Furio Jesi (1941-1980) è stato un intellettuale originale e prolifico. Partito giovanissimo dallo studio delle religioni egiziane finì per diventare un esperto di quella cultura di destra, in particolare tedesca, che aveva contribuito a far precipitare l’Europa nella catastrofe. A farlo andare da un tema all’altro era stato il progetto di concentrare la sua riflessione intorno al concetto di mito, cercando di affrontare in modo rigoroso la disputa tra chi come György Lukács negava al mito ogni realtà in nome della critica all’irrazionalismo reazionario, e chi invece, come i fascisti, lo recuperava per usarlo politicamente. Studiando la lunga storia della mitologia dai greci al suo tempo – secondo un percorso riassunto in questo libro apparso nel 1971 e oggi ripubblicato con un’appendice e una postfazione utili – Jesi arrivava alla conclusione che decidere sulla sostanza del mito era una questione ideologica più che scientifica. Ciò che certamente esiste, secondo Jesi, è un dispositivo definito come “macchina mitologica” che, producendo storie relative a un tempo perduto e aureo, “genera la tenace illusione di nascondere il mito entro le proprie imperscrutabili pareti”, un dispositivo la cui prima funzione è quella di indicare “ciò che non può essere visto” e che, costituendo un’alternativa a un presente che lascia insoddisfatti, apre a strumentalizzazioni pericolose. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1519 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati