Acinque settimane dall’inizio delle proteste scoppiate in tutto l’Iran dopo la morte di Mahsa Amini, la ragazza uccisa mentre era in custodia della polizia religiosa, le autorità iraniane hanno avuto una bella idea. Hanno pensato di affiggere nel centro di Teheran un enorme manifesto in cui decine di iraniane illustri erano raffigurate come sostenitrici dell’hijab (il velo che copre la testa). Le fotografie di docenti, scrittrici, registe, artiste, attrici e atlete erano riunite in un collage con lo slogan “Donne della nostra terra”. Il cartellone è stato affisso su uno spazio che il regime riserva ai messaggi pubblici più urgenti, un’enorme struttura che incombe su piazza Valiasr. Tra le persone rappresentate c’erano figure improbabili come la scrittrice Simin Daneshvar, che indossò l’hijab solo quando la rivoluzione lo rese obbligatorio, che nella sua opera descrisse l’oppressione patriarcale, e affermò pubblicamente il desiderio di un “mondo governato da donne”.

Nel giro di alcune ore diverse donne hanno chiesto che la loro immagine fosse rimossa dal manifesto. Una fotografia che le ritrae con il velo non significa che loro siano devote né che rispettino il governo; vuol dire solo che hanno rispettato la legge. Parvaneh Kazemi, che ha scalato l’Everest, ha scritto su Instagram di essere arrabbiata perché “il nome e l’immagine di noi donne sono usati solo per commettere abusi”. L’attrice Fatemeh Motamed-Arya ha diffuso un video in cui appare a capo scoperto e afferma di essere la madre di Mahsa Amini e di Sarina Esmailzadeh, un’adolescente uccisa nelle proteste: “Sono la madre di tutte le figlie assassinate in questa terra, non una donna nella terra degli assassinii”. Il figlio di un’altra attrice ha sottolineato che sua madre era a malapena tollerata dalle autorità clericali. Uno sceneggiatore ha notato su Instagram che una delle donne sul poster, la fotogiornalista Nooshin Jafari, sta scontando una condanna in carcere per “aver insultato i sacri princìpi dello stato”.

Nella notte il cartellone è scomparso. Come ha osservato il giornalista Abbas Abdi su Twitter, rifletteva la “sensibilità contraddittoria e bloccata” del sistema di governo, il suo desiderio di cooptare queste donne e allo stesso tempo d’imporre una sorveglianza morale.

Da quando le proteste sono cominciate a metà settembre circa trecento persone sono state uccise, e le autorità religiose non mostrano segni di cedimento. Nonostante questo, le manifestanti hanno motivo di festeggiare. Nelle strade e nella vita quotidiana hanno sconfitto la politica del velo obbligatorio, che spesso è descritta come un pilastro del governo religioso ma più concretamente è usata come strumento di controllo per sorvegliare e allontanare l’attenzione dalla situazione del paese.

Una alla volta

A settembre ho visto ragazze nel centro di Teheran andare in giro con i capelli in mostra ed ero impressionata dalla loro disinvoltura e dal loro coraggio. Alcune sedevano sugli scalini di una moschea sorseggiando succo di melone e chiacchierando, con il velo calato. Il 16 ottobre una scalatrice iraniana ha gareggiato in una competizione internazionale con i capelli scoperti. Al suo rientro a Teheran una folla di sostenitori si è radunata per incontrarla all’aeroporto.

La dura risposta delle autorità alla rabbia dell’opinione pubblica è stata un grave errore di calcolo, che ha alimentato le proteste e le ha radicalizzate ancora di più. Il controllo della moralità è ridotto a un cumulo di macerie. Nessuno sa cosa dicono ai politici le loro mogli, sorelle e figlie, ma l’élite della Repubblica islamica e i suoi organismi più dogmatici non sono mai apparsi così divisi in un momento di crisi.

Gli scontri notturni hanno raggiunto le piazze e i viali dei quartieri settentrionali di Teheran, segno che ora anche una parte dei cittadini economicamente meno in difficoltà sta partecipando alle proteste. Nelle scuole femminili il coraggio di scarabocchiare uno slogan sulla lavagna si è diffuso tra le studenti più giovani. Ai dirigenti scolastici è stato raccomandato di far uscire le allieve una alla volta dopo le lezioni, per scoraggiare i raduni e rendere più facile individuare le contestazioni. Inoltre gli è stato detto di togliere dalle aule le austere fotografie dei fondatori della rivoluzione, per impedire che le ragazze le tirino giù e le calpestino mentre si riprendono con i telefoni. Intanto il movimento resta straordinariamente costante: non è diventato distruttivo o violento, non ha perso la simpatia dell’opinione pubblica né il suo spirito femminista radicale. Le proteste precedenti in Iran erano degenerate in sommosse, erano state brutalmente represse o si erano esaurite, motivate da un malessere troppo circoscritto.

L’assenza di leader del movimento è al tempo stesso una grande forza e la sua più grande vulnerabilità. Senza connessione internet e senza una figura di spicco che possa parlare a nome dei manifestanti, chiunque può raccontare la propria storia. Così, mentre celebrità internazionali come Carla Bruni si tagliano le doppie punte in segno di solidarietà, e il movimento riceve le attenzioni di Barack e Michelle Obama, Melinda Gates, Meghan Markle, Oprah Winfrey e Jill Biden, entrano in gioco anche alcune potenti correnti che hanno interesse a destabilizzare l’Iran e cercano di definire quello che gli iraniani vogliono, di cosa saranno soddisfatti, e quali dovrebbero essere i loro nemici.

Alcuni iraniani della diaspora, la maggior parte dei quali non mette piede nel paese da anni o decenni, ritengono che la Repubblica islamica debba essere abbattuta con qualsiasi mezzo, compreso il sostegno di Arabia Saudita e Israele. Anche molte persone in Iran, private dei loro diritti e senza la speranza di una vita migliore, pensano che il sistema sia irrecuperabile. I feroci cori rivolti al leader supremo e al governo dei religiosi lo hanno espresso chiaramente. Ma vogliono un cambiamento promosso dall’esterno?

L’interferenza esterna non si presenta come tale. Arriva attraverso finanziamenti che non danno nell’occhio, spesso difficili da tracciare, a gruppi d’influenza, a mezzi d’informazione che diffondono notizie false e a siti che sembrano collettivi di cittadini e pubblicano contenuti che documentano la brutalità dello stato. Un sito che si è affermato l’anno scorso, 1500 Tasvir, pubblica moltissimi contenuti sulle proteste. Di recente ha cominciato a imporre delle condizioni per l’accesso, etichettando come corrotti gruppi o individui di cui disapprova le idee politiche. Nelle ultime settimane ha attaccato delle giornaliste che considera collaboratrici del regime e nemiche della rivoluzione del popolo iraniano.

Come in Siria

Questi schemi ricordano la guerra civile siriana, in cui la portata della disinformazione e della manipolazione è stata molto ampia, e dove quella che era cominciata come una rivolta pacifica di cittadini è degenerata in un conflitto per procura tra forze esterne che erano interessate al collasso dello stato. Oggi i funzionari parlano spesso del rischio di una “sirianizzazione” dell’Iran, descrivendo le proteste come una minaccia all’integrità territoriale, nella speranza che anche chi ammira lo spirito delle manifestanti cominci a temere uno spargimento di sangue, il caos e la distruzione della nazione. Come in Siria, gran parte delle cose mostrate su questi siti sono autentiche. Ma la verifica dei contenuti e delle fonti che li raccolgono e promuovono è occasionale e inadeguata.

Tutto questo rappresenta un territorio nuovo e spiazzante per la Repubblica islamica. E i leader politici e religiosi sembrano perplessi per un risultato che loro stessi hanno determinato.

Il giorno prima di lasciare Teheran, a due settimane dall’inizio delle proteste, mi sono fermata per un caffè nella parte occidentale della città, di fronte a una moschea che ha uno studio di pilates e una palestra nel seminterrato. Il bar fa parte di una catena, Lamiz, che ha punti vendita in tutta la città. Hanno poltrone di velluto blu, caffè cortado, gallette alle mele e la fama di essere un’attività per il riciclaggio di denaro di uno dei pezzi grossi del regime. Davanti all’ingresso c’erano due giovani senza velo ma con il volto coperto e in mano un cartello che recitava: “Boicotta Lamiz per due settimane, e Starbucks prenderà il suo posto”. Il messaggio era ironico ma inequivocabile: protestate con forza e un nuovo Iran potrebbe essere a portata di mano.

Quasi tutte le persone con cui ho parlato a Teheran e che hanno preso parte alle proteste dicono di volere la fine della Repubblica islamica. “Chi è ancora a casa è bloccato sulla questione dell’alternativa, di chi verrà dopo”, mi ha detto un manifestante. “Ma è un errore pensare che si debba aspettare di capire qual è l’alternativa, perché così resteremo per sempre seduti. Nessuno sa chi verrà dopo”. Quello che non è chiaro, però, è se quelle persone solidali che sono rimaste a casa si convinceranno mai a uscire fuori.

Nassim è un’impiegata, ha poco più di vent’anni e un grave problema di salute. Il farmaco che deve assumere ogni giorno non può essere importato a causa delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti e ogni mese impiega due o tre giorni a cercare nelle farmacie di tutta la città quello di cui ha bisogno, spesso a prezzi esorbitanti. Nassim è credente, ma sostiene le proteste. È convinta che le iraniane debbano avere la possibilità di vestirsi liberamente, e che un allentamento delle norme sull’abbigliamento impedirebbe anche ad alcune donne di sopraffarne altre. Nella sua cittadina – che, come molte aree rurali dell’Iran, è più conservatrice di Teheran – è spesso rimproverata in pubblico dalle anziane per aver mostrato troppo i capelli, anche se lei ha scelto di coprirli. Il velo obbligatorio a suo parere incoraggia la tendenza al controllo non solo dello stato, ma anche dei genitori e dei parenti a casa e degli estranei per strada. Secondo Nassim una liberalizzazione che riduca l’ipocrisia religiosa e contribuisca a impostare un’economia solida sarebbe un risultato soddisfacente. La sua vita non sarebbe molto diversa se la Repubblica islamica diventasse laica, ma lo diventerebbe se lo stato fosse in grado di garantire un benessere economico di base. Lei riuscirebbe a trovare il suo farmaco e sua sorella non tenterebbe di emigrare in Europa in cerca di lavoro. Per il momento donne come Nassim, critiche nei confronti dello stato ma non ancora pronte ad affrontarlo, sono di gran lunga più numerose delle manifestanti.

Una coppia di sposi davanti a un muro su cui è scritto “Donna, vita, libertà”. Teheran, 27 ottobre 2022 (Salampix/Abacapress/Ipa)

La sensazione di sconforto è più forte nelle regioni di confine dell’Iran. Le minoranze etniche e religiose più grandi – i beluci, i curdi e gli arabi – abitano in province periferiche e hanno profondi legami con le persone della loro comunità che vivono al di fuori dei confini dell’Iran. Queste regioni affrontano dei problemi specifici –siccità e carenze idriche nel sudovest, traffico di droga e insicurezza nel sudest – che aggravano le condizioni già difficili in cui si trovano tutti gli iraniani. La povertà e la disoccupazione sono peggiori. Tutte queste regioni hanno una lunga storia di abbandono da parte dello stato e di movimenti separatisti che precede la Repubblica islamica.

Mahsa Amini era un’iraniana di origini curde – il suo nome curdo è Jina, che significa “vita” – e le proteste contro la sua uccisione sono cominciate nel Kurdistan iraniano. Amini non era stata arrestata perché curda: è impossibile dire dall’aspetto se un’iraniana è ebrea, armena, azera, lur, beluci o araba. Ma qualunque agitazione nelle regioni abitate dalle minoranze è politicizzata dallo stato come una questione di sicurezza nazionale. Questo è dovuto in parte al fatto che il ritiro dell’ex presidente statunitense Donald Trump dall’accordo sul nucleare ha dato implicitamente il via libera a una campagna regionale per destabilizzare l’Iran, che ha fatto arrivare denaro e armi a reti di miliziani nelle regioni di confine e ha infiammato il sentimento separatista. Le grandi proteste nelle zone curde per la morte di Amini hanno spinto le autorità a lanciare attacchi missilistici al di là del confine, nel Kurdistan iracheno, sostenendo che un gruppo separatista stava sfruttando le proteste per scatenare il caos.

I conti con la realtà

Le contestazioni in Iran oggi non riguardano esplicitamente l’economia, ma sono alimentate dall’angoscia per il futuro. Molte delle cose a cui gli iraniani aspirano – un buon lavoro per chi si laurea, la carriera accademica per un ricercatore, il matrimonio, dei figli, viaggi e studi all’estero – sono vincolate a realtà materiali. I rapporti congelati con l’occidente e la crescente ossessione per la sicurezza s’intrecciano con l’isolamento e il declino economico.

Le proteste di massa sono spesso provocate da un’umiliazione specifica, ma è l’oppressione di fondo a spiegare perché l’agitazione attraversa la società. La situazione è peggiorata per gli iraniani negli ultimi anni, soprattutto per le donne e le ragazze, e questo ha condizionato la loro reazione. L’economia della Repubblica islamica, un paese ricco di riserve di petrolio e gas naturale con una popolazione altamente istruita e un potenziale turistico in grado di competere con l’India o la Thailandia, registra prestazioni cronicamente al di sotto delle aspettative fin dal 1979, quando il suo pil era di gran lunga superiore a quello della Turchia e della Corea del Sud. La cattiva gestione e la corruzione sono endemiche in Iran da decenni, ma i colpi più forti per l’economia negli ultimi anni sono stati causati dalle sanzioni statunitensi.

La Repubblica islamica non ha più un’opposizione utile ed è rimasta da sola

Nel 2012 e nel 2018 gli Stati Uniti hanno imposto pesanti sanzioni prima alla banca centrale, attraverso la quale l’Iran vendeva il suo petrolio, e poi ai settori dell’energia, della finanza e del trasporto marittimo, penalizzando le aziende che in altri paesi facevano affari con Teheran. I redditi delle famiglie sono crollati, il rial ha perso metà del suo valore e il costo della vita si è impennato. Le donne e le ragazze sono state colpite in modo sproporzionato. Il loro tasso di disoccupazione è più alto di quello degli uomini, anche se costituiscono una quota minore della forza lavoro. Le giovani che vivevano da sole sono state costrette a tornare dalle famiglie che spesso le tengono sotto controllo; chi era sopravvissuta alla violenza domestica è tornata a trovarsi in situazioni di abuso. Due anni fa, quando mi occupavo delle conseguenze che queste condizioni stavano avendo sull’attivismo femminile, le donne con cui parlavo mi dicevano che non avevano quasi più energie né tempo per organizzarsi intorno a rivendicazioni politiche. Dopo aver fatto diversi lavori, essersi occupate dei figli o dei genitori anziani e malati, non riuscivano a dedicarsi alla politica.

Riconoscere in che modo le difficoltà hanno diminuito la capacità delle donne di mobilitarsi per i propri diritti non assolve lo stato dalla sua responsabilità. In passato l’Iran aveva uno dei movimenti per i diritti delle donne più validi della regione. Era cresciuto parallelamente ma indipendentemente dai riformisti arrivati al governo all’inizio degli anni duemila. Questi non tenevano in considerazione le preoccupazioni delle donne e non vedevano motivi per investire su di loro.

Le attiviste organizzarono una campagna per raccogliere un milione di firme a sostegno di una dichiarazione che affermava che la disuguaglianza di genere era strutturalmente intrecciata al modo in cui lo stato religioso governava senza tenere in conto il bene comune. Viaggiarono per tutto il paese, parlando alle donne sulla soglia di casa, presentando il femminismo come uno strumento per comprendere in che modo la cultura e la legge le discriminavano in molti ambiti, dalla custodia dei figli all’eredità, dalle tutele sul posto di lavoro al divorzio.

Il movimento femminista non chiedeva la caduta del regime o la fine della teocrazia, ma la sua raccolta di firme fu interrotta dalle autorità. Negli anni le sue leader sono state incarcerate, interrogate e mandate in esilio. Quelle rimaste sono passate alla clandestinità o si sono concentrate su questioni meno controverse, come le molestie sessuali sui mezzi pubblici. Il movimento femminista dei primi anni duemila riconosceva la negazione dei diritti delle donne come una delle realtà più destabilizzanti della Repubblica islamica. Fu smantellato e soffocato. Molte manifestanti nelle strade oggi sono le figlie di quelle attiviste. Le manifestazioni in corso in Iran forse non hanno un leader, ma di certo hanno un’origine.

L’eredità di Khamenei

Le figure più importanti della Repubblica islamica sono allo sbando. Il 3 ottobre la guida suprema Ali Khamenei ha parlato della morte di Mahsa Amini come di un evento triste ma distante. “Nell’incidente che è avvenuto una giovane donna è morta”, ha dichiarato in un incontro con i cadetti dell’esercito, “cosa che ha addolorato anche noi”. Ma le sommosse, ha insistito, sono organizzate dai nemici dell’Iran, gli Stati Uniti e Israele. Qualche giorno dopo il presidente Ebrahim Raisi, in visita a un’università femminile, ha recitato una poesia che paragonava le manifestanti a delle mosche. Le studenti lo hanno contestato. Il capo della magistratura si è detto pronto al dialogo, ma tre giorni dopo ha ordinato ai giudici di emettere condanne inflessibili nei confronti delle persone arrestate.

A incombere su tutte queste reazioni c’è l’eventualità che la guida suprema non abbia più molto tempo da vivere. Khamenei ha 83 anni, e secondo alcune voci sarebbe malato. Ali Larijani, ex presidente del parlamento ed esponente di una famiglia religiosa di primo piano, di recente ha rilasciato una lunga intervista a una rivista in cui ha dichiarato che le regole sull’abbigliamento non sono in sintonia con la società iraniana, e che non spetta allo stato regolare il comportamento sociale, né dal punto di vista religioso né da quello politico. Così non solo ha contraddetto la rappresentazione delle proteste fatta da Khamenei, ma ha offerto un modello alternativo di governo. È stato un discorso da campagna elettorale, anche se era così lungo e appesantito di temi teologici che era facile farsi sfuggire l’implicita allusione al fatto che la guida suprema è troppo concentrata su un islam reazionario di leggi e sicurezza.

In un certo senso la Repubblica islamica si è incastrata da sola. Ha estirpato i riformisti che un tempo servivano da utile distrazione, consentendo alle autorità di affermare che il sistema stava reagendo contro trasformazioni troppo rapide. In cambio del permesso di entrare in politica i riformisti si sono astenuti dal fare le critiche più significative, cioè che la teocrazia democratica iraniana è impraticabile e che un sistema non può rispondere del suo operato contemporaneamente a Dio e al popolo.

Ora che non ci sono più riformisti in politica, la Repubblica islamica non ha più un’opposizione utile ed è rimasta da sola. Sa di vivere un momento di crisi esistenziale acuta, ma è incapace di fare un passo per salvarsi. Come ha sottolineato di recente un ex sindaco di Teheran parlando alla tv di stato, il governo non può rivendicare di avere milioni di giovani cittadine leali quando partecipano al funerale di un comandante dei Guardiani della rivoluzione, come è successo per Qassem Soleimani nel 2020, e poi rinnegarle, definendole devianti e delinquenti quando scendono in strada.

La televisione è l’unico legame con il mondo esterno ora che internet è fuori uso. Tutti i canali di notizie in lingua persiana sono un teatro della disputa geopolitica tra la Repubblica islamica e i suoi avversari nella regione e in occidente. Oltre all’emittente di stato ci sono canali fedeli alla deposta famiglia reale, e uno gestito dalla setta terroristica Mojahedin-e khalq (mujahidin del popolo iraniano), i cui presentatori trasmettono messaggi del loro leader defunto da tempo. Iran international, creata a Londra con soldi sauditi, trasmette un flusso costante di video della “rivoluzione senza contesto” e di disinformazione, ed esplora scenari possibili dopo la Repubblica islamica. L’investimento nella testata da parte degli oppositori del governo si è dimostrato utile in momenti di crisi, offrendo una piattaforma a gruppi terroristici e promuovendo l’idea che l’Iran sarebbe lacerato da divisioni confessionali e sull’orlo della frammentazione. Il risultato è che le linee che separano l’informazione battagliera, la disinformazione e la propaganda spesso sono confuse.

Bacino di manodopera

Questi mezzi d’informazione hanno avuto un notevole effetto sui miei parenti quando sono rimasti chiusi in casa durante la pandemia. Non solo hanno rafforzato in loro un atteggiamento derisorio nei confronti della Repubblica islamica, che avevano anche prima, ma li ha influenzati con informazioni false e gli hanno trasmesso un nuovo modo infervorato e stereotipato di parlare dei nemici del paese (di solito giornalisti e organizzazioni della diaspora). La propaganda funziona. A metà ottobre il comandante dei Guardiani della rivoluzione si è rivolto ai sauditi: “State attenti al vostro comportamento e controllate questi mezzi d’informazione; altrimenti ne pagherete il prezzo”.

La stessa condotta del regime iraniano ha contribuito a produrre il problema di sicurezza che oggi si trova ad affrontare. Impedendo a una generazione di giornalisti di lavorare con la censura e le intimidazioni, ha creato un bacino di manodopera preparata e pronta a lavorare per i network dei suoi avversari.

Ho chiesto a un giovane attivista cosa ne pensasse di questi canali e dei dissidenti che ospitano, alcuni dei quali affermano di guidare le proteste sul campo. “Di sicuro esortano le persone a uscire”, ha detto, “promettendo che il giorno dopo il crollo la situazione sarà migliore, un’utopia. Noi sappiamo che il giorno dopo è quando tutto è distrutto, e cominciano i problemi. Sanno come sedurre le persone con l’inganno e la spettacolarizzazione. Ma non c’è dubbio che è in corso la distruzione del paese, e che non si torna indietro”. ◆ fdl

Da sapere
Università mobilitate

◆ Nuove manifestazioni sono state organizzate il 6 novembre 2022 nelle università di varie città, soprattutto nel Kurdistan iraniano. Il giorno prima una studente curda, Nasrin Ghadri, era stata uccisa dalla polizia a Teheran. La situazione nel nordovest del paese è particolarmente tesa dal 16 settembre, il giorno in cui Mahsa Amini è morta dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa. Amini era originaria di Saqqez, una città della provincia curda. Il 6 novembre l’ong Iran human rights, con sede in Norvegia, ha fatto sapere che da settembre almeno 304 persone sono morte nella repressione delle proteste compiuta dalle forze di sicurezza. Tra loro, 41 erano minorenni. Iran Wire


Azadeh Moaveni è una giornalista e scrittrice statunitense di origine iraniana. In Italia ha pubblicato Viaggio di nozze a Teheran (Newton Compton 2009), Lipstick jihad (Pisani 2006) e Il mio Iran (Sperling&Kupfer 2006) scritto con l’avvocata Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace. È stata corrispondente dal Medio Oriente per Time e per il Los Angeles Times, e collabora regolarmente con il New York Times e il Guardian. Dirige il progetto genere e conflitto all’International crisis group.

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Questo articolo è uscito sul numero 1486 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati