Le più grandi aziende di combustibili fossili al mondo stanno preparando decine di carbon bomb (bombe di carbonio), progetti di estrazione di petrolio e gas che farebbero aumentare la temperatura globale ben oltre i limiti fissati a livello internazionale, con effetti catastrofici. I dati mostrano che queste industrie stanno facendo scommesse multimiliardarie contro la lotta al riscaldamento globale. Sono investimenti colossali che saranno ripagati solo se i governi non ridurranno in tempi rapidi le emissioni di anidride carbonica, un obiettivo che la comunità scientifica considera vitale.

L’industria del petrolio e del gas è estremamente volatile ma straordinariamente redditizia, soprattutto quando i prezzi sono alti come ora. Negli ultimi trent’anni la ExxonMobil, la Shell, la Bp e la Chevron hanno guadagnato quasi duemila miliardi di dollari, e dopo il recente aumento dei prezzi, l’amministratore delegato della Bp ha definito l’azienda una “macchina da soldi”.

La tentazione di realizzare enormi dividendi nei prossimi anni sembra una prospettiva irresistibile per le compagnie petrolifere, anche se a febbraio i climatologi hanno ribadito che aspettare ancora a ridurre l’uso dei combustibili fossili significa perdere l’ultima possibilità “di assicurare un futuro vivibile e sostenibile per tutti”. Ad aprile il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha avvertito i leader mondiali: “La nostra dipendenza dai combustibili fossili ci sta uccidendo”.

I dettagli dei progetti in corso non sono facilmente accessibili, ma un’inchiesta pubblicata dal Guardian rivela che i piani di espansione a breve termine dell’industria dei combustibili fossili prevedono il lancio di una serie di progetti che produrranno una quantità di gas serra equivalente a dieci anni di emissioni di anidride carbonica della Cina, la più grande inquinatrice del mondo. Tra questi piani ci sono 195 bombe climatiche, ognuna delle quali comporterebbe l’emissione di almeno un miliardo di tonnellate di anidride carbonica nell’arco della loro vita, per un totale equivalente più o meno a 18 anni delle attuali emissioni mondiali. Circa il 60 per cento di questi progetti è già attivo.

Da oggi al 2030 le dodici maggiori aziende energetiche spenderanno 103 milioni di dollari al giorno per sfruttare nuovi giacimenti di petrolio e di gas, che non dovrebbero essere bruciati se vogliamo limitare l’aumento della temperatura media globale a meno di 2 gradi centigradi rispetto all’epoca preindustriale.

Quando si parla di produzione di gas e petrolio di solito si pensa al Medio Oriente e alla Russia, ma gran parte dei nuovi progetti interessa gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia, che tra l’altro offrono anche ricchi sussidi ai combustibili fossili.

Alla 26 Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (Cop26) tenutasi a Glasgow nel novembre 2021, dopo un quarto di secolo di negoziati che non sono ancora riusciti a ridurre le emissioni globali, i paesi di tutto il mondo hanno finalmente inserito la parola “carbone” nelle conclusioni finali. Tuttavia anche questa tardiva citazione del più pericoloso tra i combustibili fossili è stata sofferta: il presidente della Cop, Alok Sharma, si è detto “profondamente rammaricato” e non è riuscito a trattenere le lacrime sul palco dopo che all’ultimo minuto l’India ha chiesto e ottenuto una revisione del testo, in cui non si parla più di “eliminare” ma di “ridurre”.

Ladakh, India, marzo 2022. Un ghiacciaio artificiale usato per immagazzinare acqua con cui irrigare i campi (Kai Wiedenhoefer)

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In ogni caso, il mondo ha stabilito che il carbone appartiene al passato: la questione ora è capire quanto tempo ci vorrà per sostituirlo con fonti rinnovabili e quanto sarà equa la transizione per i paesi poveri che ancora dipendono da esso.

Nell’accordo finale della Cop26, però, non sono citati né il petrolio né il gas, che pure sono responsabili di quasi il 60 per cento delle emissioni prodotte dai combustibili fossili. Oltretutto, molti paesi ricchi come gli Stati Uniti, che dominano la diplomazia internazionale del clima e si presentano come leader nella lotta al cambiamento climatico, sono tra i principali promotori di nuovi progetti legati al petrolio e al gas. A differenza dell’India, però, questi paesi sono stati risparmiati dalle critiche.

