Nella seconda economia mondiale il sistema bancario è pesantemente coinvolto in una bolla immobiliare e ha prestato denaro ad amministrazioni locali che non riescono a ripagare i loro debiti. In qualunque altro paese questa situazione sarebbe interpretata come il segnale di una crisi finanziaria. Ma tutti dicono che la Cina ne è al riparo, perché il suo debito appartiene a investitori locali, il governo sostiene già gran parte del sistema finanziario e al comando ci sono abili tecnocrati. Il senso comune però rischia di essere smentito.

È vero che difficilmente ci sarà un crollo come quello che si scatenò nel 2008 dopo il fallimento della Lehman Brothers negli Stati Uniti. Tuttavia gli squilibri finanziari in Cina sono così estesi da averla spinta in un territorio sconosciuto. Non sappiamo quanto l’economia e la leadership del paese oggi concentrata nelle mani del presidente Xi Jinping siano in grado di districarsi in queste difficoltà.

La portata del problema emerge da una serie di studi del Fondo monetario internazionale (Fmi). In primo luogo, anche se nel terzo trimestre del 2023 la Cina ha registrato una crescita del 4,9 per cento, più alta rispetto alle attese, le sue prospettive a medio termine sono peggiorate: l’Fmi prevede nei prossimi quattro anni una crescita media del 4 per cento, in diminuzione rispetto a un anno fa, quando si parlava del 4,6 per cento. L’Fmi, inoltre, ha rivisto i dati sul deficit pubblico, che nei prossimi cinque anni passerà dal 7,1 al 7,8 per cento del pil.

I problemi non riguardano il governo centrale, ma le amministrazioni locali, che hanno contratto enormi debiti fuori bilancio per finanziare progetti edilizi urbani. Ora le loro passività sono pari al 45 per cento del pil, ma se fossero inglobate nel debito nazionale cinese, il totale arriverebbe al 149 per cento del pil entro il 2027. Le amministrazioni locali, inoltre, hanno avuto difficoltà a ripagare i debiti perché le vendite dei terreni, la principale fonte delle loro entrate, si è esaurita. Secondo le stime dell’Fmi, il 30 per cento degli strumenti di finanziamento delle amministrazioni locali non è “sostenibile senza l’aiuto del governo centrale”.

Questo è un grosso problema per le banche cinesi, che detengono circa l’80 per cento di quei debiti. L’Fmi stima che anche solo la metà dei costi di ristrutturazione del debito comporterebbe per le banche svalutazioni pari a 465 miliardi di dollari. Le banche cinesi non sono capitalizzate bene: una recessione ne indebolirebbe in modo significativo il capitale, come dimostrano gli stress test condotti dall’Fmi sulle banche di tutto il mondo. L’istituto ha simulato uno scenario con una crescita media dell’1 per cento in tre anni, invece del 5 per cento, e i valori immobiliari in calo: il risultato è che il coefficiente patrimoniale delle banche cinesi (il rapporto tra patrimonio e attività) passerebbe dall’11 per cento del 2022 al 7,1 per cento nel 2025, il dato peggiore di tutti i paesi sottoposti agli stress test. C’è la possibilità che con l’aumentare delle perdite sui prestiti, le banche tendano a concedere meno finanziamenti. A quel punto le amministrazioni locali, non potendo più ricevere crediti, taglierebbero sugli investimenti e i servizi sociali.

Indebitato con se stesso

Quant’è probabile questo scenario? Le crisi finanziarie in America Latina negli anni ottanta, nel sudest asiatico negli anni novanta e nell’eurozona negli anni duemila furono amplificate dalla fuga di capitali stranieri. La Cina, al contrario, è un prestatore netto verso il resto del mondo ed esercita un rigido controllo sui flussi di capitale in entrata e in uscita. Il paese è indebitato con se stesso. Le banche, inoltre, sono in larga misura possedute o controllate dal governo centrale o dalle amministrazioni locali, che presumibilmente non le lascerebbero fallire, impedendo corse agli sportelli e panico. Nell’ultima crisi bancaria cinese di vent’anni fa i prestiti in sofferenza furono trasferiti a enti statali di gestione patrimoniale.

A volte, però, le crisi finanziarie scoppiano perché gli investitori interni fuggono. Non sono sempre rapide e violente, come la crisi finanziaria globale del 2008. Alcune si sviluppano nell’arco di anni, come successe in Spagna negli anni settanta e negli Stati Uniti negli anni ottanta. Le radici dell’enorme debito cinese, tuttavia, sono un caso da manuale di azzardo morale (quando si fa un’operazione rischiosa perché le conseguenze ricadranno su altri). I costruttori e le amministrazioni locali hanno potuto contrarre prestiti così elevati perché i finanziatori hanno dato per scontato che Pechino li avrebbe salvati. Quest’assunto si basa però su garanzie non scritte.

Secondo Logan Wright, direttore della ricerca sulla Cina per il centro studi Rhodium group, una crisi finanziaria nel paese asiatico non avrà origine da uno shock esterno o da un’improvvisa svalutazione dei patrimoni. Succederà invece quando investitori che avevano dato per scontato l’intervento del governo scopriranno che questo non ci sarà. “In passato il settore immobiliare era considerato troppo grande per fallire, finché la percezione delle priorità politiche di Pechino è improvvisamente cambiata”, spiega Wright. “A quel punto sono emersi molto rapidamente i rischi relativi al credito ed è aumentato lo scetticismo sulla solidità finanziaria di un numero crescente di costruttori”. Mentre il governo ritira il suo sostegno implicito ad attività marginali, aggiunge Wright, gli investitori potrebbero presumere che farà lo stesso anche per le piccole banche, i mutui e le amministrazioni locali.

I vertici cinesi sono consapevoli di questi rischi e hanno adottato misure provvisorie per ristrutturare i debiti delle amministrazioni locali e spingere i costruttori in difficoltà a portare a termine i loro progetti. Tuttavia i debiti sono troppo alti e la crescita troppo lenta perché la Cina possa nascondere i crediti inesigibili sotto il tappeto come fece vent’anni fa, osserva Martin Chorzempa, esperto di Cina del Peterson institute for international economics: “Sono preoccupato dalla fuga di talenti, dalla riduzione degli indicatori economici resi pubblici e dalla riduzione dello spazio per il dibattito economico in Cina. Questo mi fa temere che il governo non abbia un quadro chiaro della situazione”.

Che implicazioni ci sono per gli altri paesi? Il sistema finanziario cinese è poco connesso con il resto del mondo, ma è gigantesco. Se dovesse cominciare a vacillare, in un modo o nell’altro le onde d’urto si farebbero sentire anche all’estero. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1535 di Internazionale, a pagina 108. Compra questo numero | Abbonati