La giunta militare sudanese si dice pronta al dialogo. Il generale Abdel Fattah al Burhan, stretto tra le pressioni internazionali e la contestazione popolare interna, il 29 maggio ha revocato lo stato di emergenza imposto dopo il colpo di stato del 25 ottobre 2021. In una mossa percepita come un segnale della volontà di allentare le tensioni, la firma del decreto è stata accompagnata il 30 maggio dalla liberazione di 63 persone arrestate durante le proteste contro il golpe. Due giorni prima due manifestanti erano stati uccisi dalle forze di sicurezza.

Approfittando della sollevazione popolare che aveva portato alla caduta del regime islamista-militare di Omar al Bashir l’11 aprile 2019, Al Burhan ha stroncato il processo di transizione democratica, estromettendo i civili che facevano parte della coalizione al potere. Da allora i militari esercitano una violenta repressione nei confronti dei manifestanti, che rifiutano di piegarsi di nuovo a un regime imposto con la forza e si sono organizzati in un ampio movimento di contestazione. La repressione “ha lo scopo di mostrare alla comunità internazionale che è tutto sotto controllo”, osserva Mohammad Osman, ricercatore sudanese dell’ong Human rights watch.

L’incarcerazione di massa di chi protesta e degli attivisti, così come la persecuzione dei giornalisti e le sparizioni forzate, soffocano la rivolta. I comitati di resistenza, nemici dei militari, sono quelli presi più di mira, con agenti dei servizi segreti infiltrati. “La comunità internazionale continua a dire che il governo sudanese deve includere i civili, ma i comitati di resistenza non vogliono una condivisione del potere. Vogliono che i militari rinuncino a governare”, spiega Jihad Mashamoun, ricercatore esperto di Sudan.

Del resto, i comitati non si fanno illusioni dopo la revoca dello stato di emergenza. “È una strategia con cui la giunta cerca di ripulirsi l’immagine agli occhi del mondo e allentare la pressione internazionale”, spiega alla radio francese Rfi Abdelsalam Saboun, avvocato del comitato d’emergenza che lotta contro le detenzioni arbitrarie. Anche la tempistica della decisione solleva interrogativi, visto che coincide con l’inizio del processo a Khartoum contro quattro manifestanti detenuti da mesi per la morte di un ufficiale di polizia. Gli imputati, tra cui Mohammad Adam, giovane simbolo della contestazione soprannominato Tupac, si sono mostrati con il sorriso mentre scendevano dal furgone della polizia ed entravano in tribunale. A marzo avevano fatto uno sciopero della fame per protestare contro le torture subite durante la detenzione. La prossima udienza è prevista per il 12 giugno.

Il numero due

La principale sfida per Al Burhan è riconquistare il favore degli occidentali, il cui sostegno finanziario è condizionato al ritorno di un governo civile e alla liberazione dei prigionieri politici. Nel governo di transizione che era nato il 17 agosto 2019 quasi tutti gli esponenti non militari facevano parte delle Forze della libertà e del cambiamento (Flc), e dopo il colpo di stato sono stati arrestati. In risposta Washington, seguita dalla Banca mondiale, ha bloccato i 700 milioni di dollari di aiuti previsti per sostenere la transizione democratica (esclusi quelli umanitari).

Jihad Mashamoun sottolinea che “Al Burhan e i militari sperano di riguadagnare l’appoggio della comunità internazionale, in particolare degli Stati Uniti, per cui il Sudan non è una priorità. Stanno cercando di raggiungere lo scopo tramite Israele, che a Washington può contare su gruppi di pressione”. Il 31 maggio, per spingere lo stato ebraico a condannare il colpo di stato sudanese, gli Stati Uniti hanno sospeso l’assistenza promessa a Khartoum in cambio della normalizzazione dei rapporti con Israele. L’assistenza comprendeva “forniture di grano e aiuti allo sviluppo, al commercio e agli investimenti”, ha dichiarato un portavoce del dipartimento di stato americano. Il blocco degli aiuti dà il colpo di grazia all’economia del paese. Segnato dalla svalutazione della moneta e dalla fine delle sovvenzioni su benzina e diesel, il Sudan è entrato nel giugno 2021 nell’Azione globale a favore dei paesi poveri fortemente indebitati, promossa dal Fondo monetario internazionale (Fmi). Nel 2020 il tasso di inflazione era al 163,3 per cento, prima di raggiungere il picco storico del 198,8 per cento nel 2021, secondo l’Fmi.

La crisi economica non risparmia l’esercito, che “prima del 2019 assorbiva almeno l’ottanta per cento del bilancio nazionale”, spiega Marc Lavergne, esperto di Sudan del Centro francese per la ricerca scientifica (Cnrs). “Il blocco della produzione di petrolio rende il paese dipendente dall’Egitto, che a sua volta è a corto di risorse. I militari sono sostenuti anche dall’Arabia Saudita, che però ha altre priorità”. Anche se alcuni vedevano nei movimenti popolari del 2019 e poi del 2021 una speranza di transizione democratica, “per gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita o l’Egitto era fuori discussione che nascesse una democrazia in Sudan”, continua Lavergne. Ricco soprattutto di imprese agricole e cardine dell’Africa orientale, il paese è in balia dei calcoli di queste potenze.

Se i militari hanno bisogno degli occidentali è anche perché il loro potere è messo alla prova dal secondo uomo più forte del regime, il generale Mohammad Hamdan Dagalo, detto Hemetti. Avendo il pieno controllo su Khartoum e il comando delle Forze di supporto rapido (unità paramilitari integrate nell’esercito che nascono dalle famigerate milizie janjawid), il generale è un protagonista della controrivoluzione. “Hemetti aspetta il momento per eliminare Al Burhan”, spiega Marc Lavergne. “Ha un potere economico legato alla produzione dell’oro, al sostegno degli Emirati e dell’Arabia Saudita, che recluta le sue milizie per combattere nello Yemen e in Libia”.

Inoltre Hemetti è sostenuto dai russi, che hanno individuato nel Sudan una base strategica per la loro “conquista dell’Africa”. Controllando soprattutto la regione del Darfur, zona di passaggio tra la Libia e la Repubblica Centrafricana grazie alla quale i mercenari del gruppo Wagner hanno potuto cacciare le forze francesi, Hemetti si è reso indispensabile per Mosca. “I suoi uomini controllano tutti i corridoi: quello dei migranti africani verso l’Europa, quello del traffico d’oro e quello della droga tra Libia e Sudan. Occupano una posizione molto più potente dell’esercito”, conclude il ricercatore. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1464 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati