Nel 1942 lo scrittore argentino Jorge Luis Borges pubblicò il racconto Funes, o della memoria. Un narratore anonimo rievoca una storia del passato, quella di un uruguayano di nome Ireneo Funes. Aveva saputo che Funes era caduto da cavallo, aveva battuto la testa ed era costretto a letto. Poco dopo, Funes lo aveva contattato per chiedergli in prestito alcuni libri in latino, e lui gli aveva dato una selezione dei suoi testi latini più difficili, che egli stesso faticava a capire.

Qualche tempo dopo, quando era andato a riprendersi i libri, il narratore aveva scoperto che in pochi giorni Funes aveva memorizzato lunghi e complicati brani in latino, anche se fino ad allora non conosceva affatto la lingua. Funes gli aveva raccontato che dopo l’incidente la sua memoria era cambiata. Non riusciva più a dimenticare. Il presente, diceva Funes, era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido. Mentre noi guardiamo e vediamo un albero qui, un gruppo di persone là, Funes vedeva le informazioni a livello di pixel, fotogramma per fotogramma. Tratteneva nella memoria queste scene in tutta la loro chiarezza, e quindi i ricordi avevano una precisione indistinguibile dalla realtà.

Funes aveva esposto in dettaglio le conseguenze della sua memoria diventata ormai infallibile. Non riusciva a prendere sonno e trovava sconcertanti alcuni aspetti basilari del linguaggio. Era difficile per lui capire che la parola cane “potesse designare un così vasto assortimento di individui diversi per dimensione e per forma”. E “il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta”. Anche se aveva imparato facilmente il latino e diverse altre lingue, il narratore sospettava che Funes “non fosse molto capace di pensare”. Pensare significa dimenticare le differenze, generalizzare, fare astrazioni. Ma “nel mondo sovraccarico di Funes non c’erano che dettagli, quasi immediati”. Il mattino dopo il narratore era partito per Buenos Aires e non aveva mai più rivisto Funes.

La biblioteca di Borges

Anche Borges, che morì nel 1986, aveva una memoria straordinaria. Lo scrittore argentino memorizzò molti testi fin da giovane, sapendo che era destinato a perdere la vista e la capacità di leggere per una patologia congenita. Lo scrittore e neuroscienziato Rodrigo Quian Quiroga è venuto a conoscenza di questi particolari nel 2009, quando è andato a trovare la vedova di Borges, Maria Kodama, a Buenos Aires. Quiroga, che racconta questo incontro in un articolo su Nature, ha visitato anche la biblioteca privata di Borges, che rivelava il costante interesse dello scrittore per la psicologia e la neurologia. In Funes, o della memoria, Borges anticipava le scoperte delle neuroscienze. Noi ci facciamo strada nel mondo proprio perché dimentichiamo, generalizziamo e facciamo astrazioni. L’atto della memoria è un atto dell’immaginazione.

Nel 1985 lo psicologo estone canadese Endel Tulving, con l’aiuto di un suo studente statunitense, Daniel Schacter, illustrò il caso di un paziente affetto da amnesia, N.N., che aveva un grave disturbo della memoria. Tulving era interessato dal fatto che mentre alcuni aspetti della memoria del paziente erano danneggiati, altri sembravano funzionare normalmente.

N.N. era perfettamente in grado di memorizzare una serie di numeri a caso. Aveva quella che gli psicologi cognitivi chiamano memoria semantica, cioè la capacità di ricordare fatti, date, nomi, numeri e altre informazioni astratte. Il problema era la sua memoria episodica: non riusciva a richiamare alla mente esperienze personali. Scriveva Tulving: “La conoscenza che N.N. ha del suo passato sembra avere lo stesso carattere esperienziale impersonale della conoscenza che ha del resto del mondo”. Era intima come, poniamo, quella della vita di Thomas Jefferson: un insieme di fatti astratti. Non riusciva a ricordare i particolari di nessun evento che aveva vissuto in prima persona: una festa di compleanno, una vacanza o un incontro.

Il nocciolo dello studio di Tulving era la dissociazione tra memoria semantica ed episodica. Com’era possibile avere l’una senza l’altra? Ma lo scienziato si soffermava anche su un’altra osservazione che non sapeva bene come interpretare: N.N. non riusciva neanche a immaginare il futuro. In una conversazione con il suo paziente, Tulving cominciò con la domanda: “Cosa farà domani?”. Dopo una pausa, N.N. rispose: “Non lo so”.

Juan Manuel Castro Prieto, Vu/Karmapressphoto

“Si ricorda la mia domanda?”, gli chiese Tulving. “Su quello che farò domani?”, disse N.N. “Sì”, continuò Tulving. “Come descriverebbe il suo stato d’animo quando cerca di pensarci?”.

“Assente, suppongo,” rispose N.N.

Incalzato da Tulving, N.N. descrisse i suoi tentativi d’immaginare il futuro “come stesse dormendo”. I suoi sforzi per immaginare un futuro personale sembravano inutili come quelli per ricordare un passato personale: “È come nuotare in mezzo a un lago. Non c’è niente che ti tenga a galla o con cui fare qualcosa”.

Il caso di N.N. suggerì a Tulving che potesse esserci una connessione neurale tra memoria e immaginazione, che la capacità di pensare a ritroso al passato fosse strettamente legata alla capacità di pensare in prospettiva al futuro. Il famoso verso del poeta T.S. Eliot, “il tempo presente e il tempo passato / sono forse entrambi presenti nel tempo futuro”, era entrato nell’era neurologica.

Schacter, lo studente di Tulving, restò affascinato dall’implicito collegamento tra memoria e immaginazione. In seguito, quand’era già professore, ha avviato un filone di ricerca insieme a Donna Rose Addis, una neuroscienziata neozelandese che all’epoca faceva un post dottorato con lui, per esplorare direttamente questo collegamento.

Alcune cose rimangono ancorate nei nostri ricordi quando sono legate a una forte emozione, un potente segnale per il cervello

Parole indizio

Nel loro studio iniziale, del 2007, Addis, Schacter e i loro colleghi hanno presentato ai partecipanti una serie di parole indizio (per lo più semplici sostantivi come “automobile” o “albero”) che sollecitavano immagini familiari e facilmente evocabili. Per ogni parola indizio, i partecipanti dovevano richiamare alla memoria un avvenimento. Nella metà dei casi gli veniva chiesto di ricordare un fatto già accaduto, e nell’altra metà erano invitati a immaginare un avvenimento che poteva succedere in futuro. Gli veniva indicato anche un preciso arco temporale in cui inquadrare gli eventi: una settimana, un anno o da cinque a vent’anni, nel passato o nel futuro.

Addis e i suoi colleghi volevano capire cosa succedeva nel cervello delle persone quando erano impegnate a ricordare o immaginare, perciò le sottoponevano a una risonanza magnetica mentre richiamavano alla mente queste immagini. E hanno scoperto che, come suggeriva il caso di N.N., le stesse aree cerebrali sembravano coinvolte sia nella memoria sia nell’immaginazione. “Era la stessa rete cerebrale”, mi dice Addis, “nota anche come default mode network (sistema della condizione di default), che si attiva in modo molto robusto sia quando le persone ricordano il passato sia quando immaginano il futuro”.

In un articolo pubblicato nello stesso anno l’équipe di Addis sosteneva che la scoperta, insieme ad altre evidenze del collegamento tra memoria e immaginazione che stavano emergendo, dava informazioni cruciali su una delle funzioni adattive della memoria: consentire di progettare il futuro, fornire i mattoni per i viaggi mentali nel tempo.

Sviluppando quest’idea, Addis e gli altri suggerivano che la memoria fornisce un sistema di “simulazione” nel cervello. La memoria ci permette non solo d’immaginare il futuro, ma di assumere prospettive alternative sul presente. Usiamo i mattoni della memoria per immaginare i pensieri o l’esperienza di un altro e per vedere l’ambiente o la situazione presente in modi nuovi. Questa simulazione basata sulla memoria ci aiuta a trovare soluzioni creative a moltissimi problemi.

Proust sarebbe d’accordo

Negli ultimi dieci anni la comprensione del ruolo della memoria nella creatività è ulteriormente migliorata. I ricercatori hanno legato i falsi ricordi e il dimenticare alla creatività. E all’inizio di quest’anno Schacter e i suoi colleghi hanno pubblicato uno studio in cui suggeriscono che la memoria ha una parte importante in ogni fase del processo creativo. “L’ideazione creativa è sostenuta dal recupero controllato” dei ricordi, scrivono. Proust sarebbe stato sicuramente d’accordo.

Ricordare male e dimenticare consentono la flessibilità cognitiva richiesta dall’immaginazione. Se, come Funes, avessimo presente con la massima esattezza e per sempre ogni singolo frammento della nostra esperienza, non riusciremmo a estrarre frammenti qua e là per costruire una visione totalmente nuova. “La cosa interessante è che quando state ricordando, non vi torna in mente ogni singolo particolare che avete vissuto”, ha detto Addis. “Dovete riempire i vuoti, che spesso sono tanti. È così che funziona la memoria”.

Questi vuoti evidentemente sono molto importanti. Ma come fa il cervello umano a sapere dove lasciarli e quando invece vale la pena di memorizzare con scrupolosa precisione? Come fa a sapere cosa dimenticare? Il fatto è che, per quanto riguarda il cervello, non vale la pena di conservare quasi niente. La prima cosa che facciamo con gran parte delle informazioni che acquisiamo sul mondo è dimenticarle.

Gli psicologi cognitivi di regola distinguono tre tipi di memoria, ognuno dei quali cataloga le informazioni per un periodo di tempo diverso. La memoria iconica è la più breve: quando guardate una scena e poi chiudete gli occhi, c’è un brevissimo momento in cui quella scena è ancora trattenuta dalla mente prima di evaporare nel buio dietro le palpebre.

Per avere l’esperienza di una scena visiva, il vostro cervello ha bisogno di immagazzinare le informazioni da qualche parte. Questa tecnicamente è una forma di memoria, e vi permette di fare cose come guardare dall’altra parte della strada e contare le finestre del palazzo di fronte a voi. Questo tipo di memoria a medio termine si chiama memoria di lavoro. È quello che potete tenere in mente con un deliberato sforzo di concentrazione, per esempio se vi leggo un numero di telefono. È una sorta di memoria purgatorio: trattiene brevemente le informazioni troppo importanti per essere scartate immediatamente, ma che con ogni probabilità non vale la pena di conservare per sempre. Il terzo tipo è la memoria a lungo termine. Sono le cose che apprendete oggi e potete ricordare ancora domani o tra dieci anni. Se ripetete il numero di telefono tante volte per ricordarlo in seguito – gli psicologi chiamano questo processo rehearsal, reiterazione – lo immagazzinate nella memoria a lungo termine. Quanto tempo ci resterà può variare da qualche minuto fino al resto della vostra vita.

La ragione per cui dimentichiamo tra le fasi di memoria iconica, di lavoro e a lungo termine è evidente. È lo stesso motivo per cui ricordiamo una scacchiera per i suoi quadrati alternati e non per i singoli pixel di vernice bianca e nera. Non tutte le informazioni sono utili. Alcune cose rimangono ancorate nei nostri ricordi quando sono legate a una forte emozione (la sorpresa o il timore, l’amore o la paura): un potente segnale per il cervello che l’evento, la scena, il fatto o l’idea saranno in qualche modo essenziali per la nostra sopravvivenza.

N.N. era in grado di memorizzare una serie di numeri a caso. Aveva quella che gli psicologi cognitivi chiamano memoria semantica

Altre informazioni sono reiterate naturalmente, tramite l’esperienza. Certi eventi e dettagli si ripetono nel tempo – la corsa in autobus per andare a scuola da bambini, per esempio, o come vi accoglie il vostro cane quando tornate a casa da un viaggio – e così vengono immagazzinati nella memoria più e più volte, rafforzandone la permanenza.

Recenti ricerche suggeriscono che per gli schemi esperienziali ricorrenti – un cameriere che deve ricordare decine di ordini complicati ogni sera, per esempio – questo processo implica strutture mnemoniche complesse, note come template, che permettono alle informazioni statisticamente regolari nell’ambiente di una persona di trovare con più facilità il loro posto per essere recuperate a lungo termine.

Oltre ai segnali emotivi e alle reiterazioni, esiste un altro modo ancora che fa sì che un’informazione possa restare nella memoria a lungo termine: quando è associata alle informazioni concettuali immagazzinate. Quando la capiamo.

Una delle prime linee di ricerca psicologica per dimostrarlo fu una serie di studi svolti nei primi anni settanta da Herbert Simon e William Chase. Simon e Chase mostrarono diverse disposizioni dei pezzi su una scacchiera a due gruppi di volontari. Il primo gruppo era composto da giocatori esperti, il secondo da persone che non avevano mai giocato a scacchi. Quando i ricercatori mostravano disposizioni casuali e incoerenti, che non si sarebbero mai verificate in una partita, entrambi i gruppi rispondevano più o meno allo stesso modo. Ma quando le disposizioni riflettevano i momenti di una vera partita, i giocatori esperti riuscivano a ricordare lo schieramento dei pezzi quasi perfettamente. Per i principianti invece non cambiava nulla. Questa scoperta fu al centro di una discussione tra gli psicologi cognitivi fin da subito. Ma un recente riesame che riepiloga i decenni di ricerche successive suggerisce che, almeno per gli esperti, la memoria non si basa solo sul riconoscimento di schemi familiari, ma su una comprensione concettuale di alto livello.

Uno studio, diventato un classico, dello scienziato cognitivo John R. Anderson suggeriva che anche una persona nella media può immagazzinare i ricordi in comparti concettuali. Anderson chiese ai volontari di memorizzare elenchi di parole concettualmente legate (come “zucchero”, “caramella”, “aspro”, “buono”, “sapore”) e ricordarle più tardi. Il trucco era che quando ai volontari veniva dato il test di controllo, Anderson metteva parole esca tra quelle che avevano visto. Queste parole non facevano parte dell’elenco originale, ma alcune erano concettualmente legate alla lista iniziale (per esempio “dolce”).

Categoria generale

Anderson rilevò che le persone tendevano a ricordare erroneamente le parole esca concettualmente legate piuttosto che quelle non collegate. I soggetti del test non ricordavano solo le parole, ma la categoria generale in cui rientravano. Questo effetto in seguito è stato replicato più volte, anche usando immagini al posto delle parole.

Il punto è che il cervello non si limita a immagazzinare fatti inerti che possono essere semplicemente ricordati o dimenticati. Formula ipotesi sul contesto concettuale più ampio, generando supposizioni e riempendo al tempo stesso gli spazi vuoti: usa l’immaginazione per creare l’intero, per costruire un mondo in cui possiamo entrare.

“Noi siamo la nostra memoria,” scriveva Borges, “noi siamo questo museo chimerico di forme incostanti, questo mucchio di specchi rotti”.

È vero. Tutto quello che vediamo, facciamo e immaginiamo è costruito sull’esperienza passata, immagazzinata in frammenti rotti che devono essere riassemblati più e più volte, riflettendo il nostro passato nel presente e proiettandolo nel futuro. ◆ gc

Cody Kommers ha appena terminato un dottorato in psicologia sperimentale all’università di Oxford, nel Regno Unito. Conduce il podcast Meaning lab.

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Questo articolo è uscito sul numero 1517 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati