Negli anni sessanta, da bambino, John Handeland giocava sulla spiaggia di Nome, un paesino poco più a sud dello stretto di Bering, in Alaska, dove all’inizio del novecento si erano stabiliti i suoi antenati norvegesi in cerca di oro. Handeland, che oggi è il sindaco del paese, ricorda il filo spinato messo durante la seconda guerra mondiale, quando gli Stati Uniti temevano un’invasione del Giappone attraverso l’Alaska. Con il passare del tempo il nemico era diventato l’Unione Sovietica e sulle colline i radar, oggi abbandonati, dovevano anticipare un potenziale attacco con armi atomiche. Poi all’improvviso c’era stata la distensione portata avanti da Michail Gorbačëv e Ronald Reagan, e nel 1988 Handeland, insieme ad altri ottanta abitanti di Nome, aveva preso “l’aereo dell’amicizia” per andare a Providenija, un villaggio siberiano dall’altra parte dello stretto. “Abbiamo passato lì la giornata, superando la linea del cambio di data (la linea che segue il 180° meridiano ed è usata per separare l’oggi dal domani)”, ricorda Handeland. Dopo la fine della guerra fredda la città ha abbassato la guardia. Da allora il riscaldamento globale ha provocato lo scioglimento dei ghiacci che bloccavano lo stretto di Bering, mentre l’invasione russa dell’Ucraina ha fatto di nuovo crescere la tensione tra Mosca e Washington. “Prima il ghiaccio proteggeva il nostro territorio, ma oggi la banchisa si è ritirata e un nuovo oceano si apre davanti a noi. La costa è più esposta a un’aggressione”, dice Michael Sfraga, presidente del Polar institute del Wilson center, a Washington, e della Commissione di ricerca sull’Artico del governo degli Stati Uniti.

Questo cambiamento, allo stesso tempo geografico e politico, ha creato le basi per una nuova guerra fredda intorno ai poli. Gli statunitensi stanno rialzando la guardia, come dimostra la scelta di ingrandire e rendere più profondo il porto di Nome, ormai libero dai ghiacci da aprile a ottobre. In questo modo vogliono sorvegliare lo stretto di Bering e mostrare ai russi che non si lasceranno intimidire. Inoltre all’inizio del 2021 l’esercito statunitense ha introdotto un nuovo concetto strategico chiamato “regaining arctic dominance”, riprendere il controllo sull’Artico. E durante l’ultimo inverno ha svolto una serie di manovre nei ghiacci dell’Alaska con ottomila soldati per testare le capacità militari e le attrezzature, in gran parte inadatte. “Gli Stati Uniti hanno passato l’ultimo ventennio a combattere nel deserto, in Iraq e in Medio Oriente. L’addestramento e l’equipaggiamento sono stati ideati per quelle condizioni, e sono state trascurate le possibilità di combattere al freddo”, sostiene Sfraga. “Per questo la mobilitazione della 11a divisione aviotrasportata è un segnale importante”. Da giugno questa unità, attiva nelle Filippine durante la seconda guerra mondiale, si sta addestrando in Alaska.

Una nave rompighiaccio nello stretto di Bering, novembre 2017 (Elena Chernyshova, Panos/Luz)

Ripercorrendo la storia si capisce la complessità dell’Alaska, un territorio dimenticato ma allo stesso tempo fondamentale per il posizionamento degli Stati Uniti nel Pacifico e nell’Asia del nord. I militari statunitensi lo hanno sempre saputo. All’inizio del novecento il generale Billy Mitchell aveva fatto installare sulla penisola, grande tre volte la Francia, una rete telegrafica dichiarando: “Chi controllerà l’Alaska controllerà il mondo”.

Quei luoghi sono popolati da millenni dai nativi iñupiat e dagli yupik, popolazioni che vivono di caccia, pesca, raccolta di bacche e radici. Furono colonizzati dalla Russia dello zar Pietro il grande, che nel 1728 chiese all’esploratore danese Vitus Bering di verificare se l’Asia e l’America formavano un solo continente. Bering scoprì l’esistenza dello stretto che oggi porta il suo nome. I russi si dedicavano soprattutto al commercio di pellicce. Ma con l’inizio della corsa all’oro di metà ottocento – quando gli statunitensi arrivarono a San Francisco e gli inglesi si stabilirono nella baia di Hudson in Canada –, i russi capirono che non sarebbero mai riusciti a mantenere il controllo della regione. Così, invece di rischiare di perdere una guerra contro il nemico dell’epoca, l’impero britannico, preferirono vendere il territorio ai loro amici statunitensi per 7,2 milioni di dollari. Era il 1867.

