AKobane tutto bene! Anche dopo la pioggia di bombe che da novembre la Turchia sta facendo cadere sulla cittadina di confine siriana a maggioranza curda causando almeno tre feriti, la vita continua nel modo più ordinario possibile. Ferwan Chuchu trasmette alla radio, Aziz Mohamed Mstî fabbrica mattonelle, i giornalisti fanno il loro lavoro. Kobane lo deve al suo recente passato: all’inizio del 2015 i combattenti curdi sono stati i primi a frenare l’avanzata del gruppo Stato islamico (Is), quindi la città non può arrendersi. Kobane è leggendaria ed è decisa a rimanerlo.

Con alle spalle il ritratto di una collega che ha perso la vita, Ferwan Chuchu racconta del lavoro per la radio locale in una videochiamata su WhatsApp. La radio è stata fondata nel corso dell’assedio alla città, nel 2014 e nelle prime settimane del 2015, quando i combattenti curdi sono riusciti a evitare per un soffio che l’Is prendesse il controllo di Kobane. All’epoca si chiamava Radio Kobane, ora Kobanê Fm. “La vita qui è normale”, dice. “Ci sono i bombardamenti, ma non c’è la guerra”.

Fonte: liveuamap

Otto anni fa la distruzione era quasi totale: la strada principale per raggiungere il valico di frontiera con la Turchia era a malapena percorribile a causa dei cumuli di macerie. Solo una sedia da barbiere martoriata di colpi, vestiti coperti di polvere e cartelli con i prezzi di kebab e zuppe ricordavano le attività di un tempo. L’odore dei cadaveri era forte, brandelli di tende sventolavano da edifici senza finestre e con i tetti sbilenchi. Di abitanti neanche l’ombra. In una piazza una grande aquila era rimasta miracolosamente intatta su un piedistallo. Durante la mia visita nel 2017 la maggior parte degli abitanti era tornata. Nella piazza dove prima c’era l’aquila ora c’era una statua di Arin Mirkan, la combattente che si era fatta esplodere vicino a un carro armato dell’Is impedendo ai jihadisti di conquistare una collina della città. Intorno al monumento il traffico era incessante.

Ferwan Chuchu è nata e cresciuta ad Afrin, un’enclave originariamente curda nell’estremo nordovest della Siria. Lì lavorava in una radio locale, Afrin Fm. Dopo l’insediamento del governo autonomo curdo nel 2012, Afrin era una delle zone più tranquille del paese. Quell’epoca è finita nelle prime settimane del 2018, quando la Turchia ha invaso il territorio e l’ha occupato. Chuchu non vuole parlare di quei giorni: è troppo doloroso. “All’inizio non volevamo andarcene. Non solo perché Afrin è casa nostra, ma anche perché la Turchia voleva liberarsi dei curdi. Proprio per quello dovevamo rimanere”.

Chuchu riportava le notizie dal fronte, che si avvicinava sempre di più alla città. Esortava la gente a restare, a opporsi all’invasione e a sostenere i combattenti curdi. Finché la situazione è diventata insostenibile. La sua famiglia vive a Sheba, una città vicina ad Afrin ancora in mano ai curdi; lei si è spostata a Kobane. “Qui mi sento al sicuro”, dice. “La minaccia turca non è una novità e siamo pronti a tutto”.

La ricostruzione è ferma

Eppure qualcuno ha lasciato Kobane, e aumentano quelli intenzionati a farlo. Lo scorso ottobre il Partito dell’unione democratica (Pyd), la formazione principale nel governo autonomo curdo, ha esortato la popolazione a rimanere. Il motivo era un evento tragico: all’inizio di ottobre dieci abitanti di Kobane erano annegati mentre tentavano la traversata dall’Algeria all’Europa a bordo di una piccola imbarcazione. Il Pyd ha dichiarato: “Chi lascia il suo paese è come un albero sradicato. Annegherà o andrà incontro a un destino incerto. A perdere siamo noi, il nostro popolo e la nostra nazione. Ci appelliamo ai giovani perché non partano ma lavorino per ricostruire il loro paese”.

Ma di ricostruire non se ne parla, ormai da un po’. Muhammed Haydar, 33 anni, sposato e padre di quattro figli, fino a qualche mese fa lavorava nell’edilizia, ora fa il bracciante a giornata negli uliveti intorno alla città. “Non si costruisce più”, spiega. “Vogliono andarsene tutti”. Anche lui. Non per sé, per i figli. E lo farà, assicura: “Vendo tutto. Parto da solo e dopo mi faccio raggiungere da mia moglie e dai bambini”. Cos’ha da vendere? Una casa, un’automobile? “No, sono in affitto: duecento dollari al mese. Posso vendere la moto, ma non renderà molto, forse cento dollari. L’oro di mia moglie l’ho già venduto per pagare una fattura dell’ospedale”.

Durante la conversazione su Whats­App due dei suoi figli dormono su un materassino contro il muro della veranda, dietro di lui. Gli altri gli gironzolano intorno. Haydar mostra la casa. La moglie Sabiha è impegnata in cucina, in una stanzetta accanto c’è una macchina da cucire e mucchi di stoffa. “Lavora come sarta”, dice lui, “ma non è abbastanza per tirare avanti. I bambini hanno bisogno di cose per la scuola. Siamo indietro di quattro mesi con l’affitto. Credo che possiamo rimanere in questa casa al massimo altri due mesi”.

Quanti soldi serviranno per il viaggio fino in Europa non lo sa di preciso. Dipende dalla rotta. La cosa più logica è andare verso est in direzione della regione del Kurdistan iracheno e da lì cercare di raggiungere la Turchia: attraversare il confine siriano-turco è impossibile per via del muro costruito da Ankara, dotato dei più moderni strumenti di rilevamento. Ma anche passare la frontiera tra Siria e Iraq è sempre più difficile: il Kurdistan accoglie già decine di migliaia di profughi e sfollati ed è a pezzi dal punto di vista economico.

La rotta alternativa supera il territorio controllato dal presidente siriano Bashar al Assad e procede verso sud in direzione della Giordania o del Libano. È un’opzione costosa e pericolosa: Haydar dovrà corrompere qualcuno per passare i posti di blocco. “Non ho fatto il servizio militare in Siria”, racconta, “quindi potrebbero arrestarmi e costringermi ad arruolarmi”.

Mattoni e tradizioni

Venticinque anni fa Aziz Mohamed Mstî ha fondato a Kobane una fabbrica di mattoni e piastrelle. C’era sempre un buon via vai, guadagnava bene prima e anche durante la guerra. Con quei soldi cresceva i figli, nove maschi e due femmine. “Durante l’assedio della città l’Is ha distrutto la fabbrica”, racconta Mstî, seduto al sole nel cortile interno dello stabilimento. “Siamo rimasti chiusi un anno. Poi Kobane è stata ricostruita e noi siamo tornati in funzione”. Poco distante, sotto una tettoia lavorano gli operai, tra file di mattoni impilati ordinatamente. Le piastrelle sono fabbricate con macchinari relativamente piccoli. Verde lucido, rosso intenso, marrone scuro: sono pensate soprattutto per rivestire pareti. “Per i mattoni non c’è più mercato. Le piastrelle invece vanno ancora abbastanza bene.”

Kobanê Fm non parla di chi se ne vuole andare. “Ci concentriamo su quello che la gente fa in città e su quello di cui ha bisogno”, dice Ferwan Chuchu. “Abbiamo programmi per i bambini e per le donne, dedichiamo molta attenzione alla cultura e alle tradizioni”. Si tratta soprattutto di tradizioni che secondo lei e il governo autonomo hanno bisogno di essere riviste. “Per esempio vogliamo cambiare la consuetudine per cui una donna non può rifiutare una proposta di matrimonio. Ne abbiamo parlato di recente in un programma aperto alle telefonate degli ascoltatori”. Secondo Chuchu “non sono poi tanti a voler partire. Preferiamo dedicare una puntata a come difendersi. In caso di bombardamenti bisogna restare al chiuso e lontani dalle finestre”.

Su molti muri di Kobane spicca la scritta em nsçin, noi non ce ne andiamo. “La Turchia non ce l’ha solo con le Fds e le Ypg”, insiste Chuchu riferendosi alle Forze democratiche siriane, le forze multietniche della regione, e alle Unità di protezione popolare, milizie a maggioranza curda. “Ha una vera e propria fobia nei confronti dei curdi. Vuole liberarsi di noi”. La conduttrice sostiene la resistenza contro la Turchia, che vorrebbe prendere il controllo della città e delle campagne circostanti e trasferire lì i profughi siriani. In questo modo il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan otterrebbe tre vantaggi in un colpo solo: indebolirebbe il governo autonomo curdo , inciderebbe sulla composizione della popolazione e diminuirebbe il numero di profughi siriani in Turchia. Il Pyd afferma che il governo turco vuole costringere gli abitanti originari della città a emigrare per sostituirli con gli affiliati a gruppi terroristici e con le loro famiglie.

Lavoratori stagionali a Kobane, 30 settembre 2021 (Alessio Mamo)

Ad Afrin la pulizia etnica dei curdi è ormai quasi completata. Prima dell’occupazione turca circa il 97 per cento della popolazione era curda, ma ora questo gruppo si è ridotto a non più di qualche punto percentuale. I nuovi abitanti della città sono le famiglie dei gruppi jihadisti armati e finanziati dalla Turchia – tra cui ci sono anche ex miliziani dell’Is – e sfollati provenienti da altre parti della Siria.

Nel novembre 2019 la Turchia ha invaso un’altra zona della Siria, a est del fiume Tigri, che è un’importante linea di demarcazione nel conflitto: ha conquistato le città di Tell Abyad (Girespi, in curdo) e Ras al Ayn (Serekaniye) e la porzione di terra tra loro. Sono città diverse dal punto di vista demografico, ma la Turchia vuole portare lì i profughi siriani che si trovano sul suo territorio. Sia Erdoğan sia gran parte dell’opposizione turca sostengono la creazione di una “zona di sicurezza” all’interno della Siria controllata da Ankara. Qui i siriani rimpatriati possono rifarsi una vita. La situazione ad Afrin, Tell Abyad e Ras al Ayn mostra cosa significa: gruppi armati in conflitto tra loro, i ritratti di Atatürk e di Erdoğan alle pareti, l’insegnamento del turco nelle scuole e la lira turca come valuta corrente.

In cima alla lista

Erdoğan ha anche un altro obiettivo: vincere le elezioni parlamentari e presidenziali fissate per maggio. I sondaggi non sembrano a suo favore: i principali partiti d’opposizione, il Partito popolare repubblicano (Chp) e il Buon partito (Iyi), hanno ottime possibilità. Il Partito democratico dei popoli (Hdp), la formazione di sinistra con una base curda, si rifiuta di sostenere il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) di Erdoğan.

La situazione è simile al 2015. Nel giugno di quell’anno l’Hdp ottenne i risultati migliori di sempre alle elezioni e l’Akp perse la maggioranza in parlamento. Erdoğan fece esplodere il paese. Il processo di pace con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), già in un vicolo cieco, fu definitivamente stroncato. Diverse città curde nel sudest del paese dichiararono l’autonomia e i giovani si armarono per difendere i quartieri. L’esercito turco reagì, secondo le organizzazioni internazionali per i diritti umani, con una violenza sproporzionata. Nuove operazioni militari contro il Pkk sulle montagne del nord dell’Iraq fecero il resto: niente spinge i nazionalisti turchi tra le braccia di Erdoğan come la violenza contro i “terroristi”. Erdoğan proclamò nuove elezioni, che vinse nel novembre 2015.

Kobane ebbe un ruolo chiave. Nell’ottobre 2014 Erdoğan aveva visitato Gaziantep, una città vicina al confine siriano dove erano arrivati molti profughi, riassumendo così la situazione oltreconfine: “Kobane sta per cadere.” Una settimana prima, però, gli Stati Uniti avevano cominciato a sostenere le Ypg, bombardando le posizioni dell’Is. I combattimenti si fecero duri, strada per strada, casa per casa, e le Ypg guadagnarono lentamente terreno, spingendo l’Is sulla difensiva.

I mezzi d’informazione internazionali riferivano già da mesi che il confine turco-siriano era un colabrodo per gli stranieri, soprattutto europei, intenzionati a unirsi all’Is. Evitando di mettere i bastoni tra le ruote ai jihadisti, Erdoğan sperava di frenare l’avanzata dei curdi e soprattutto di fermare il loro governo autonomo. I curdi in Siria, che rivendicavano attivamente il diritto all’autodeterminazione, potevano ispirare i curdi in Turchia, e per l’unità del paese questo era un pericolo molto più concreto della violenza dell’Is. Erdoğan non riesce a mandare giù il fatto che quest’estate il governo autonomo di Kobane abbia festeggiato dieci anni. Controlla Afrin, Tell Abyad e Ras al Ayn, ma in cima alla sua lista dei desideri c’è Kobane.

È dunque un’incredibile coincidenza che la donna sospettata dell’attentato del 13 novembre 2022 sul viale Istiklal di Istanbul, secondo le autorità turche, sia stata “formata” proprio a Kobane. Da lì sarebbe andata ad Afrin e avrebbe passato il confine. Un itinerario sorprendente: dal territorio autonomo curdo attraverso una zona controllata da ribelli siriani fino ad Afrin, occupata dai turchi, e da lì oltre il muro in territorio turco. O forse è passata per l’unico valico aperto? Il segnale che si voleva dare è chiaro: Kobane è un covo di terroristi. Le conclusioni sono state tratte in fretta, senza la minima traccia di prove: subito dopo l’attentato Erdoğan ha detto che la bomba “puzzava di terrorismo”; qualche ora più tardi è stata arrestata una sospettata (pronta a scappare in Grecia, hanno dichiarato le autorità, anche se a quanto pare era a casa ad aspettare la polizia). La conclusione era netta: dietro l’attentato c’erano il Pkk e le Ypg.

Le due organizzazioni negano ogni coinvolgimento, e sono anche le ultime a trarre beneficio da un attentato a Istanbul. Il Pkk fa base sulle montagne nel nord dell’Iraq e attacca obiettivi militari nel sudest della Turchia. Le Ypg raramente conducono operazioni oltre il confine, solo a volte prendono di mira una postazione militare o della polizia come ritorsione per i bombardamenti o le uccisioni commessi dai turchi. Ma una settimana dopo l’attentato la Turchia ha bombardato Kobane e una serie di obiettivi nel territorio del governo autonomo. La città e i paesi circostanti erano bersaglio di attacchi turchi già da mesi. “Ma prima non erano violenti come questi”, conferma il giornalista locale Mustafa Hasan. Non si sa se siano state le Ypg, il giorno dopo, a rispondere con un altro attacco. Tre civili sono morti e sei sono rimasti feriti nella cittadina di Kirkamis, e al valico di Öncüpinar un soldato e sette agenti di polizia sono stati feriti. Così Erdoğan è potuto passare al livello successivo. Ha detto: “Non è pensabile limitarsi a un’operazione aerea. Il ministero della difesa e i vertici dell’esercito decideranno quante truppe di terra dispiegare. Ci consulteremo e poi agiremo”.

Già in primavera il presidente turco aveva fatto di tutto per ottenere il via libera da Stati Uniti e Russia per entrare di nuovo in Siria. Ma l’ok non era arrivato. La Russia, che controlla lo spazio aereo a ovest del Tigri, non vuole truppe turche troppo vicine al regime siriano, sostenuto da Mosca. Gli Stati Uniti, rilevanti soprattutto a est del Tigri, non vogliono abbandonare (di nuovo) gli alleati, anche perché ogni indebolimento dei territori curdi è un sostegno all’Is, che si sta rafforzando.

Erdoğan ha respinto le condoglianze degli Stati Uniti per l’attentato di Istanbul. Non erano loro a sostenere i terroristi di Kobane? E allora devono rimediare. E forse anche il presidente russo Vladimir Putin dovrebbe offrire qualcosa in cambio del riparo finanziario garantito dalla Turchia dopo le sanzioni occidentali.

Forse il semaforo è già arancione. La situazione attuale a Kobane? “È tutto normale”, ribadisce Hasan. “Non è cambiato niente da quando la città è di nuovo nel mirino. Anche il livello di sicurezza è lo stesso. Qui le persone sostengono le Fds. La Turchia cerca di distruggere l’immagine di Kobane, quell’immagine che otto anni fa ha convinto il mondo a schierarsi dalla nostra parte”. ◆ vf

Da sapere
Prove di riavvicinamento

◆ “L’incontro tra i ministri della difesa turco e siriano a Mosca il 28 dicembre 2022, per la prima volta dall’inizio della rivoluzione siriana nel 2011, segna una tappa importante nelle relazioni tra i due paesi”, scrive su Le Monde Jihad Yazigi, direttore del sito economico Syria Report. “Potrebbe essere seguito entro la fine di gennaio da un incontro tra i ministri degli esteri, cosa che darebbe un carattere più politico alla ripresa delle relazioni bilaterali, mostrando che i rapporti vanno oltre la semplice cooperazione per la sicurezza”.
Secondo Yazigi un riavvicinamento aiuterebbe soprattutto Ankara. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan potrebbe dare un segnale al suo elettorato in vista delle presidenziali di maggio e ai 3,5 milioni di profughi siriani in Turchia. Inoltre, un accordo con la Siria faciliterebbe un intervento militare per mettere fine all’amministrazione curda nel nordest della Siria.
“Per Damasco, al contrario, i benefici sembrano piuttosto scarsi”, commenta Yazigi. “Certo, gli incontri con dei funzionari turchi rilancerebbero la riabilitazione della Siria nella regione”. Ma le autorità siriane non possono “sperare di ottenere granché da questo processo di riconciliazione”, aggiunge. È improbabile che l’esercito di Damasco riesca a riprendere il controllo del nordest della Siria, da dove si ritirò nell’estate del 2012. E in questo momento il regime deve fare i conti con la pesante crisi economica nel paese. “Il regime di Bashar al Assad sembra intoccabile, forte del sostegno dei suoi alleati e di un’apatia della comunità internazionale, che si accontenta di mantenere lo status quo. Ma l’incapacità di Damasco di proporre soluzioni alle difficoltà nel paese è un serio ostacolo alla sua reintegrazione in Medio Oriente”, conclude Yazigi.


Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1496 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati