La storia della lotta del Sudafrica contro l’apartheid, il dominio segregazionista di una minoranza bianca, s’insegna solo a grandi linee nelle scuole del paese. Ora qualcuno ha deciso di usare la musica per raccontare a una nuova generazione la vita di un attivista anti-apartheid.

Ma considerando che l’uomo in questione è un nero omosessuale, Simon Nkoli (1957-1998), il primo obiettivo era strappare la sua figura agli stereotipi che queste caratteristiche avrebbero potuto generare.

Era la sfida che ha dovuto affrontare il compositore sudafricano Philip Miller quando ha cominciato a lavorare su Nkoli: the vogue opera, andato in scena dal 17 al 19 novembre al Market Theater di Johannesburg.

Incredibilmente misconosciuto

Miller conosceva Simon Nkoli, perciò considera importante la sua vicenda sia dal punto di vista politico sia da quello personale. “Ricordo quando eravamo allo Skyline”, racconta. “Simon ballava e si divertiva, ma parlava anche dell’epidemia di aids e dei preservativi”. Lo Skyline era un bar gay del centro di Johannesburg che durante l’apartheid aveva una clientela mista, di bianchi e neri.

Miller è sorpreso che Nkoli, pur avendo contribuito in modo cruciale a inserire i diritti dei gay nella costituzione sudafricana (la prima del continente a includerli), sia ancora semisconosciuto. È stato tra i fondatori del Pride di Johannesburg, il primo organizzato in Africa. “La sua storia può essere d’ispirazione per le lotte di oggi”, spiega Miller, perché spinge a riconsiderare l’individualismo che a volte permea le questioni identitarie.

Inizialmente Miller voleva affidarsi a un’opera lirica, “ma i giovani non si sognerebbero mai di andare a vedere un’opera”. Così ha immaginato una partitura che incorporasse la musica sudafricana pop e da discoteca dell’epoca, che Nkoli amava particolarmente, come rivelano le sue lettere dal carcere.

Il primo Pride di Johannesburg, 1990 (Donne Rundle, Gala Queer Archive)

Nkoli fu imprigionato per tradimento insieme ad altri undici attivisti dopo il celebre processo che si svolse nella cittadina di Delmas tra il 1985 e il 1988.

In carcere dichiarò di essere omosessuale, costringendo il movimento di liberazione a riconoscere la comunità lgbt e far includere i loro diritti tra quelli che sarebbero poi stati garantiti dalla costituzione. Miller ha pensato anche al rap, “che in un certo senso ricopre la stessa funzione di un recitativo, ma forse oggi è più interessante”.

Non potevano mancare le canzoni di protesta, che ai tempi di Nkoli furono una componente musicale essenziale per il Cosas, il Congresso degli studenti sudafricani contro l’apartheid.

Miller ha attinto anche alla tradizione queer sudafricana del vogueing, una danza stilizzata che imita e stravolge le camminate tipiche delle passerelle di alta moda al ritmo di una musica radicata nella disco ma più elettronica e con un beat più incalzante. La comunità lgbt sudafricana aveva una tradizione simile nei concorsi di bellezza come il Miss Glow Vaal, riservato alle drag nere, che Nkoli contribuì a organizzare. Grazie a programmi tv come Drag race di RuPaul e al suo uso nel tour Renaissance di Beyoncé, il vogueing oggi attrae giovani di ogni orientamento. Ma la partitura creata da Miller attingendo a fonti così diverse doveva essere una sintesi, non un pastiche.

Simon Nkoli nel 1984 (Simon Nkoli Collection/Gala Queer Archive)

E così il compositore ha formato una compagnia di 26 elementi, di cui molti giovani e provenienti dalla comunità lgbt. Tra loro ci sono il rapper sudafricano Gyre e il britannico Rikki Beadle-Blair, regista, autore e anche attivista queer, che ha curato la regia e la drammaturgia del musical.

Anche artisti più maturi come Bongani Kubheka (che interpreta Gcina Malindi, imputato nel processo Delmas che difese Nkoli dalle aggressioni in carcere) hanno affrontato la sceneggiatura senza saperne molto sulla storia del protagonista. “Non sapevo nemmeno che alla lotta avesse partecipato un attivista queer”, racconta Kubheka. “Scoprirlo ha sicuramente ampliato la mia prospettiva sullastoria del paese”.

Il progetto è partito nel 2020 con il titolo Glow (acronimo dell’Organizzazione gay e lesbica del Witwatersrand), partendo da un processo creativo collettivo e dalle testimonianze delle persone che avevano conosciuto Nkoli e collaborato con lui: l’artista e attivista Beverley Ditsie; l’ex giudice della corte costituzionale Edwin Cameron; l’avvocato difensore di Nkoli, Caroline Heaton-Nicholls; e la madre di Nkoli, Elizabeth.

Il diritto di ancheggiare

Il dialogo con queste persone ha rafforzato l’idea che l’opera avesse una grande responsabilità. “Anche le canzoni di protesta sono state scelte con estrema attenzione”, spiega Miller. “Per esempio Yindlela (Inde Yendlela), di cui si era appropriato l’ex presidente Jacob Zuma. Così gliel’abbiamo tolta. Il testo fa riferimento alla lunga marcia verso la libertà, e la nostra scelta serve a far capire che: la marcia non si è ancora conclusa; nessuno ci aveva detto che sarebbe stata così lunga; e la comunità lgbt ha il diritto ‘marciare ancheggiando’”.

Miller ricorda le “discussioni interminabili” all’interno della compagnia su ogni aspetto dello spettacolo e ribadisce che non è mai stata sua intenzione dar vita a un’agiografia. Dalle conversazioni con Beverley Ditsie è nata una rappresentazione onesta dell’incapacità anche di uomini illuminati come Nkoli di vedere le difficoltà delle donne. Il dialogo con Elizabeth, invece, ha creato quella che secondo molti è una delle arie più commoventi, in cui la cantante Ann Masina (che interpreta la madre di Nkoli) racconta le sue speranze e le paure per il futuro del figlio, ricordando che nonostante tutti i suoi sforzi lei vive ancora nella township di Sebokeng e dipende da un sussidio del governo.

Masina ammette che la canzone spesso la fa commuovere, e ha dovuto affrontare queste emozioni durante le prove: “Devo trasmettere la forza del brano, ma anche evitare di crollare sul palco”.

Nella musica c’è anche una componente gioiosa. “A volte mi viene voglia di smettere di condurre e ballare”, confessa il direttore d’orchestra Tshegofatso Moeng. Per Miller questa gioia è vitale. Le manifestazioni di euforia del vogueing, spiega, sfidano le forze eterosessuali e repressive e fanno parte del potenziale rivoluzionario della danza. “L’estetica del vogueing dichiara: ‘Posso essere chi voglio’. Ma ho creato anche musica che deliberatamente si scontra contro questa dinamica da passerella, per dare vita a una tensione sovversiva”. Una delle canzoni, a un certo punto, dice: “‘Coming out’ non è un pezzo di Diana Ross”. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1539 di Internazionale, a pagina 81. Compra questo numero | Abbonati