Il governo di Giorgia Meloni ha avviato l’iter per mettere in amministrazione straordinaria il più grande stabilimento siderurgico d’Europa, quello di Taranto, perché non trova un accordo con la ArcelorMittal sul futuro dell’impianto. La decisione arriva dopo uno stallo tra Roma e il colosso industriale su un aumento di capitale di 320 milioni di euro per mantenere l’ex Ilva in attività e pagare le bollette del gas in sospeso.

L’acciaieria è gestita dalla Acciaierie d’Italia, un’azienda che ha come socio di maggioranza la ArcelorMittal, multinazionale della siderurgia, e come socio di minoranza Invitalia, l’agenzia pubblica per gli investimenti. In passato l’ex Ilva è stata a lungo al centro di problemi ambientali e fatica ad andare avanti: con una produzione scesa l’anno scorso a meno di tre milioni di tonnellate di acciaio a fronte di una capacità produttiva di otto milioni. Un tribunale ha stabilito che la Snam, la società che si occupa della distribuzione del metano, può interrompere la fornitura di gas all’azienda siderurgica, che ha duecento milioni di euro di bollette in sospeso, anche se la Acciaierie d’Italia ha presentato ricorso. Ma chiudere uno stabilimento dove lavorano diecimila persone è un problema politico per Giorgia Meloni.

Quando l’ex Ilva sarà in amministrazione straordinaria – una procedura del diritto fallimentare per mantenere operative grandi aziende con problemi di liquidità – Roma potrà nominare un amministratore delegato che solleverà dalla gestione la ArcelorMittal in attesa di trovare un acquirente. Il governo sta predisponendo un prestito ponte da 320 milioni di euro mentre cerca un nuovo socio. Aditya Mittal, amministratore delegato dalla ArcelorMittal, ha chiarito ai ministri italiani che l’azienda non era più disposta a investire altri soldi nell’impianto.

Il governo – che lo scorso anno ha accordato all’acciaieria un finanziamento d’emergenza da 680 milioni di euro – ha detto che Invitalia poteva mettere nuovi capitali convertendo quel prestito in quote, diventando così azionista di maggioranza. Ma sono state espresse forti perplessità su come dovrebbe essere governata la Acciaierie d’Italia se Invitalia diventasse azionista di maggioranza.

Dopo il mancato raggiungimento dell’accordo, Adolfo Urso, il ministro delle imprese e del made In Italy, ha detto in parlamento: “Sono ore decisive per garantire, in assenza di impegno del socio privato, la continuità della produzione e la salvaguardia dell’occupazione, nel periodo necessario a trovare altri investitori”. Il ministro dell’economia e delle finanze Giancarlo Giorgetti ha spiegato che l’Italia ha bisogno di “partner che condividano questa grande ambizione di produrre acciaio in Italia in modo compatibile con l’ambiente”, e che il governo è disposto a fare gli investimenti che servono.

Danni all’ambiente

Costruita nel 1960, la fabbrica un tempo era motivo d’orgoglio. Ma si è rivelata un disastro dal punto di vista ambientale, diffondendo agenti cancerogeni che, secondo gli abitanti della zona, hanno provocato un aumento dei casi di tumore.

Nel 2014 Roma ne ha preso il controllo, con l’obiettivo di trovare nuovi proprietari per rinnovare lo stabilimento ormai obsoleto, rimettere in sesto le finanze e aumentare la produzione. Nel 2018 la ArcelorMittal si è accordata per un contratto di affitto con obbligo di acquisto da 1,8 miliardi di euro, promettendo centinaia di milioni di euro per la bonifica ambientale. Per avere il via libera dall’autorità europea sulla concorrenza, il gruppo siderurgico ha dovuto vendere varie acciaierie in Europa. Ma nel 2019 al governo è arrivato il Movimento 5 stelle, che ha tolto dal contratto la clausola del cosiddetto scudo penale, che garantiva alla ArcelorMittal l’immunità nel caso di eventuali accuse di reato, compreso quello ambientale. La ArcelorMittal ha minacciato di recedere dal contratto ma poi si è accordata per formare un’azienda con Invitalia e dirigere insieme la fabbrica.

Le relazioni sono sempre state tese, con le due parti che si accusavano a vicenda di non rispettare gli impegni presi. L’aumento dei prezzi del gas del 2022 ha fatto salire ancora di più la tensione. ◆ nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1547 di Internazionale, a pagina 31. Compra questo numero | Abbonati