Due mesi dopo il suo arrivo al potere, nel 1999, il presidente algerino Abdelaziz Bouteflika presentò la cosiddetta legge sulla concordia civile. Per porre fine a dieci anni di guerra tra militari e islamisti offriva l’amnistia a questi ultimi, a condizione che non avessero commesso crimini: “Tutti i terroristi che venivano mostrati in televisione al telegiornale delle venti spiegavano che avevano lavorato come cuochi nei nascondigli degli assassini”, racconta con feroce ironia un personaggio di Urì, terzo romanzodello scrittore franco-algerino Kamel Daoud (discusso premio Goncourt nel 2024). In Algeria la verità non è solo travisata, è anche proibita. Daoud insiste sul silenzio che viene bilanciato dal pensiero e dall’osservazione, stratagemmi che permettono una specie di libertà d’espressione: scrivere nero su bianco ciò che è stato quando parlare è vietato. L’autore, oggi residente in Francia, forse usa un po’ troppo la metafora della “voce interiore”, ma il suo testo è potente, istruttivo, necessario. Aube, la narratrice, è diventata muta dopo che hanno provato a sgozzarla quando aveva cinque anni, la notte del 31 dicembre 1999. Il suo assassino non è riuscito a ucciderla ma le ha fatto perdere l’uso delle corde vocali lasciandole una cicatrice orribile. Ventuno anni dopo Aube si rivolge al bambino che porta in grembo e gli racconta la storia del “decennio nero” che si è conclusa con “la riconciliazione dei carnefici con i carnefici”.
Virginie Bloch-Lainé, Libération
Con la storia della fittizia famiglia Larkin, Adam Rapp non risparmia nulla nel tentativo di spiegare ciò che la maggior parte di noi preferisce credere inspiegabile. Come può un ragazzo proveniente da una famiglia normale diventare un assassino di massa? Rapp ce lo mostra, passo dopo passo, dal 1951 al 2010. Ogni capitolo è raccontato dal punto di vista di un componente della famiglia. Lungo il percorso conosciamo Ava e Donald Larkin e i loro figli: Myra Lee, Joan, Alec, Fiona e Lexy. I personaggi sono prevedibili fino a quando smettono di esserlo e la trama sembra noiosa, finché non fatichiamo a starle dietro, mentre Rapp costruisce una narrazione che, anche nei suoi momenti più scioccanti, risulta fin troppo realistica. Ignorare segnali allarmanti può sembrare indifendibile, ma Rapp sa che la maggior parte delle famiglie è più complicata di quel che sembra. E confida che anche i suoi lettori lo sappiano.
Connie Schultz, The New York Times
L’ipocrita è un romanzo su una pièce teatrale che parla di un romanzo. Comincia con una madre su una spiaggia in Sicilia mentre osserva il marito e la figlia piccola giocare nell’acqua. La madre non ama particolarmente il padre, che è impegnato sul “suo romanzo nell’altra stanza” per gran parte della vacanza. Si sente invisibile e ne soffre. Poi si salta al 2020, a Londra, dove viene messa in scena una pièce autobiografica: una Sophia adolescente e suo padre soggiornano in una villa su un’isola siciliana, in agosto. Sul palco il padre scrive un romanzo o, più che altro, lo detta alla figlia. Il suo libro racconta di uno scrittore in vacanza su un’isola siciliana che vive avventure sessuali. Mentre il padre della Sophia adulta guarda lo spettacolo, lei pranza con sua madre. Tra molti bicchieri di vino e piatti italiani quasi intatti, madre e figlia discutono della probabile reazione del padre vedendosi rappresentato sul palco: lui, la sua scrittura, e il suo rapporto con la figlia. Il padre, in effetti, rimane sconvolto e si aggira per Londra angosciato, rifiutando le chiamate sempre più ansiose. L’ipocrita è un libro sulla violenza gentile che è il perno intorno al quale ruota la famiglia borghese, e il motore del romanzo è proprio la rappresentazione artistica delle vacanze italiane. Anche se forse funzionerebbe meglio ammettere pienamente questa realtà, anziché cercare di anticipare e contemporaneamente trasformare in satira le differenze generazionali.
Sarah Moss, The Guardian
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