Da allora l’Alaska attraversa cicli di crescita e di crisi, a seconda di come cambia la sua rilevanza sul piano militare ed energetico, come spiega Troy Bouffard, direttore del centro per la sicurezza e la resilienza dell’Artico a Fairbanks. Nel 1897 e nel 1904 i cercatori d’oro arrivarono a Nome, a Fairbanks e nella regione dello Yukon (che oggi fa parte del Canada). Poi l’Alaska fu dimenticata e i politici locali chiesero inutilmente a Washington di costruire una strada che collegasse la regione al resto degli Stati Uniti.

Le cose cambiarono di nuovo il 7 dicembre 1941, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, che convinse gli Stati Uniti a entrare nella seconda guerra mondiale. All’improvviso il presidente Franklin Delano Roosevelt decise che quella strada serviva. Fu costruita in pochi mesi nel 1942 grazie allo sforzo di ventimila tra militari e civili: quasi 2.500 chilometri che collegano Dawson Creek, nella British Columbia (Canada), e Fairbanks. All’epoca Washington e Mosca erano alleate, e gli Stati Uniti mandarono ai sovietici 7.835 aerei e bombardieri attraverso l’Alaska.

Destini diversi

La guerra fredda ha cambiato le alleanze, ma ha rafforzato l’interesse strategico della regione. Così furono create diverse basi militari ad Anchorage e a Fairbanks, insieme a una rete di radar con il Canada per rilevare un possibile attacco atomico. Nel 1968 a Prudhoe Bay fu scoperto un grande giacimento di petrolio e nel 1977 fu inaugurato un oleodotto di 1.030 chilometri che sbocca sul Pacifico a Valdez, un porto sempre libero dai ghiacci.

Tuttavia, fino a poco tempo fa l’Alaska aveva un’importanza limitata dal punto di vista energetico, perché il suo petrolio è molto più difficile da prelevare rispetto al gas e al petrolio di scisto del Texas. Lo stato si avviava a diventare un santuario naturalistico in un periodo di crisi climatica e minacce alla biodiversità, una sorta di luogo di espiazione per gli statunitensi. “Il resto del paese”, accusa Handeland, “ha usato l’Alaska per pulirsi la coscienza: siccome gli altri stati avevano rovinato il loro territorio, noi avremmo dovuto lasciare l’Alaska incontaminata, evitando di estrarre il petrolio e chiudendo le miniere. Ma per noi le risorse naturali sono una grande fortuna e dobbiamo sfruttarle”.

Gli ultimi eventi sembrano dare ragione a Handeland. L’Alaska sta tornando ad avere un ruolo chiave sia per motivi militari sia per le sue fonti strategiche. Il suo petrolio è importante nel tentativo occidentale di isolare la Russia. Il monopolio dei cinesi nello sfruttamento delle terre rare rafforza l’interesse delle risorse minerarie dello stato. Infine, l’Alaska ha le acque più pescose del mondo: nel mare di Bering i salmoni risalgono a nord dello stretto nei mari dei Ciukci e di Beaufort, dove gli statunitensi hanno creato una riserva che attira l’interesse dei paesi asiatici, in particolare della Cina.

Mentre la guerra in Ucraina continua, la Russia e gli Stati Uniti si osservano dai due lati dello stretto. Entrambi sanno che quel luogo è più importante per i russi che per gli americani. Mosca infatti non può permettersi di aprire un secondo fronte militare e perdere l’accesso al Pacifico, anche se in teoria è garantito dalle acque territoriali. “I russi non vogliono avere dei problemi nello stretto di Bering, è la loro via d’uscita sull’Artico”, dice Bouffard. È dal 2017 che i russi esportano il gas naturale liquefatto (gnl) prodotto nella penisola di Yamal (in Siberia) e le materie prime destinate alla Cina e all’Asia. Questo per un motivo semplice: la costa artica russa è libera dai ghiacci gran parte dell’anno a causa dell’acqua dolce che arriva dai grandi fiumi siberiani e all’influenza della corrente del Golfo proveniente dall’Atlantico. Queste regioni settentrionali rappresentano un quinto del prodotto interno lordo russo, e Mosca sta facendo di tutto per sfruttare le risorse, con circa cinquanta navi rompighiaccio e quindici per il trasporto del gnl costruite in Corea del Sud.

Kotzebue, Alaska, luglio 2019 (Laurent Weyl, Argos/Panos/Luz)

Queste imbarcazioni, lunghe trecento metri, possono navigare dove il ghiaccio è spesso due metri, ma sono così costose che per ridurre il loro tempo di utilizzo prima del conflitto in Ucraina il loro carico era rapidamente trasferito su navi tradizionali nei porti norvegesi – Washington era irritata con Oslo per questa collaborazione – e nei porti della costa pacifica russa, sull’isola di Sachalin.

La situazione è molto diversa per gli Stati Uniti. Il mitico passaggio a nordovest, che doveva permettere di collegare l’Europa al Pacifico attraverso la costa settentrionale del Canada e dell’Alaska, rimane bloccato dai ghiacci ed è inaccessibile. Un’agenzia turistica di lusso è riuscita a vendere due viaggi in nave da Vancouver a New York nel 2016 e nel 2017, ma la frontiera non è definita e per ora la zona non ha nessun interesse economico. I campi petroliferi di Prudhoe Bay sull’Artico sono pieni di gas naturale, ma per sfruttarlo servirebbero investimenti notevoli. Un nuovo oleodotto, che porterebbe il gas naturale a sud di Anchorage – dove sarebbe trasformato in gnl – costerebbe quasi quaranta miliardi di dollari. Il riscaldamento globale renderà teoricamente possibile collegare Prudhoe Bay con navi metaniere attraverso l’Artico e lo stretto di Bering, ma bisognerebbe creare un porto con acque profonde.

Ma per ora i soldi non ci sono. Qualche anno fa la Cina era molto interessata al gnl, ma le relazioni tra Washington e Pechino potrebbero peggiorare in caso di un’invasione cinese di Taiwan. Di conseguenza i politici dell’Alaska confidano nel Giappone per cercare di rilanciare il loro faraonico progetto.

Per quanto riguarda le materie prime, gli statunitensi vogliono sfruttare le terre rare e il rame nel nord dell’Alaska per liberarsi dalla dipendenza cinese, e prevedono di costruire una strada nel nordest dello stato, la cosiddetta strada di Ambler, con un costo che potrebbe raggiungere un miliardo di dollari. Ma oltre a essere costosi, questi progetti sono contestati a causa delle loro conseguenze sulla migrazione dei caribù. Quindi per ora è soprattutto la Russia a essere più attiva dal punto di vista economico.

In questo contesto gli statunitensi non vogliono inviare un messaggio sbagliato

Per quanto riguarda gli aspetti militari, negli ultimi anni i rapporti tra i due paesi sono diventati più tesi e spesso i giornali hanno riportato notizie di screzi tra l’aviazione russa e americana ai confini tra la Siberia e l’Alaska. Dall’inizio della guerra in Ucraina alcuni russi parlano di voler recuperare l’Alaska. “Quando gli statunitensi cercano di appropriarsi dei nostri beni all’estero, devono essere consapevoli che anche noi abbiamo qualcosa da chiedere”, ha minacciato il 6 luglio Vjačeslav Volodin, presidente della duma, la camera bassa del parlamento russo.

Una fredda quiete

Ma sul campo la situazione è tranquilla. Gli statunitensi non hanno bisogno di aumentare la pressione, l’Alaska è ampiamente difesa grazie alla presenza dei caccia F-35, che prima erano in Afghanistan: “A Fairbanks c’è la più grande concentrazione al mondo di F-35”, dice Sfraga. A loro si aggiunge il sistema antimissile di Delta Junction, a sud di Fairbanks, che dovrebbe intercettare i missili russi e nord­coreani. Infine, i ghiacci nascondono un’intensa attività di sottomarini russi e statunitensi.

In questo contesto gli americani non vogliono inviare un messaggio sbagliato, dice Amy Laurent Lovecraft, direttrice del centro studi delle politiche artiche all’università dell’Alaska, a Fairbanks: “Il porto di Nome non sarà una base della marina militare. Non vogliamo dare un pretesto ai russi per militarizzare l’Artico”. Il porto permetterà di far attraccare le navi militari statunitensi, a eccezione delle portaerei, di rifornirsi o di cambiare equipaggio senza dover tornare ad Anchorage, a 1.500 chilometri. La guardia costiera invece dovrebbero diventare una presenza più stabile nello stretto, per vigilare sulla pesca clandestina – spesso cinese – e fare degli interventi di soccorso più rapidi.

Finora il porto più attrezzato era mille chilometri più a sud, sull’isola di Kodiak, nell’arcipelago delle Aleutine. Le navi che faranno sosta a Nome potranno disporre di un nuovo ospedale, costruito su piloni per resistere allo scioglimento del permafrost. Tuttavia, gli statunitensi sono indietro rispetto ai russi: “I nostri guardiacoste hanno solo due rompighiaccio e la marina militare nessuna, mentre i russi ne hanno 55, di cui cinque a propulsione nucleare”, dice Bouffard. A preoccupare è anche il sistema antimissile. Lungo i villaggi della costa artica si possono vedere dei radar degli anni cinquanta abbandonati, come a Nome, o che funzionano solo una volta a settimana, come a Utqiaġvik, villaggio di pescatori di balene nell’estrema punta nord dell’Alaska. La rete, gestita da Stati Uniti e Canada, andrebbe modernizzata, ma il progetto è in ritardo. Il governo canadese di Justin Trudeau – criticato da Washington perché contribuisce poco al budget della Nato – ha promesso di spendere trenta miliardi di dollari in venti anni, di cui quattro miliardi nel corso dei prossimi sei anni. “La minaccia è cambiata”, ha detto a fine giugno la ministra della difesa canadese Anita Anand, riferendosi all’invasione russa dell’Ucraina. “E ciò ci obbliga a concepire e sviluppare questo nuovo capitolo della difesa continentale”.

In realtà questo argomento sembra secondario rispetto al ritardo accumulato dagli statunitensi nei confronti di cinesi e russi nella corsa ai missili ipersonici, che possono volare a più di seimila chilometri all’ora a bassa altitudine e cambiare direzione. In altre parole, sono armi impossibili da fermare. “Gli strumenti per intercettare queste armi non esistono e forse non sono realizzabili”, dice Bouffard. “I loro piani sono preoccupanti e questo ci obbliga a ripensare tutta la nostra difesa. Strategicamente i russi sono stati molto bravi, hanno superato le nostre difese con qualcosa di molto semplice”. Per recuperare il ritardo il Pentagono ha annunciato di essere riuscito a lanciare nel deserto del New Mexico due missili fabbricati dalla Lockheed Martin capaci di raggiungere una velocità cinque volte superiore a quella del suono. Tuttavia, questo nuovo e importante capitolo strategico non è gestito in Alaska ma a Wash­ington.

L’Alaska , la cosiddetta “ultima frontiera”, diventata stato federale degli Stati Uniti nel 1959, dovrebbe essere pronta per la guerra in un ambiente freddo. Non si tratta di prepararsi a un’invasione russa: “Nessuno vuole invadere l’Alaska”, dice il sergente Garrett Philips, istruttore specializzato in guerra artica e di montagna nella base di Delta Junction. L’idea è di essere pronti a ogni evenienza: una flotta di pescherecci cinesi intrappolata nei ghiacci e che vede arrivare in suo aiuto l’esercito popolare di liberazione; un incidente di una petroliera russa e la conseguente marea nera che provoca scontri e conflitti territoriali; interventi in Svezia e in Finlandia, nuovi partner della Nato, o eventuali tensioni in Groenlandia, che nell’agosto 2019 Donald Trump aveva proposto piuttosto seriamente di ricomprare.

Per ora la situazione è molto incerta. Dopo l’inizio della guerra in Ucraina, la Russia non partecipa più ai forum in cui riuniscono i paesi dell’Artico. “Il cambiamento maggiore è che nell’Artico dovremo passare dalla cooperazione alla competizione”, commenta Bouffard. “La fiducia reciproca tra i partner artici è scomparsa”, ribadisce Lovecraft. ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1484 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati