Lime abbraccia tutti i generi e nessun genere, pur riuscendo a creare una sua omogeneità. Opera fluviale con cui esordisce nella graphic novel il sardo Joachim Tilloca, Lime è assolutamente inclassificabile e, malgrado questa indefinitezza, avvince il lettore, che non riesce a staccarsene, come se avesse davanti un thriller di Ken Follett, con i suoi codici estremamente definiti. L’antecedente sta nei fumetti “a forma di elefante” professati da Moebius. E in particolare in capolavori spartiacque come Il garage ermetico, dove si entrava in tutte le realtà possibili della finzione come fossero altrettanti frammenti di un universo parallelo in stato confusionale, quello dell’immaginario e dell’unitarietà grafico-narrativa. Ritroviamo, come in Garage, la perdita di ogni punto di riferimento, ma qui non mediante frammenti ma con lunghi segmenti di noir, horror, farsa, fantascienza distopica o poetico-surreale che si susseguono senza soluzione di continuità. Se Moebius era un virtuoso camaleontico del disegno, però, qui si ricerca quasi una bellezza, una fluidità e una potenza evocativa del segno grafico che viene non soltanto messo a nudo ma anche esibito come “mal fatto”. Questo forse l’aspetto più inatteso, quasi segreto, anche se l’ingrandimento in copertina di splendide immagini interne quasi rivela l’inganno giocoso. Un Moebius alla rovescia, sottosopra, nella prima graphic novel dalla struttura transgender. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1501 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati