoti. Per milioni di anni immensi blocchi di ghiaccio hanno brillato di blu, scavati dai venti e dalle onde in un’infinita varietà di forme. Oltre al rumore del ghiaccio che stride e si spacca, l’unico altro suono è quello dello sfiatatoio delle balene. Simulare questo ambiente è impossibile.

Uno zoo antartico che contenga animali vivi o solo le loro sequenze genetiche è un ecosistema da tenere in vita artificialmente. L’immagine è deprimente: un continente ridotto a poche bolle di cattività, a un promemoria di un mondo perduto. Ma in fondo il ricordo sarebbe comunque meglio dell’oblio. “Spesso dico ai miei studenti: ‘Se qualcosa si riscalda, cosa scompare?’”, racconta Peck. “Scompaiono le aree fredde. Ci saranno aree calde per le cose calde, aree tiepide per quelle tiepide, ma senza zone fredde, come si fa?” ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1537 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati