L’ingiustissima morte del diciassettenne Nahel M. e i duri scontri che l’hanno seguita rendono particolarmente utile la lettura di questa riflessione originale e documentata. La conduce la filosofa Elsa Dorlin (che il primo ottobre sarà al Festival di Internazionale a Ferrara per dialogare con Zerocalcare) mostrando che la modernità non coincide, come si è soliti credere, con l’acquisizione della violenza legittima da parte dello stato, ma piuttosto con la distinzione tra due parti della società: gli individui, tutelati dalla forza pubblica e in diritto di difendersi da soli, e gli altri, oggetti del sospetto preventivo e della violenza autorizzata. Di questa divaricazione progressiva Dorlin ricostruisce la genealogia, che affonda le sue radici nel colonialismo e nella schiavitù, mettendo in luce la sistematica invocazione da parte dei privilegiati (i proprietari, i coloni, i bianchi, gli uomini) del principio di legittima difesa e la pratica, da parte degli altri, di “etiche marziali di sé” (come il ju-jitsu praticato dalle suffragette, o il regolato ricorso a reazioni “colpo su colpo” da parte delle Black panthers) che permettono, in certi casi, di resistere. Raccontando e spiegando anche i momenti in cui l’autodifesa si trasforma in attacco, Dorlin illumina insieme una modernità politica differente, più cupa, in cui la violenza non è l’eccezione, ma la regola, e i possibili orizzonti per liberarsene. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1521 di Internazionale, a pagina 77. Compra questo numero | Abbonati