Per questo abbiamo deciso di ricostruire un quadro il più chiaro possibile delle prossime attività legate all’esplorazione e alla produzione di petrolio e gas.

Allarme rosso

La comunità scientifica internazionale è d’accordo sul fatto che il pianeta è in grossi guai. Ad agosto Guterres ha commentato con parole forti un impietoso rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), la principale autorità mondiale sulla scienza del clima, definendolo “un allarme rosso per l’umanità”. L’Ipcc afferma che le emissioni di anidride carbonica dovrebbero essere ridotte della metà entro il 2030 per avere la possibilità di un futuro vivibile, ma per il momento non ci sono segni che questo stia succedendo.

Almeno dal 2011 gli esperti avvertono che gran parte delle riserve mondiali di combustibili fossili dovrebbe restare inutilizzata per non provocare un riscaldamento globale dagli esiti catastrofici. Nel 2015 un’analisi autorevole aveva stabilito che per mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2 gradi, metà delle riserve conosciute di petrolio, un terzo di quelle di gas e l’80 per cento di quelle di carbone dovevano restare sotto terra. Oggi il problema è ancora più grave. Grazie a una comprensione più chiara delle conseguenze devastanti del cambiamento climatico, il limite è stato abbassato a 1,5 gradi per ridurre il rischio di ondate di calore, siccità e alluvioni estreme. A maggio del 2021 un rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) ha concluso che non potranno essere aperti nuovi campi petroliferi e di gas né miniere di carbone se il mondo vuole azzerare le emissioni nette entro il 2050.

A questo allarme ne sono seguiti altri. Un’analisi scientifica recente ha stabilito che per raggiungere l’obiettivo di 1,5 gradi bisognerà lasciare sotto terra il 60 per cento del petrolio e del gas, e il 90 per cento del carbone, e l’Onu ha sottolineato con preoccupazione che la produzione di combustibili fossili “supera di gran lunga” il limite. Ad aprile, turbato dall’ultimo rapporto dell’Ipcc, Guterres ha attaccato le aziende e i governi che non rispettano gli impegni. “Stanno mentendo, e gli effetti saranno catastrofici”, ha detto. “Investire in nuove infrastrutture per i combustibili fossili è una follia morale ed economica. A volte gli attivisti per il clima sono dipinti come pericolosi estremisti. Ma i veri estremisti sono i paesi che aumentano la produzione di combustibili fossili”.

Oderteich, Germania, aprile 2021. Una foresta attaccata dagli insetti, favoriti dal cambiamento climatico (Kai Wiedenhoefer)

L’invasione russa dell’Ucraina ha spinto ancora più in alto i prezzi del petrolio e del gas, incentivando ulteriormente le scommesse su nuovi campi e infrastrutture che resterebbero in funzione per decenni. L’incapacità di costruire un’economia più sostenibile dopo la pandemia di covid-19 e la crisi finanziaria del 2008 non è stata un buon segno, e secondo Guterres “gli interessi legati ai combustibili fossili stanno usando cinicamente la guerra in Ucraina per rendere inevitabile un futuro ad alte emissioni”.

Valutare gli sviluppi nel campo del petrolio e del gas è difficile: il settore è complesso e poco trasparente, le informazioni pubbliche sono poche e difficili da trovare. Ma i giornalisti del Guardian hanno lavorato per mesi insieme a centri studi, analisti ed esperti in tutto il mondo, e ora possiamo rispondere a una serie di domande che rivelano le dimensioni dei progetti in corso. Quanti combustibili fossili produrranno i progetti che partiranno durante questo decennio cruciale? Dove si trovano i più grandi? Quanto denaro sarà investito in petrolio e gas invece che in energia pulita? E chi guadagna di più dai sussidi ai combustibili fossili?

Le risposte portano a una conclusione inesorabile: se i progetti andranno avanti, faranno saltare il bilancio di anidride carbonica, il margine sempre più stretto di emissioni che è necessario rispettare per garantire un futuro vivibile al mondo. Nonostante le promesse di molte compagnie petrolifere, i dati mostrano che il settore è deciso a continuare sulla sua strada, costi quel che costi.

I piani di espansione a breve termine di aziende come la ExxonMobil e la Gazprom sono giganteschi. Secondo i dati raccolti dal Guardian, nei prossimi sette anni lanceranno progetti di estrazione per un totale di 192 miliardi di barili di petrolio, pari a dieci anni delle attuali emissioni della Cina. Questa stima è stata fornita dagli analisti della ong Urgewald ed è basata sui dati non pubblicati della società di consulenza Rystad Energy, che monitora i piani di 887 aziende. Queste compagnie hanno già finanziato progetti per un totale di 116 miliardi di barili, più di metà del totale, ma anche nel resto dei progetti hanno già investito molte risorse. Se i governi non interverranno in modo deciso è molto probabile che questi progetti saranno realizzati, osserva Urgewald.

Un terzo dei piani riguarda processi “non convenzionali” e rischiosi, come il fracking (fratturazione idraulica) e l’estrazione in acque profonde. I 192 miliardi di barili sono divisi in parti più o meno uguali tra liquidi (come il greggio) e gas. Bruciando questi combustibili si produrrebbero 73 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Ma il metano è di per sé un potente gas serra, capace di trattenere nell’arco di vent’anni 86 volte più calore dell’anidride carbonica, e durante la sua lavorazione si verificano costantemente perdite. Calcolando un tasso di perdita standard del 2,3 per cento nella filiera, si arriva all’equivalente di 97 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, che ci spingeranno ancora più rapidamente verso l’inferno climatico.

In cima alla lista di Urgewald ci sono le compagnie petrolifere di stato, con la Qatar Energy, la russa Gazprom e la saudita Aramco ai primi posti. Metà dei progetti di espansione della Gazprom sono nella fragile regione dell’Artico, anche se le conseguenze a lungo termine della guerra in Ucraina sui piani della Russia sono tutte da valutare. I colossi petroliferi ExxonMobil, Total, Chevron, Shell e Bp sono tutti tra i primi dieci posti. La produzione non convenzionale e ad alto rischio pesa per il 70 per cento del totale delle grandi aziende statunitensi e oscilla fra il 30 e il 60 per cento della produzione europea.

Laach, Germania, luglio 2021. Dopo l’esondazione del fiume Ahr (Kai Wiedenhoefer)

“La maggior parte delle aziende va avanti come se niente fosse”, osserva Nils Bartsch di Urgewald. “Ad alcune semplicemente non importa nulla. Altre non si sentono responsabili perché i governi le lasciano fare, anche se quegli stessi governi sono influenzati dal settore”.

Due terzi dei 116 miliardi di barili dei progetti già finanziati saranno prodotti in Medio Oriente, Russia e Nordamerica, secondo la Rystad Energy. L’Australia sarà uno dei protagonisti con 3,4 miliardi di barili, più di quanti ne estrarrà tutta l’Europa, dove i giacimenti sono quasi esauriti.

Un’analisi di Urgewald sugli investimenti nell’attività esplorativa negli ultimi tre anni mostra che ai primi quattro posti, insieme alla Shell, ci sono tre grandi compagnie cinesi di cui non si parla molto: la PetroChina, la China National Offshore Oil Corporation e la Sinopec. Sette delle prime dieci aziende di questa lista lavorano a progetti legati al fracking, alla perforazione in acque profonde nell’Artico e alle sabbie bituminose.

Disinteresse totale

Daniel Ribeiro si batte da più di quindici anni contro il progetto di un gasdotto offshore e di un impianto di liquefazione del gas nella provincia di Cabo Delgado, in Mozambico. Il piano, che provocherebbe un aumento gigantesco delle emissioni in uno dei paesi più poveri e più esposti ai fenomeni climatici al mondo, ha attirato l’attenzione delle grandi aziende, che fiutano l’ennesimo affare. “Il progetto sta già creando enormi problemi ai pescatori e agli agricoltori locali”, dice Ribeiro, che fa parte dell’associazione ambientalista locale Justiça ambiental. “Ma se andrà avanti, e paesi come il Mozambico imboccheranno la strada dei combustibili fossili, sarà una catastrofe globale”.

