Dopo anni trascorsi a suonare vari strumenti nella scena alternativa islandese, Ólöf Arnalds nel 2007 ha pubblicato il suo delicato debutto Við og Við. Nei sette anni successivi ha realizzato altri tre album sempre più ricchi, fino al pop acustico ed elettronico di Palme (2014). Dopo una pausa di un decennio – durante la quale ha lavorato come copywriter, cresciuto i figli, fondato lo spazio artistico Mengi a Reykjavík e sposato il collaboratore Skúli Sverrisson – è tornata in studio e ha scelto una formazione ridotta per registrare Spíra, che significa germoglio. Spíra è un disco personale, che guarda alla sua vita con gratitudine. Cantato in islandese, si apre con la ballata Heimurinn núna, seguita da brani che evocano melodie da trovatrice medievale. Il brano che dà il titolo al disco racconta la custodia condivisa del figlio, mentre Tár í morgunsárið riflette sulla spiritualità. Il disco si chiude con il più energico Afl þitt og hús e con Lifandi. Con arrangiamenti minuti e una voce intensa, Spíra rivela un’artista da riscoprire.
Marcy Donelson, All Music
Dicembre è il momento giusto per lanciare tutta la musica troppo intima e poetica che non può essere urlata. Su questa strada s’inserisce Blizzard, che senza fanfare arriva alla fine dell’anno come un sussurro, una meraviglia di pop-folk da camera. Il primo singolo To the sandals è la riflessione spettrale su una sparatoria durante un matrimonio a Cancún, caratterizzato da rintocchi di chitarra e un sassofono delicato. La voce cambia forma, non si capisce se è maschile o femminile. Nel corso di queste dieci tracce, il cantautore irlandese non si limita a fare eco alle sue influenze, come Jeff Buckley, ma costruisce un’architettura emotiva. La natura è una musa ricorrente: le stagioni, gheppi e falchi sopra le nostre teste, i corvi che cantano avvertimenti inascoltati. Queste immagini non sono solo decorative: ci guidano in un mondo in cui il desiderio è costante ma mai tetro. Una lente d’ingrandimento per la bellezza fragile dell’esperienza umana, per i modi con cui ci aggrappiamo alla memoria e alla speranza. Questo debutto è il culmine di una gavetta nei locali di Manchester, con cui Dove Ellis traduce una presenza magnetica in qualcosa di più grande, ancora da esplorare.
Sahar Ghadirian, Clash
Ascoltare wet glass è come viaggiare all’alba su un’autostrada bagnata sul sedile del passeggero, mentre i Verity Den sembrano essere altrove con la mente. Le loro canzoni si muovono tra luoghi indefiniti, come frammenti di un sogno. Ma la loro condizione sospesa non è immobilità: nel subconscio c’è movimento, lucidità, tensione. Dopo un debutto lo-fi, questo secondo album apre un nuovo spazio emotivo. La produzione, più nitida e vasta, permette ai brani di respirare. Le percussioni di spit red crescono come un’eco capovolta; in vacant lot la voce morbida di Casey Proctor si fonde a chitarre che ribollono come nebbia sul parabrezza. I sette minuti di push down hard / tess II galleggiano come luce in una piscina, con voce e chitarra che creano una fragile tensione di superficie. La voce parlata di Mike Wallace contrasta con le melodie eteree di Proctor, spesso distanti nel mix, come se arrivassero da una stanza accanto. In sympathizer lei emerge dal torpore su chitarre lucenti, sussurrando: “Do. You. Sympathize?”, lasciando che una chitarra nervosa completi il pensiero. I testi si adattano alle strutture sognanti dei brani. to trees è grezza e quasi improvvisata. In unsolved mystery un’unica frase riaffiora lentamente da un bordone ovattato, ricordando l’influenza degli Yo La Tengo, che si sente anche nell’apertura di vacant lot. Rispetto al dream-pop più sonnolento, i Verity Den lasciano correre i loro sogni lucidi. I ritornelli brillano. green drag è il momento più radioso, un jangle-pop da cavalcare verso il tramonto. In wet glass il vagare continuo rende ancora più preziosi gli attimi di chiarezza. Anche senza sapere dove ci porteranno i Verity Den, basta lasciarsi trasportare.
Grace Robins-Somerville, Pitchfork
Scrivere sinfonie nell’Unione Sovietica del dopoguerra (1955-90) implicava seguire una tradizione. Galina Ustvolskaja però la rifiuta in modo completo e spesso aggressivo: esprime un rapporto personale con la religione ortodossa e una resistenza all’autoritarismo e all’ateismo sovietici. Il sottotitolo della terza sinfonia è “Gesù, Messia, salvaci!”. Gli appassionati recitatori della terza e della quarta sinfonia intonano un inno dell’undicesimo secolo sullo sfondo di solenni corali strumentali, versetti e ritornelli che ricordano la forma e l’armonia delle tarde opere religiose di Stravinskij. C’è qualcosa di antico e immobile in questa musica. Cantata da un fanciullo nel secondo movimento della prima sinfonia, una favola infantile macabro-poetica di Gianni Rodari ci riporta magicamente nel mondo dell’Uccello di fuoco e della Sagra della primavera. Queste interpretazioni, accuratamente preparate, offrono il profilo più convincente di Ustvolskaja come artista pienamente autonoma. Anche la registrazione è esemplare nel catturare l’intera gamma di volume e intensità richiesta. Il libretto riporta sia i testi cantati sia le traduzioni e un ottimo saggio di Elena Dubinets.
Peter Quantrill, Gramophone
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