Cultura Suoni
Fatigue
L’Rain (Andy Swartz)

Il secondo album di L’Rain (il nome d’arte della cantante di Brooklyn Taja Cheek) va ascoltato dall’inizio alla fine, possibilmente in cuffia. Dovete lasciargli il tempo di cambiarvi, permettergli di portarvi altrove. Ogni canzone è preceduta da un interludio che cuce le varie parti dell’album. Il primo di questi interludi, Fly, die, ci chiede: “Cos’hai fatto per cambiare?”. E questo è un po’ il quesito che ci pone tutto il lavoro di L’Rain: in che modo possiamo aprirci verso l’esterno? Ogni canzone di Fatigue si sviluppa a partire da un suono registrato sul campo: autobus che passano, mani di bambini che applaudono. Il disco sembra partire da un trauma del passato e offrirci una via d’uscita. L’Rain immagina una specie di città psichica dove ogni quartiere è legato a un’emozione particolare. Noi ci voliamo in mezzo e captiamo i frammenti delle interazioni tra le persone: le sentiamo ridere, piangere, applaudire. Nel mondo fluido di L’Rain le emozioni non esistono mai singolarmente.

Georgie Brooke,
The Quietus

Call me if you get lost
LoneLady (alex hurst)

“Usare la parola ‘troia’ non mi piace neanche. Mi sembrava semplicemente cool”, borbotta Tyler, the Creator sul finale del brano Corso. Nel suo sesto album Call me if you get lost il rapper californiano offre uno sguardo su un altro lato della sua personalità. Questa volta assume le sembianze del giramondo Tyler Baudelaire, omaggio al poeta francese dell’ottocento. L’introduzione di questo eccentrico personaggio scatena una serie di sfortunati eventi, come i naufragi delle relazioni amorose (Corso e Wilshire). I passaggi tra un pezzo e l’altro sono magnifici. Il precedente Igor, vincitore del Grammy 2019, era un labirinto pieno d’insidie in grado di farci barcollare, Call me if you get lost invece non ci dà tregua. I sintetizzatori diventano vertiginosi in Sweet/I thought you wanted to dance, una lenta jam in cui compare la voce di Brent Faiyaz. Questo disco ricorda il meglio dei lavori passati del rapper, dai ritmi sinistri di Goblin all’approccio poco ortodosso di Cherry bomb. Tyler, the Creator continua a stupirci.
Roisin O’Connor, Independent

Former things

Una nuova città. Una nuova attrezzatura. Nuovi processi di scrittura. Sono cambiate molte cose nel mondo di Julie Campbell per il suo terzo album, ma la capacità di creare musica innovativa è rimasta la stessa. LoneLady trova sempre modi per lasciare che un insieme variegato di rumori suoni come una sinfonia caotica. Qui il suo processo solitario di scrittura, performance e registrazione esplode con intensità tesa e divertita. Il tipo di genio che può sciogliere tutti questi fili e istintivamente sa quale tirare. _Former things _è colmo di idee perché la musicista di Manchester segue il suo ritmo, sa colpire nel mezzo di un vortice che coinvolge noi quanto lei. Certo, è un album in cui il contemporaneo si contorce nell’analogico in maniera contraddittoria, ma se sei armata con delle canzoni sempre pronte all’attacco, perché preoccuparsene? Tocca agli altri starti dietro.

Reef Younis,
Loud and Quiet

Vladigerov: Préludes exotiques, Impressions

La musica per piano del grande compositore bulgaro Pancho Vladigerov sta conquistando lo spazio che merita. Il suo stile è difficile da descrivere: sembra un po’ Rachmaninov e un po’ Korngold. Ci sono tessiture rigogliose, squillanti accordi ripetuti e grandi, spudorate melodie romantiche, belle senza essere stucchevoli. Probabilmente il modo migliore per fare la conoscenza dei sei _Préludes exotiques _op. 17 e delle dieci _Impressions _op. 9 è ascoltarne due o tre per volta: in fin dei conti quanti dessert ricchissimi e sofisticati si possono mangiare in una volta sola? Le dita e lo spirito di Nadejda Vlaeva sono completamente in sintonia con l’idioma di Vladigerov. Se cercate un regalo per un amico appassionato di pianoforte romantico che pensa di conoscere già tutto, questo disco è perfetto.

Jed Distler, Gramophone

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1416 - 2 luglio 2021
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