Paula Modersohn-Becker fu la prima donna a dipingere un autoritratto di nudo nel 1906. Lavorava a ritmo febbrile, lamentando lo spreco dei suoi primi vent’anni di vita: nella sua penultima estate dipinse un quadro ogni quattro o cinque giorni. Regolarmente descritta come espressionista, i suoi quadri non somigliano a niente o a nessuno. Le sue donne sono rudi ed esatte, brillano di colori strani: è un Balthus in chiave femminista. Morì nel 1907 all’età di 31 anni, dopo aver venduto solo tre quadri, lasciando dietro di sé una foresta di lettere e diari. Marie Darrieussecq, scrittrice francese nota soprattutto per il sorprendente romanzo d’esordio Troismi del 1996, scoprì per la prima volta Modersohn-Becker attraverso un’email finita nella posta indesiderata, illustrata con una piccola immagine di una donna che allatta. Era così inusuale che la lasciò senza fiato. Non riusciva a capire perché non conoscesse già quell’artista tedesca che dipingeva donne vere e comportamenti veri con una franchezza così sicura. Nelle mani di Darrieussecq la storia di Modersohn-Becker diventa una favola inquietante e stimolante che, in modo sorprendente, ricorda una versione tardo ottocentesca del memoir punk di Viv Albertine Vestiti musica ragazzi. Vite troncate, limiti inutili, rimane solo una cosa da fare: guardare le ragazze dipinte da Modersohn-Becker con le loro braccia sottili e le teste forti rivolte verso il cielo.
Olivia Laing, The Guardian
Prima che “scrittore che vive a Brooklyn” diventasse un logoro stereotipo c’era Jonathan Lethem, che a Brooklyn ci è nato e cresciuto e dà alle sue descrizioni di quel luogo ormai gentrificato una squallida verosimiglianza. Lethem sa nel profondo che un coffee shop non è uno Starbucks ma una tavola calda. In Brooklyn crime novel ci troviamo per lo più nei cosiddetti anni bui, i settanta e gli ottanta, con salti indietro nella storia e in avanti fino alla soglia della pandemia. I personaggi non hanno nomi propri, ma sono indicati con descrizioni: il “figlio di un milionario”, un “ragazzo viziato”, un “fratello minore” (tutti bianchi); un ragazzo nero a cui è concessa la benedizione di un’iniziale, C. I personaggi secondari, quelli “veri” nel senso di spalle comiche, ricevono soprannomi stravaganti: il Pantofola, un ragazzo nero benestante e tranquillo che esce in pigiama; Rantolo, un ubriacone calvo, abitante storico del quartiere che si lamenta dei fighetti e degli smartphone; l’Urlatrice, una ragazza “pazza” le cui urla vengono raccolte in un ipotetico album di successi, in stile Nick Hornby. Le ragazze, però, salvo poche eccezioni, sono marginali in questa storia che procede a zigzag e che descrive come i maschi imparino a muoversi tra varie forme di intimità e violenza. Brooklyn crime novel è un libro ridotto all’osso, spogliato fino a mostrare la sua struttura portante ed è un esperimento letterario interessante e davvero toccante.
Alexandra Jacobs, The New York Times
Il nuovo romanzo enigmatico e inquietante di Anita Desai parte con Bonita, una giovane donna indiana che incontra una figura ambigua in un parco di San Miguel de Allende, in Messico. Studente di spagnolo, Bonita sta sfogliando i giornali locali quando viene avvicinata. La “sconosciuta” è anziana, eccessivamente amichevole. Afferma di conoscere la madre defunta di Bonita, che chiama “Rosarita”. Dice di averla incontrata e di essere diventata sua amica quando lei si recò in Messico per studiare arte. Bonita non ricorda che sua madre avesse mai dipinto o viaggiato in Messico. Ricorda però “uno schizzo in pastelli sbiaditi e smorti che pendeva sopra il letto di casa, raffigurante una donna seduta su una panchina – e sì, poteva proprio essere qui a San Miguel – con un bambino che giocava nella sabbia ai suoi piedi”. Scritto in seconda persona, il romanzo descrive il divario che può esistere tra una madre e sua figlia, e quello schizzo a pastello dimenticato e poi ricordato è una sottile mise en abyme che allude anche all’instabilità della memoria e ai confini sempre porosi tra passato e presente. Questo è un romanzo di profonda indagine filosofica che riflette sugli enigmi della mente e del sé, sui confini tra fantasia e realtà e, in ultima analisi, sulla possibilità che una persona possa davvero immaginare e comprendere pienamente la vita di un’altra.
Yagnishsing Dawoor, The Guardian
Scritto in un gustoso dialetto dello Yorkshire, il primo romanzo di Brown segue tre ragazze dall’età di 11 anni nel 1998, quando si legano il primo giorno della “big school” (la scuola media), fino a una loro rimpatriata piuttosto tesa nel 2017, durante la quale viene finalmente rivelato un segreto a lungo nascosto. La narrazione comincia con i ricordi in prima persona di Rachael, che rievoca una notte brava della loro adolescenza e delinea le dinamiche sociali ed emotive che danno forma ai loro rapporti. La famiglia di Rach rappresenta il gradino più alto della classe operaia britannica, e proprio all’inizio della scuola si è appena trasferita in un quartiere migliore. Kel e Shaz, invece, hanno “le stesse madri single che chiamavano ‘ma’, lo stesso sussidio da una sterlina al giorno per il pranzo, gli stessi padri assenti”. Noi bei pezzi di carne è un ritratto brillante dell’amicizia femminile, quasi all’altezza dei romanzi di Elena Ferrante per onestà e finezza.
Kirkus Reviews
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