Ormai è un’abitudine chiedersi a cosa serva il Women’s prize, vinto il 14 giugno per la seconda volta da Barbara Kingsolver con il suo nono romanzo Demon Copperhead, una potente riscrittura contemporanea del romanzo di Charles Dickens ambientata negli Appalachi. A chi serve un premio che promuove e celebra le scrittrici quando l’editoria oggi è in gran parte un gioco per donne, gestito soprattutto da donne e per le donne? Le scrittrici dominano premi, classifiche dei best seller, scaffali delle librerie e TikTok. Nel 2021 hanno rappresentato quasi l’80 per cento delle vendite nel Regno Unito, negli Stati Uniti e in Canada. Tre delle ultime cinque edizioni del premio Costa per il libro dell’anno (il premio è stato cancellato nel 2022) sono state vinte da scrittrici. Dei tredici autori in corsa per la finale del Booker prize del 2022 otto erano donne. Al contrario, al giorno d’oggi gli autori giovani di successo sono così rari che per la sua ultima lista dei venti migliori scrittori con meno di quarant’anni, la rivista Granta è riuscita a trovarne solo quattro.

Rappresentazione e imbarazzo

Il Women’s prize, istituito nel 1996 in aperta sfida al Booker prize del 1991, i cui finalisti erano tutti maschi, è al centro del dibattito ormai da anni. Naturalmente questa è una misura del successo del premio – visto che come alternativa della dominante e arrogante celebrità letteraria tutta al maschile dei vari Martin Amis, Salman Rushdie e Ian McEwan negli anni novanta e duemila ha indubbiamente raggiunto il suo scopo – ma è al tempo stesso un ammonimento contro la sua utilità.

Barbara Kingsolver (Liz Hafalia, The San Francisco Chronicle/Getty)

Dopotutto, lasciando da parte i dibattiti sulla rappresentazione e la visibilità, si potrebbe sostenere che a essere problematica, paternalistica e riduttiva sia l’etichetta “narrativa femminile”. Provo imbarazzo tutte le volte che la sento, più o meno come quando sento le proposte d’istituire vagoni solo per le donne in metropolitana o quando si sente pronunciare l’odiosissima espressione “donne forti”. Perfino lo slogan sul sito del premio mi mette in imbarazzo: “28 anni di libri bellissimi scritti da donne”. Come se ci fosse qualcosa di sorprendente nel fatto che una donna possa scrivere un libro bellissimo.

​Louise Kennedy (Ellius Grace, The New York Times/Contrasto)

Tuttavia quella della narrativa femminile non è solo una questione di statistiche e vendite, ma anche di percezione. Non ha importanza quanti premi vincano le scrittrici, quanti libri vendano o addirittura quante siano: nella cultura è ancora diffusa l’idea che le donne scrivano irrilevanti storie domestiche che parlano di sentimenti, individualità e matrimoni, mentre gli uomini continuano a occuparsi di politica e questioni nazionali.

Di sicuro non è difficile trovare rappresentanti del primo caso. La più celebre, Sally Rooney, e le sue altrettanto acclamate colleghe Naoise Dolan e Megan Nolan: tutte parlano delle disordinate microtensioni interiori delle relazioni personali. Rachel Cusk, che è senz’altro in grado di battere la maggior parte dei romanzieri in fatto d’innovazione stilistica, eccelle nel creare protagoniste femminili ossessivamente concentrate su se stesse. E sta tornando la letteratura per ragazze: uno dei libri di maggiore successo quest’anno è stato Really good, actually di Monica Heisey, protagonista una Bridget Jones per la generazione di Snapchat. L’ultimo romanzo della scrittrice statunitense Curtis Sittenfeld addirittura s’intitola Roman­tic comedy. E lasciamo perdere il fatto che spesso anche i pochi romanzieri giovani scrivono cose di questo tipo: due dei più acclamati, il britannico Caleb Azumah Nelson e lo statunitense Brandon Taylor, hanno fatto del desiderio e dell’angoscia del maschio moderno il loro argomento principale.

Priscilla Morris (Conor Horgan)

Confrontarsi con il mondo

La narrativa contemporanea è spesso accusata di essere diventata troppo introspettiva e ossessionata dalle situazioni personali, a spese del rapporto dell’individuo con il resto del mondo. Il rischio è che tra le futili schermaglie dei sentimenti personali e dell’affermazione della propria identità vada perduta una certa solennità morale.

La letteratura rischia di essere vittima della tirannide del vittimismo, per cui la cosa più importante è quanto uno scrittore riesca a rendere evidenti esperienze e traumi personali. Ovviamente si tratta di generalizzazioni, ma è indubbio che trama e personaggi – quegli splendidi strumenti novecenteschi utili a trattare il rapporto spesso problematico tra una persona e i fattori sociali e ambientali – sono convenzioni di fronte alle quali molti scrittori giovani, uomini e donne, indietreggiano.

Eleanor Catton (David Levenson, Getty)

Tuttavia, date un’occhiata alle finaliste del Women’s prize di quest’anno. C’è Trespasses di Louise Kennedy, un romanzo che parla con profondità e senso etico di cosa significava vivere nella Belfast degli anni settanta. O anche Black butterflies di Priscilla Morris, che riflette sulle condizioni di vita nella Sarajevo distrutta dalla guerra degli anni novanta.

E ancora, di recente la neozelandese Eleanor Catton – che nel 2013, all’età di 28 anni, è stata la più giovane vincitrice del Booker prize con il romanzo I luminari (Fandango Libri) – ha detto la sua sulla necessità che gli scrittori la smettano di guardarsi l’ombelico e tornino a occuparsi delle questioni morali contemporanee e delle loro implicazioni nella vita delle persone. Lei è la prima a dare l’esempio: il suo ultimo romanzo, Birnam wood, è un racconto corale che parla di un gruppo di attivisti ambientalisti di destra compromessi dai loro legami finanziari con un miliardario moralmente equivoco.

E poi naturalmente c’è Demon Copper­head di Kingsolver, il ritratto lacerante di un bambino alla deriva in un’America moderna e devastata dalla droga, che assume esplicitamente a modello la grande letteratura socialmente impegnata dell’ottocento. Quando si tratta di romanzi che guardano fuori e non dentro, le donne sono in prima fila. E il Women’s prize è ancora necessario non perché le scrittrici continuino a essere poco rappresentate, ma perché paradossalmente il premio stesso riconosce che non esiste una cosa che può essere definita “romanzo femminile”. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1517 di Internazionale, a pagina 85. Compra questo numero | Abbonati