L’ultimo traghetto sta per lasciare il porto di Geyikli. In questa serata di aprile c’è chi solo per un pelo riesce a tornare a casa sull’isola di Bozcaada, la cui sagoma, miglio dopo miglio, si staglia sempre più nitida all’orizzonte. Appare per primo il punto più alto dell’isola, la collina di Göztepe, seguita dall’imponente fortezza dalla quale hanno regnato gli ottomani e prima di loro i persiani, i romani, i bizantini, i genovesi e i veneziani. Ben presto si scorgono anche le casette che, alle spalle del porto e dei pescherecci, si tingono di rosa nella luce del tramonto.

Mio nonno deve aver avuto dodici anni quando per la prima volta ha messo piede sull’isola. Erano i primi anni sessanta e i traghetti ancora non c’erano. La spola tra Bozcaada e la terraferma la faceva il moto­scafo del capitano Yakar. Di forestieri su quella piccola isola turca nel nordest dell’Egeo, a sette chilometri appena dalla costa della provincia di Çanakkale, all’epoca praticamente non se ne vedevano.

Oggi le cose sono cambiate. Da quando Instagram ha reso famosa Bozcaada con le sue baie turchesi non ancora toccate dal turismo di massa, tutti vogliono venirci in cerca di pace e libertà.

Mi chiedo cosa ne penserebbe mio nonno. A lui non posso più chiederlo, ma so che è sempre stato pienamente consapevole della bellezza di quest’isola, dove il padre l’aveva mandato a vivere dai parenti perché era un ragazzino troppo turbolento. Bozcaada, un fazzoletto di terra di appena 37 chilometri quadrati non lontano dallo stretto dei Dardanelli, è ricoperta in gran parte da vigneti, circondata dal mare e piena di leggende. Guardando a nordest dalla collina di Göztepe s’intravede sulla terraferma l’altura di Hisarlık, dove si dice che un tempo sorgesse Troia. Secondo Omero fu proprio a Tenedos – nome mitologico dell’isola– che i guerrieri greci si nascosero dopo aver lasciato il cavallo di legno davanti alle porte della città. Se la guerra di Troia si fosse svolta davvero, sarebbe stato questo il punto migliore per osservare la città in fiamme. Come faccio sempre quando vengo a Bozcaada, passeggio per i vicoli del centro salendone i tanti scalini e lasciando che il mio sguardo vaghi da un capo all’altro della cittadina, dai due minareti, che si ergono in cielo spuntando tra le case, al campanile che sfiora l’orizzonte.

Qui cristiani e musulmani vivono fianco a fianco da centinaia d’anni. È un caso singolare. In seguito alla guerra greco-turca, infatti, sia i greco-ortodossi che vivevano nel territorio dell’attuale Turchia sia i musulmani che vivevano in Grecia subirono un trasferimento forzato, che dopo il 1923 fu imposto a più di 1,6 milioni di persone. Solo pochissimi luoghi furono risparmiati dal cosiddetto scambio di popolazioni, e tra essi c’era Bozcaada, che il trattato di Losanna aveva assegnato alla Turchia.

La gente di qui ha continuato a vivere fianco a fianco, anche se oggi i cristiani sono ben pochi. Nella piazza centrale del paese, dove giovani e vecchi si ritrovano all’ombra del grande platano per fare due chiacchiere o prendere un caffè, in mezzo al turco di tanto in tanto si coglie qualche frase in greco. Questo è il posto giusto per esercitare l’arte della lentezza. “Qui non c’è quasi nessuno che cammini velocemente”, dice Günay Yurdakul ridendo.

Yurdakul fa il viticoltore. A Bozcaada la vite si coltiva da tremila anni e quando sull’isola cristiani e musulmani convivevano pacificamente ma senza mescolarsi troppo, a unirli era proprio la viticoltura. All’epoca i turchi si occupavano della coltivazione e della vendemmia, e i greci facevano il vino. Questa divisione del lavoro seguiva una specie di legge non scritta. Nel 1925 un isolano, Haşim Yunatcı, l’infranse acquistando una cantina greca e diventando il primo produttore turco di vino sull’isola di Bozcaada.

Collezionando conchiglie

Negli anni sessanta mio nonno andava a scuola con il pronipote di Haşim, suo omonimo, e tutto quello che so della sua infanzia l’ho saputo da Haşim amca, zio Haşim. Nelle lunghe sere d’estate, un bicchiere dopo l’altro, mi ha raccontato di tutte le volte che facevano sparire una bottiglia di vino dalla cantina per andarsi a ubriacare di nascosto sulle mura della fortezza.

Zio Haşim oggi non c’è più, ma gli è sopravvissuta Çamlıbağ, la piccola azienda vinicola a cui ha dedicato la vita e che ora è passata nelle mani della quinta generazione, quella di Yurdakul, 33 anni. Alla fine dell’estate, dopo la vendemmia, nei vicoli del paese aleggia l’odore agrodolce dell’uva pigiata.

Cosa fa di Bozcaada l’isola del vino? “È un dono di dio”, esclama Yurdakul, spiegando che il suolo e il clima di qui sono perfetti per la viticoltura. Doveva averlo capito anche Tenes, il nipote di Poseidone dal quale l’isola prese il nome: secondo la leggenda fu proprio lui a piantarvi il primo kuntra, il vitigno più antico di Bozcaada. È anche il preferito di Yurdakul, che con quest’uva fa un vino rosso che non si trova da nessun’altra parte. Secondo lui anche il vento è una benedizione, perché protegge la vite dalle malattie.

Il vento di poyraz viene da nord. Nei mesi invernali, se soffia forte il traghetto non si muove dal porto e gli isolani devono rassegnarsi a non andare al lavoro, all’università o dal medico. Chi vive qui il vento se l’è fatto amico e ama farsene cullare. Anche io, quando devo partire, a volte spero che il vento mi permetta di restare sull’isola un altro po’.

Yurdakul mi porta nel suo posto preferito, i vigneti lontani dal centro dell’isola. Dal pendio si volta a guardare il mare: “Con una vista così, come potrebbe non prosperare la vite?”. Yurdakul tiene moltissimo a preservare viticoltura e vinificazione a Bozcaada, anche se da tempo il suo lavoro in Turchia non è più remunerativo. Molti viticoltori vendono le vigne per aprire alberghi: nei due mesi d’estate riescono a guadagnare quanto basta per il resto dell’anno. “Il turismo ci ha resi tutti più pigri”, osserva.

E ha cambiato l’isola: un tempo paradiso dei campeggiatori e degli amanti della natura, da qualche anno Bozcaada è sempre più frequentata. Tra luglio e agosto ai suoi tremila abitanti si aggiungono ben 15mila turisti, decisamente troppi. C’è chi è costretto a vendere la casa di famiglia perché la vita sull’isola diventa più cara, e di solito queste case finiscono trasformate in alberghi. Sempre più giovani se ne vanno, per tornare solo d’estate.

Inoltre Bozcaada sta per perdere parte della sua identità: ormai resta solo una quindicina di greco-ortodossi. Eppure, ogni domenica mattina il prete ortodosso – il papaz come lo chiamano qui – apre i portoni della chiesa, suona la campana e invita i fedeli alla preghiera, anche se a volte non si presenta nessuno.

Uno dei superstiti si chiama Dimitri Mukata. “Quando me ne sono andato avevo 17 anni”, racconta. Era la metà degli anni settanta e sull’isola le cose stavano cambiando. A Cipro era scoppiato il conflitto tra turchi e greci e l’eco si sentiva anche qui. “Nella taverna di Vasil, frequentata sia da turchi sia da rum, da un giorno all’altro qualcuno ci ha tolto il saluto”.

Rum è il termine turco per indicare i greco-ortodossi che vivono in Turchia. Neanche loro stessi si percepiscono più come greci: hanno sempre vissuto qui. È solo dopo il 1974 – “per quella faccenda di Cipro”, dice Mukata – che molte famiglie sono emigrate in Grecia a causa delle discriminazioni.

Mukata è tornato a Bozcaada nel 2011 e ha trasformato la vecchia casa di famiglia in una pensione. Ma non tutti sono tornati. E siccome la popolazione cristiana non fa che invecchiare, la sua cultura rischia di scomparire.

Hakan Gürüney vuole impedire che le storie dell’isola siano dimenticate. Collezionista per hobby, Gürüney è di Istanbul ed è approdato a Bozcaada trent’anni fa sulle tracce di una rara specie di conchiglie. Dopodiché non è più riuscito a staccarsene. Ha cominciato a collezionare tutto quello che riguardava l’isola, dagli oggetti d’uso quotidiano alle vecchie mappe e cartoline che scovava nei negozi d’antiquariato di Istanbul. “Era una vera e propria ossessione”, racconta.

Ha intervistato per ore e ore gli abitanti dell’isola che hanno condiviso con lui le loro storie di famiglia, le loro vecchie foto e i loro abiti. Nel suo museo ognuna di queste famiglie ha una teca dedicata. E di tanto in tanto qualcuno che aveva lasciato l’isola anni prima è andato a visitarlo: “C’è chi scoppia in lacrime vedendo la tazza che un tempo usava per bere il caffè”, racconta Gürüney.

Guardo se magari ci fosse una vecchia foto della scuola media frequentata da mio nonno, ma non trovo niente. L’edificio però è ancora in piedi e oggi da lì i liceali si godono la vista sulla fortezza e sul mare, proprio come faceva mio nonno. Mi chiedo se riconoscerebbe ancora la sua isola. Penso proprio di sì. Nonostante tutti i cambiamenti, gli piacerebbe ancora, ma probabilmente direbbe che un tempo era ancora più bella. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1530 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati