La pietà può fruttare parecchio ma solo finché non si diventa troppo avidi. Se si esagera si corre il rischio di diventare dipendenti dal disastro. Ed è allora che cominciano i veri guai. Ed è esattamente ciò che accade a Javier “Javi” Perez, il protagonista dell’ottimo esordio di Andrew Boryga. La storia, presentata come un memoir scritto dallo stesso Javi, è al tempo stesso un atto di redenzione e di condanna. Come spiega fin dalla prima frase: “Non stavo cercando di fare la vittima, ma poi il mondo mi ha insegnato quanto sia potente come truffa”. Il romanzo si apre con l’infanzia di Javi. Nato nel Bronx da genitori portoricani della classe operaia, il suo passato può sembrare duro, ma dal suo punto di vista non è stato un inferno. La sventura si manifesta davvero quando, a dodici anni, assiste all’uccisione a colpi di pistola di suo padre. Sorprendentemente ne esce solo scosso, perché stava perdendo “una persona che era presente solo a metà.” Tuttavia Javi capisce presto che nella tragedia si nasconde un’opportunità. Presumendolo traumatizzato, gli insegnanti gli permettono di andare in infermeria ogni volta che vuole. È il suo primo assaggio dello sballo che si prova nell’essere una vittima. Questo è un romanzo avvincente che non solo ci affida il compito di decidere se Javi sia una vittima, un carnefice o entrambe le cose, ma ci costringe anche a interrogarci sulla nostra complicità nella mercificazione del ruolo della vittima.
Mateo Askaripour, The New York Times
Uno psichiatra di New York, un tipo un po’ alla Oliver Sacks, deve fare i conti con un “uomo che cadde sulla Terra” particolarmente ottimista. Uno strano paziente, che si fa chiamare prot (con la p minuscola) e che afferma di essere un visitatore di 357 anni proveniente dal pianeta K-Pax, viene affidato alle cure di questo psichiatra di nome Gene Brewer. Prot, come scopriamo, è uno schizofrenico con una doppia personalità che ha inventato una fantasia elaborata per compensare un trauma. K-Pax, come lo stesso prot dice a Gene durante le loro sedute, è un mondo per lo più incantevole privo di carnivori, aggressività e stress, dove tutti evitano il sesso (perché è doloroso) e parlano con gli animali. Superando la velocità della luce, i k-paxiani possono vagabondare verso altri pianeti, cosa che prot ha fatto per aiutare il suo corrispondente umano, Robert Porter, un ex lavoratore di macelli catatonico, carico di ricordi repressi. Sfortunatamente per Gene, prot è destinato a “partire” solo pochi mesi dopo l’inizio della loro terapia, quindi il dottore deve correre contro il tempo per recuperare ciò che può della biografia sommersa di Robert dal suo protettore e portavoce – cioè prot – prima che scompaia. Con l’aiuto dell’ipnosi e di un’intraprendente giornalista, Gene potrebbe curare l’alieno e riportare Robert in vita dalla catatonia. Nel frattempo, prot offre rimedi di buon senso e adotta un approccio quasi cristiano. K-Pax è una piacevole lezione di psicologia arricchita da una lunga coda utopica.
Kirkus reviews
Jeanne, la narratrice, vive in un piccolo villaggio svizzero nel Vallese ed è cresciuta nella paura di un padre alcolizzato che non esita a brutalizzare regolarmente la moglie e le due figlie. Perfino “la sua preferita”, Emma, di cui abusa sessualmente ripetutamente e che finisce per uccidersi. Il romanzo racconta questi anni di orrore e il tentativo di ricostruzione di Jeanne che, dopo aver studiato in un collegio, va a vivere a Losanna. Lei, che non ha mai conosciuto l’amore, cerca di consolarsi tra le braccia di giovani donne – Charlotte e la più mite Marine – poi tra quelle di un uomo gentile, Paul. Ma la rabbia resta intatta. Perché non c’è perdono possibile per il padre stupratore, questo essere vile che ha condannato la sua famiglia alla povertà, alla sofferenza fisica e morale, alla disperazione. Sarah Jollien-Fardel evita l’autocommiserazione e la tentazione del melodramma. Con sottigliezza descrive l’isolamento, la depressione e la bellezza di questi piccoli villaggi arroccati sulle colline. Allo stesso tempo critica aspramente la borghesia svizzera benpensante che vive sulle rive del lago e il suo disprezzo di classe.
Philippe Chevilley, Les Echos
L’età del disincanto è una novella, un romanzo breve che ricostruisce sei settimane nella vita di una coppia (due dentisti) e delle loro tre bambine. Lei accarezza l’idea di lasciare la famiglia per un amante. Il marito-narratore si sforza di evitare un confronto con la moglie che la costringerebbe a confessare o le rivelerebbe che lui è già a conoscenza del suo dilemma. Ci riesce, aiutato dall’incessante fluire della vita quotidiana con i bambini, da dettagli non del tutto convincenti sulla pratica odontoiatrica, ma soprattutto dalla sua ostinata determinazione a far andare avanti le cose a qualsiasi costo. L’età del disincanto, come lui la descrive, è “quando le barriere tra le proprie circostanze e il resto del mondo sono infine abbattute”. L’approccio di Smiley come scrittrice è generoso. Vuole raccontarci ciò che sa, offrire i suoi pensieri sulla vita in una forma narrativa piacevole. Tuttavia non sembra esserci una motivazione interna sufficiente perché le prolungate riflessioni del dentista diventino una novella anziché un racconto molto più breve. In questo caso, la novella potrebbe essere, come molti autori prima di Smiley hanno scoperto, una forma o troppo lunga o troppo corta.
Laura Furman, Los Angeles Times
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