Il progetto di Cabo Delgado è una delle 195 bombe climatiche che potrebbero provocare un catastrofico collasso del clima globale. Negli ultimi dieci anni l’espressione carbon bomb è stata spesso usata per descrivere i grandi progetti legati ai combustibili fossili, ma una nuova ricerca fissa una definizione più specifica, restringendo il campo ai progetti che possono produrre almeno un miliardo di tonnellate di anidride carbonica nell’arco della loro vita. Tra questi ci sono i nuovi pozzi che stanno spuntando come funghi nelle zone disabitate del Canada all’interno del grande piano di sviluppo Montney play, e i giganteschi campi petroliferi del North Field in Qatar, citati nello studio come i più grandi tra i nuovi progetti di estrazione a livello mondiale.

La ricerca, coordinata da Kjell Kühne dell’università di Leeds e pubblicata dalla rivista Energy Policy, rivela che nonostante gli impegni presi alla Cop26 di Glasgow i politici di tutto il mondo hanno dato il via libera a una gigantesca espansione della produzione di petrolio e di gas che rischia di portare la civiltà sull’orlo del precipizio. Messi insieme, questi progetti causerebbero l’emissione di 646 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, dice lo studio, esaurendo l’intero bilancio di anidride carbonica mondiale.

“Far pagare il giusto prezzo per i combustibili fossili contribuirebbe enormemente ad accelerare la transizione”

Più del 60 per cento di questi piani è già attivo. Secondo Kühne il restante 40 per cento dev’essere assolutamente fermato se il mondo vuole evitare la catastrofe. Questi progetti dovranno essere il bersaglio principale del movimento globale di protesta per il clima nei mesi e negli anni a venire. “Evidentemente l’accordo di Parigi non è bastato a mettere in discussione gli interessi delle aziende petrolifere. Questi progetti sono la prova che non ci stiamo impegnando abbastanza”.

Lo studio si basa sui dati della Rystad Energy, ma invece che sulla produzione complessiva si concentra sui megaprogetti potenzialmente responsabili della maggior quantità di emissioni. Secondo le sue conclusioni, gli Stati Uniti sono la principale fonte di potenziali emissioni. Tra le 22 bombe climatiche in territorio statunitense ci sono attività convenzionali di perforazione e fracking che vanno dalle acque profonde del golfo del Messico al Front Range, in Colorado, passando per il Bacino permiano. Messe insieme, queste iniziative rischiano di emettere 140 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, quasi quattro volte le emissioni dell’intero pianeta in un anno. Al secondo posto c’è l’Arabia Saudita, con 107 miliardi di tonnellate, seguita da Russia, Qatar, Iraq, Canada, Cina e Brasile. L’Australia, spesso criticata per la sua inerzia di fronte alla crisi climatica, è al sedicesimo posto.

Secondo il professor Kevin Anderson, del Tyndall centre for climate change research di Norwich, nel Regno Unito, l’entità dei progetti messi in cantiere dimostra che le grandi compagnie petrolifere e i loro sponsor politici non credono alla scienza del clima, oppure pensano che la loro ricchezza estrema possa in qualche modo metterli al riparo dalle conseguenze devastanti. “O gli scienziati hanno passato trent’anni a lavorare su questo tema e non ci hanno capito niente, oppure i dirigenti delle aziende non hanno il minimo interesse per le persone più esposte ai cambiamenti climatici, che sono lontane dalla loro realtà quotidiana. La cosa ancora più preoccupante è che sembra che non gli interessi nemmeno il futuro dei loro stessi figli”.

Un mare di soldi

A febbraio, quando ha presentato i ricavi trimestrali della Bp, il direttore finanziario Murray Auchincloss ha spiegato: “È possibile che stiamo accumulando più soldi di quanti ne potremo spendere. Per il momento voglio essere prudente e gestire l’azienda come se il prezzo del petrolio fosse quaranta dollari al barile. Ovviamente, tutto quello che arriva in più per noi è un bene”. In quel momento il prezzo del petrolio era sopra i 90 dollari al barile, oggi sfiora i 120 dollari.

Il settore petrolifero sguazza nella liquidità. Questi soldi appartengono agli azionisti, tra cui i fondi pensione, o nel caso delle aziende di stato, ai governi e, almeno in teoria, ai cittadini. Ma i piani d’investimento delle grandi compagnie petrolifere sono in netto contrasto con l’obiettivo di fermare la crisi climatica.

I dati del centro studi Carbon tracker mostrano che fino al 2030 le dodici aziende energetiche più grandi al mondo investiranno 387 milioni di dollari al giorno in giacimenti di petrolio e di gas. Una parte significativa di questi soldi serve a mantenere la produzione dei progetti esistenti (durante la transizione energetica il mondo avrà ancora bisogno di petrolio e gas) ma l’esatto ammontare non è stato reso noto. La cosa certa, però, è che almeno un quarto della cifra – 103 milioni di dollari al giorno – è stato stanziato per estrarre petrolio e gas che non dovrebbero essere usati se vogliamo evitare le peggiori conseguenze della crisi climatica. Sono soldi che potrebbero essere usati per accelerare la transizione all’energia pulita. Aspetto ancora più preoccupante, le aziende stanno lavorando a ulteriori progetti in cui potrebbero spendere altri 84 milioni di dollari al giorno e che porterebbero l’aumento delle temperature oltre la soglia dei 2,7 gradi.

Con l’accordo sul clima di Parigi i governi si sono impegnati a limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2 gradi e a fare il possibile per mantenerlo entro 1,5 gradi. Questo secondo obiettivo richiederebbe di fermare tutti i nuovi progetti.

I dati di Carbon tracker, raccolti a settembre, prendono a riferimento un aumento della temperatura di 1,65 gradi e mostrano che il 27 per cento degli investimenti previsti dalle aziende è incompatibile con questo obiettivo. La ExxonMobil è l’azienda che ha investito di più in questi progetti, con 21 milioni di dollari al giorno fino al 2030, seguita dalla Petrobras (15 milioni), dalla Chevron e dalla ConocoPhillips (12 milioni) e dalla Shell (8 milioni). Per quanto riguarda gli investimenti più pericolosi – quelli che rischiano di provocare un aumento di oltre 2,7 gradi – la Gazprom è la prima della lista con 17 milioni al giorno, seguita dalla ExxonMobil con dodici milioni, dalla Shell con unidici e dalla PetroChina con nove.

Se i governi seguiranno le indicazioni degli scienziati e interverranno per ridurre le emissioni, incentivando l’energia pulita e limitando l’uso di combustibili fossili, le aziende saranno costrette a mettere a bilancio queste enormi somme come perdite, danneggiando gli investitori, i fondi pensione e le finanze pubbliche. Se i governi non interverranno, le aziende raccoglieranno i profitti mentre il mondo brucia.

Nel complesso, le aziende del petrolio sono quelle che hanno scommesso di più: quasi il 40 per cento dei loro investimenti previsti sono incompatibili con l’obiettivo di 1,65 gradi. La più esposta è la ExxonMobil, con il 56 per cento. Per le compagnie petrolifere di stato la media è del 17 per cento, ma la Petrobras arriva al 56 per cento. “Le aziende che continuano a sviluppare progetti sulla base della domanda attuale stanno scommettendo sul mancato intervento della politica e allo stesso tempo stanno sottovalutando il potenziale delle nuove tecnologie, come le fonti rinnovabili e i sistemi di stoccaggio energetico”, osserva Mike Coffin di Carbon tracker.

Secondo un’altra analisi basata sui dati raccolti dalla Rystad Energy ad aprile, dopo l’invasione dell’Ucraina, il 20 per cento delle grandi aziende energetiche mondiali prevede di investire somme enormi (932 miliardi di dollari in totale) entro il 2030.

Liberare il mondo dai combustibili fossili è ancora più difficile a causa dei ricchi sussidi che rendono questi carburanti molto più convenienti rispetto al loro costo reale, se si tiene conto dei danni provocati (l’inquinamento dell’aria uccide sette milioni di persone ogni anno). Nel 2009 il G20 si è impegnato a eliminare progressivamente i sussidi, ma finora è stato fatto pochissimo.

Ogni anno i produttori e i consumatori di combustibili fossili ricevono centinaia di milioni di dollari di contributi finanziari diretti, ma l’aiuto rappresentato dal fatto di non pagare i danni che provocano è molto più grande. Secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), se si considerano i danni causati dal cambiamento climatico e dall’inquinamento dell’aria, i sussidi per i combustibili fossili arrivano a toccare i seimila miliardi di dollari l’anno. È l’equivalente di undici milioni di dollari al minuto, di cui quattro milioni al minuto in Cina e più di un milione negli Stati Uniti. Un’analisi più approfondita dei dati dell’Fmi mostra che gli automobilisti statunitensi, canadesi e australiani, insieme a quelli sauditi, sono i maggiori beneficiari al mondo di sussidi per i carburanti usati nel trasporto stradale, e l’attuale crisi energetica sta spingendo diversi governi ad aumentare i bonus.

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Dove si trovano i progetti già finanziati nel 2021, miliardi di barili di produzione (fonte: Rystad Energy)

Nel 2020 i cittadini sauditi hanno beneficiato di un sussidio pro capite per la benzina e il diesel di oltre mille dollari. Negli Stati Uniti la cifra è pari a 644 dollari, mentre in Canada e in Australia è di circa cinquecento dollari. Tra i primi dieci paesi della lista ci sono anche Giappone e Germania.

Gli Stati Uniti sono ai primi posti anche nei sussidi pro capite per tutti i combustibili fossili, con duemila dollari l’anno, dietro soltanto all’Arabia Saudita (4.550 dollari) e alla Russia (3.560). Dopo questi paesi, solo l’Iran (1.815 dollari) è davanti all’Australia (1.730) e al Canada (1.690). Secondo Simon Black, economista del’Fmi, “far pagare il giusto prezzo per i combustibili fossili contribuirebbe enormemente ad accelerare la transizione energetica”.

La risposta delle aziende

Non si può rinunciare al petrolio e al gas da un giorno all’altro, e bisognerà bruciarne una quantità sempre più ridotta durante la transizione verso un’economia globale a emissioni zero nel 2050. La domanda è se le aziende e i governi si stanno muovendo abbastanza in fretta. Il Guardian ha contattato le compagnie petrolifere e del gas citate nell’analisi chiedendo un loro commento.

“Nello scenario della Iea che prevede l’azzeramento delle emissioni nette, e in ogni scenario coerente con l’accordo di Parigi, tutte le fonti energetiche resteranno importanti fino al 2050, compresi il petrolio e il gas naturale”, ha dichiarato un portavoce della ExxonMobil. Tuttavia nel 2050 il ruolo del petrolio e del gas sarà molto minore, e la Iea afferma che “oltre ai progetti già avviati a tutto il 2021, non è previsto lo sviluppo di nuovi campi petroliferi e di gas” nello scenario che prevede l’azzeramento delle emissioni.

La ExxonMobil ha pianificato investimenti per più di 15 miliardi di dollari in iniziative per ridurre le emissioni di gas serra nei prossimi sei anni, ha detto il portavoce, tra cui la cattura e lo stoccaggio del carbonio, l’idrogeno e i biocarburanti. L’azienda punta ad azzerare le sue emissioni nette entro il 2050, ma solo quelle delle sue attività e non quelle del carburante che vende, quindi questo impegno copre solo una piccola parte delle emissioni di cui è responsabile.

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Le aziende con i maggiori progetti di espansione nel 2021, miliardi di barili di produzione (fonte: Urgewald)

Un portavoce della Shell ha citato gli ultimi comunicati dell’azienda: “In base agli investimenti previsti, ci aspettiamo un declino graduale di circa l’1-2 per cento l’anno della produzione totale di petrolio entro il 2030, compresi i disinvestimenti”. “Entro il 2025 la Shell si aspetta un incremento della spesa in prodotti e servizi a basse emissioni pari a circa il 50 per cento della spesa totale”, si legge in una recente relazione dell’azienda. Nel 2022 la percentuale dovrebbe superare il 35 per cento. Nel 2021 “la Shell ha raggiunto il suo obiettivo annuale di investimento in rinnovabili e soluzioni energetiche di due-tre miliardi di euro”, prosegue la relazione.

Anche la ConocoPhillips ha citato un recente piano per l’azzeramento delle emissioni: “Il nostro obiettivo è supportare una transizione ordinata in grado di conciliare offerta e domanda e garantire i ritorni del capitale, fornendo allo stesso tempo energia a prezzi accessibili in modo sicuro e responsabile”. Nel documento si legge che i profitti dei progetti petroliferi e del gas sono significativamente più alti rispetto agli investimenti in energia rinnovabile. Nel 2022 la ConocoPhillips ha stanziato duecento milioni di dollari per ridurre le emissioni delle sue attività. Per abbassare le emissioni derivanti dalla combustione dei carburanti fossili che produce, l’azienda propone un “prezzo delle emissioni unico per tutte le attività, che contribuirebbe a spostare le domanda dei consumatori dalle fonti ad alte emissioni a quelle a basse emissioni”.

“La Petrobras pianifica i propri investimenti sulla base del presupposto che l’accordo di Parigi sarà rispettato e che l’aumento della temperatura si manterrà sotto i 2 gradi centigradi”, ha detto un portavoce dell’azienda brasiliana. “Il petrolio continuerà a essere importante nei prossimi decenni, anche in uno scenario di transizione accelerata”. Secondo il portavoce dell’azienda, lo scenario della Iea che prevede il rispetto del limite di 1,65 gradi presuppone che alcuni investimenti in nuovi progetti saranno comunque necessari. “Investiremo in progetti ad alta resilienza che ci permetteranno di essere competitivi nel rispetto degli obiettivi di Parigi grazie a costi di produzione contenuti e basse emissioni. La Petrobras sta seguendo la sua strategia di massimizzazione del valore del suo portafoglio focalizzandosi su progetti di trivellazione in acque profonde e ultra profonde”.

La TotalEnergies ha fatto riferimento alla sua ultima relazione sulla sostenibilità, che “mostra ai nostri azionisti che siamo sulla strada giusta”. L’azienda si è data l’obiettivo di tagliare del 30 per cento le emissioni legate alla vendita di petrolio e gas entro il 2030 e di incrementare la percentuale delle energie rinnovabili dal 9 al 20 per cento.

La Saudi Aramco e la Eni non hanno voluto rilasciare commenti. Le altre aziende non hanno risposto.

Corsa contro il tempo

L’inchiesta del Guardian ha risposto alla domanda su quanto è grande il pericolo rappresentato dai piani delle aziende petrolifere. Ma ci sono altre domande, che vanno rivolte ai politici e ai governi, le cui risposte possono determinare il corso dell’emergenza climatica.

I governi del mondo interverranno per fermare il gigantesco azzardo delle compagnie petrolifere? I paesi più ricchi, che storicamente sono i principali responsabili delle emissioni, sosterranno una transizione equa per i paesi poveri più esposti agli effetti della crisi in corso?

Un intervento forte e immediato causerà un tracollo finanziario, mandando in fumo miliardi di dollari di investimenti di alcune delle più grandi aziende del mondo? Oppure un’azione più graduale e coordinata ci libererà rapidamente dei carburanti fossili, spegnerà la macchina da soldi delle compagnie petrolifere e ci porterà verso un futuro basato sull’energia pulita , in cui il clima sarà ancora vivibile? Solo il tempo lo dirà. A differenza del petrolio e del gas, però, il tempo a disposizione è poco.

“Il mondo è impegnato in una corsa contro il tempo”, ha detto Guterres. “È arrivato il momento di mettere fine ai sussidi ai combustibili fossili e di fermare la ricerca di nuovi giacimenti”. A proposito della guerra in Ucraina, il segretario generale dell’Onu ha aggiunto: “Di fronte alla mancanza immediata di offerta di combustibili fossili, i paesi potrebbero trascurare o annacquare le misure per ridurne l’uso. È una follia. La dipendenza dai combustibili fossili equivale alla distruzione mutua assicurata”. ◆ fas

Hanno collaborato a questo articolo: Jillian Ambrose, Adam Morton, Nina Lakhani, Oliver Milman e Chris McGreal.

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Questo articolo è uscito sul numero 1466 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati