Le vite di milioni di israeliani e palestinesi sono state sconvolte dai massacri che Hamas ha commesso in Israele il 7 ottobre 2023 e dai successivi e continui massacri che Israele sta compiendo nella Striscia di Gaza. A volte è difficile riconoscere un momento storico mentre lo si sta vivendo, ma stavolta è evidente: è cambiato l’equilibrio di potere tra israeliani e palestinesi, e questo inciderà sul corso degli eventi.

La nostra vita qui, come israeliani, non sarà più la stessa. Si è parlato molto delle atrocità commesse da Hamas nel sud del paese quel terribile sabato. Sono state diffuse così tante teorie cospirazioniste e notizie false che vale la pena di ricordare alcuni fatti fondamentali.

In un’operazione senza precedenti, i miliziani di Hamas sono usciti dalla Striscia di Gaza assediata, ingannando quello che era considerato uno degli eserciti più potenti e sofisticati della regione. Dopo aver distrutto parti della recinzione che circonda Gaza e aver lanciato un attacco al valico di Erez, in migliaia hanno conquistato le basi militari israeliane, hanno ucciso o catturato centinaia di soldati, per poi fiondarsi su un festival musicale e occupare diversi kibbutz e città. Hanno ucciso circa 1.200 persone, in maggioranza civili.

Lo stato è un ologramma

La carneficina è stata brutale. Centinaia di persone disarmate che partecipavano alla festa sono state uccise, compresi alcuni cittadini palestinesi che erano lì come primi soccorritori, autisti e lavoratori. Intere famiglie sono state massacrate nelle loro case, alcuni hanno assistito all’omicidio dei loro genitori o dei figli. In certe comunità un abitante su quattro è stato ucciso o rapito. Sono stati presi di mira anche i tailandesi e nepalesi occupati nei campi e i filippini che facevano lavoro di cura. Circa 240 tra soldati e civili di tutte le età, dai nove mesi agli ottant’anni, sono stati rapiti e portati nella Striscia di Gaza; la maggior parte è ancora tenuta in ostaggio. Nel frattempo Hamas ha continuato a lanciare migliaia di razzi verso le città israeliane.

Questi crimini di guerra, pur andando inseriti in un contesto, sono totalmente ingiustificabili. Hanno scosso molti di noi, me compreso, nel profondo. La falsa idea che gli israeliani possano vivere in sicurezza mentre i palestinesi sono regolarmente uccisi sotto un brutale sistema di occupazione, assedio e apartheid – un’idea che il primo ministro Benjamin Netanyahu ha sostenuto e instillato in noi nei suoi lunghi anni al potere – è crollata.

Questa sensazione è stata esacerbata dai venti di guerra regionale e dagli attacchi della milizia sciita libanese Hezbollah contro soldati e civili israeliani nel nord, a cui Israele ha risposto con colpi di artiglieria e droni in Libano, uccidendo combattenti e civili. Quest’altro fronte aumenta l’angoscia e la sensazione che noi, israeliani e palestinesi, siamo solo pedine in lotte regionali e globali (non per la prima volta).

Una manifestazione per chiedere la fine dell’attacco a Gaza e uno scambio di prigionieri. Tel Aviv, 11 novembre 2023 (Mostafa Alkharouf, Anadolu/Getty)

Il crollo del nostro senso di protezione è andato di pari passo con la consapevolezza che lo stato israeliano non è altro che un ologramma: l’esercito, i servizi di soccorso, i servizi sociali non hanno funzionato come avrebbero dovuto. I sopravvissuti, gli sfollati e le famiglie degli ostaggi si sono trovati senza nessuno a cui rivolgersi, e la società civile è dovuta intervenire per riempire il vuoto. Anni di corruzione politica ci hanno lasciato con l’involucro di uno stato e senza una leadership. A prescindere da come usciremo dalla guerra, vogliamo assicurarci che nulla di simile al 7 ottobre possa ripetersi.

Mentre falliva su tutti gli altri fronti, l’esercito israeliano ha immediatamente cominciato a fare quello che sa fare meglio: distruggere Gaza. Il lutto, il dolore, lo shock e la rabbia giustificati si sono tradotti in un’altra ingiustificabile aggressione militare e in una campagna di punizione collettiva contro le 2,3 milioni di persone indifese che abitano la più grande prigione a cielo aperto del mondo, la peggiore che ci sia mai stata. I bombardamenti incessanti finora hanno ucciso più di 14mila palestinesi. La maggior parte erano civili, tra cui almeno 5.800 bambini. Centinaia di famiglie sono state spazzate via.

Questi numeri non includono le centinaia o forse migliaia di corpi sepolti sotto le macerie, che nessuno può cominciare a cercare. Gli abitanti descrivono l’odore di morte che impregna i quartieri distrutti. I governi occidentali finora hanno lasciato mano libera a Israele, mostrando di usare sempre un doppio standard per le vite israeliane e quelle palestinesi, che in parte ha portato a questa situazione. Non mostrano rimorso per aver messo a tacere ed emarginato i palestinesi e i loro alleati negli anni, chiudendo tutte le vie diplomatiche e nonviolente per la loro liberazione.

Mentre le notizie e le immagini della distruzione e della morte sono sotto gli occhi del mondo, l’opinione pubblica israeliana vede e pensa molto poco a tutto questo. I mezzi d’informazione si concentrano esclusivamente sui massacri del 7 ottobre, e non su quelli compiuti in nostro nome. Continuiamo a sentire gare di retorica in cui commentatori e politici israeliani parlano di distruggere Gaza e fare pulizia etnica.

La linea più ufficiale è che Israele sta “solo” cercando di rovesciare Hamas. Ma sappiamo che non può esserci una soluzione militare alla minaccia che gli israeliani vedono in Hamas, e che decenni di tentativi israeliani per instaurare una leadership palestinese “adatta” sono sempre falliti. L’unico modo per impedire ai palestinesi di sollevarsi contro i loro oppressori è che gli oppressori smettano di esserlo e riconoscano i diritti degli oppressi. Si tratta di giustizia, sicurezza e un futuro dignitoso per tutti noi, o per nessuno.

Olive e telefoni

La guerra contro i palestinesi non si limita a Gaza. In Cisgiordania coloni, soldati e un numero crescente di gruppi armati misti di militari e civili hanno aumentato la pulizia etnica nell’area C (il 60 per cento del territorio occupato, dove si trovano gli insediamenti israeliani e l’esercito ha il pieno controllo). Almeno quindici comunità palestinesi sono state cacciate nell’ultimo mese e molte altre subiscono minacce gravi senza che nessuno le difenda. Coloni e funzionari governativi lavorano per espandere gli insediamenti, il che significa espellere più palestinesi da quelle aree.

Secondo l’Onu, dal 7 ottobre almeno duecento palestinesi sono stati uccisi da soldati o coloni in Cisgiordania. I contadini non possono raccogliere le olive, e in alcuni casi devono guardare i coloni rubargliele. L’esercito israeliano ha arrestato più di mille palestinesi con l’accusa di avere legami con Hamas. Migliaia di braccianti di Gaza, che avevano il permesso di lavorare in Israele o in Cisgiordania, sono stati chiusi in campi di internamento e poi deportati a Gaza. Anche in Israele e a Gerusalemme Est (la parte orientale della città, annessa da Israele nel 1967) i palestinesi sono perseguitati : centinaia di loro come alcuni ebrei di sinistra sono stati arrestati o detenuti, sospesi o licenziati, allontanati dalle università in cui studiano o insegnano e minacciati di perdere la cittadinanza. Molti sono stati puniti per aver condiviso dei post sui social network, anche del tutto benevoli, che contenevano appelli a fermare la guerra, versetti del Corano o espressioni di solidarietà e dolore per l’uccisione di bambini a Gaza.

A Gerusalemme la polizia israeliana ferma palestinesi a caso per strada per controllargli i telefoni e capire se “incitano” alla violenza. La polizia ha anche annunciato che vieterà tutte le manifestazioni per un cessate il fuoco. In diverse città israeliane le aziende che impiegano cittadini palestinesi hanno chiuso, hanno detto a questi dipendenti di non presentarsi o hanno schierato guardie speciali per “proteggere” la comunità ebraica. Squadroni di destra hanno assalito studenti arabi in due atenei e lavoratori in varie aziende, oltre alla casa del giornalista ultraortodosso di sinistra Israel Frey. Solo quattro persone sono state arrestate. Il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir ha distribuito migliaia di fucili d’assalto a gruppi di cittadini in decine di città e insediamenti, alcuni guidati da noti estremisti di destra.

Le due comunità si ritirano nei loro gusci e le narrazioni degli eventi si allontanano

Tutto questo ha creato un senso di paura senza precedenti tra i cittadini palestinesi d’Israele. Molti di loro parlano di un “nuovo regime militare”, riferendosi al sistema draconiano imposto ai cittadini arabi israeliani dal 1948 al 1966. Hanno smesso di usare i social network ed evitano di frequentare aree a maggioranza ebraica. A questo si aggiungono i cittadini palestinesi che sono stati uccisi nell’attacco del 7 ottobre o dai razzi lanciati da Gaza, mentre alcuni sono ancora prigionieri di Hamas.

Ci sono cittadini ebrei e palestinesi che lavorano insieme, si proteggono a vicenda, firmano petizioni o fanno volontariato, ma si tratta di piccoli raggi di luce in una tempesta buia.

Stiamo assistendo a un momento doloroso per la sinistra in Israele e Palestina. Le due comunità si ritirano nei loro gusci e le narrazioni degli eventi si allontanano, mentre diminuisce la fiducia reciproca. Questo lascia soli quelli di noi che s’impegnano per spazi condivisi, per una resistenza condivisa e un futuro fondato sull’uguaglianza. È un microcosmo condensato delle spaccature emerse anche all’interno della sinistra globale.

Molti ebrei israeliani che si considerano di sinistra, si oppongono all’occupazione e difendono i diritti umani dei palestinesi sono sconvolti dalla ferocia dell’attacco di Hamas. Non è facile sopportare il fatto che siano stati presi di mira tanti civili e molti attivisti impegnati contro l’assedio della Striscia di Gaza e l’apartheid israeliano. Lo shock è intensificato da un sentimento di delusione per quella che vivono come una mancanza di solidarietà da parte di leader, amici e colleghi palestinesi. Tendenze più ampie e preoccupanti espresse da alcuni circoli palestinesi e dalla sinistra globale, che negano o giustificano i massacri del 7 ottobre, hanno portato alcuni a chiedere ai loro amici di prendere posizione contro Hamas e di dichiarare il loro impegno per il diritto degli ebrei a vivere su questa terra, come prova di reciproca alleanza.

Allo stesso tempo alcuni di questi israeliani giustificano l’attacco alla Striscia di Gaza. Molti riconoscono che non esiste una soluzione militare a lungo termine e sottolineano di non voler fare del male ai civili palestinesi, ma insistono sul fatto che “non c’è altra scelta che rovesciare quel regime”.

Traumi collettivi

Tra i palestinesi, molti optano per il silenzio, soprattutto per paura che una dichiarazione possa essere usata contro di loro. Ogni dimostrazione di dolore per i massacri del 7 ottobre è manipolata dagli israeliani per giustificare gli orrori a Gaza, e ogni segno di vicinanza per gli abitanti di Gaza è interpretato come un tradimento e una collusione con il nemico. Alcuni palestinesi che osano rilasciare dichiarazioni pubbliche riconoscono il diritto di un popolo occupato a resistere con la forza, ma solo contro obiettivi statali o militari, giustificando così la “prima fase” dell’attacco del 7 ottobre e rifiutando i successivi massacri di civili. Altri negano i massacri appigliandosi a teorie assurde, o li giustificano dicendo che la decolonizzazione è “disordinata” e “brutale” perché rovescia l’oppressione brutale originaria.

I cittadini palestinesi d’Israele guardano ad alcuni leader, colleghi e amici ebrei di sinistra con delusione. Dall’incapacità di stare al fianco della popolazione di Gaza ai tentativi falliti di parlare per chi è perseguitato da un regime sempre più autoritario, i cittadini palestinesi si sentono abbandonati e traditi da molti ebrei che, fino a un mese fa, manifestavano in nome della democrazia.

Queste tendenze si affermano in due comunità colpite da lutti, paure e ansie molto reali, che attingono a traumi collettivi del passato – l’olocausto e la nakba – ripresi dalla retorica genocida dei leader di Hamas e del governo israeliano e, nel caso palestinese, dalle espulsioni in Cis­giordania e dai piani per aumentarle. Ritirandosi nel calore del proprio gruppo, ogni parte riafferma le paure e le delusioni dell’altra, creando una dinamica distruttiva di crescente sfiducia e disperazione.

La nuova era

Non sappiamo come finirà questa guerra. I leader israeliani promettono una campagna che potrebbe durare “mesi” o “anni”. Tuttavia la carneficina e la catastrofe umanitaria a Gaza, la richiesta dei cittadini israeliani di liberare gli ostaggi, la sfiducia verso il governo e la limitata tolleranza per i costi umani ed economici della guerra potrebbero portare a un cessate il fuoco nel giro di qualche settimana.

Le conquiste ottenute con fatica in decenni di lotta comune sono state cancellate

È anche impossibile valutare come sarà la nuova era che comincerà dopo la guerra. Non si sa chi governerà Gaza: Hamas, l’Autorità nazionale palestinese (Anp), una forza internazionale o Israele. Lo sforzo per ricostruire Gaza è inimmaginabile. E sarà necessario ricostruire anche le comunità israeliane distrutte o evacuate nel sud e nel nord del paese.

Due cambiamenti mi sembrano chiari a questo punto: la fine dell’era Netanyahu e la fine del discorso sulla “gestione del conflitto” all’interno della società israeliana, che lascia il posto a una discussione pubblica sul futuro delle relazioni tra ebrei e arabi.

Benjamin Netanyahu è finito. So che è stato detto molte volte in passato e che lui ha mostrato incredibili capacità di sopravvivenza, ma quello che è successo nell’ultimo mese e mezzo va oltre. Tutti i sondaggi realizzati dal 7 ottobre mostrano che la stragrande maggioranza degli israeliani, compresa una parte considerevole degli elettori del suo partito Likud, ritiene che Netanyahu sia il responsabile della sconfitta militare e che debba andarsene. Alcuni suoi alleati nei mezzi d’informazione e nel governo si stanno già preparando per il dopo. Questo però rende il primo ministro ancora più pericoloso: crede che finché la guerra continuerà nessuno si preoccuperà di allontanarlo dal potere. Netanyahu potrebbe comunque scoprire che la pazienza degli israeliani ha un limite e prima o dopo la fine della guerra, in un modo o nell’altro, sarà spodestato. Molto più importante di Netanyahu, tuttavia, è la dottrina Netanyahu, che è diventata il quasi consenso della politica ebraico-israeliana. Questa dottrina sostiene che Israele ha sconfitto i palestinesi, che non sono più un problema da affrontare, e possiamo “gestire” il conflitto a “fuoco lento” e concentrarci su altre questioni. Nel dominio politico quasi continuo dell’attuale premier dal 2009, questa percezione ha conquistato i cuori e le menti degli israeliani, e la questione di “cosa fare con i palestinesi” – che un tempo era la principale linea divisoria della politica israeliana – è stata rimossa quasi completamente, contribuendo all’arroganza che ha portato l’esercito ad abbassare la guardia intorno a Gaza. Hamas ha frantumato questa idea per anni e forse decenni.

Nelle prossime elezioni israeliane, quando si terranno, è probabile che assisteremo a una riorganizzazione della mappa politica, con la potenziale creazione di tre blocchi distinti. Il primo è l’estrema destra, che guadagna popolarità dal 2021 e cercherà di sfruttare i fatti recenti. Guidato da personaggi come Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, a cui probabilmente si aggiungeranno alcuni esponenti del Likud, questo schieramento affermerà che, a prescindere da come finirà, la guerra non è stata sufficiente: Israele ha bisogno di una soluzione definitiva basata su una pulizia etnica su larga scala, perché l’intera terra appartiene agli israeliani e non c’è spazio per il popolo palestinese.

Un secondo fronte, probabilmente guidato dai leader dell’opposizione Benny Gantz e Yair Lapid, spingerà per azioni unilaterali, come un “secondo disimpegno” dalla Cisgiordania, l’abbattimento degli insediamenti a est della barriera di separazione e l’annessione degli altri, e il rafforzamento dei muri che circondano i palestinesi in Cisgiordania e a Gaza con più cemento, più tecnologia e più soldati. Questa strategia potrebbe anche includere la “falciatura del prato”, cioè campagne militari ricorrenti, per impedire ai palestinesi di crescere militarmente.

L’analisi
In cerca della sinistra

In un articolo sulla New York Review of Books l’analista politica Dahlia Scheindlin, che vive a Tel Aviv, ragiona sulla condizione della sinistra israeliana. Il sostegno ai partiti di sinistra è crollato negli ultimi decenni arrivando a meno del dieci per cento a fine ottobre, secondo un sondaggio condotto da A-Chord, un centro di ricerca di psicologia sociale legato all’università ebraica di Gerusalemme. L’attacco del 7 ottobre, in cui Hamas ha ucciso 1.200 israeliani e ne ha rapiti 240, è stato un duro colpo per le poche persone schierate a favore della pace e contro l’occupazione.

Come spiega Scheindlin, “nella politica israeliana ‘la sinistra’ si chiama in causa innanzitutto per il conflitto palestinese e le relazioni tra ebrei e arabi. Rappresenta l’idea che palestinesi e israeliani possono condividere le loro differenze e la loro terra, vivere pacificamente e forse un giorno perfino riconciliarsi”. Oggi gli attivisti per i diritti umani sono il bersaglio della violenza degli estremisti di destra e gli esponenti della sinistra faticano a trovare uno spazio politico. Ma le loro posizioni hanno “un’occasione di rinascita”. Per prima cosa “la sinistra potrebbe aver avuto sempre ragione”, dato che le strategie militari, compresi i vari attacchi contro Hamas, non hanno funzionato. Inoltre potrebbe sfruttare la rabbia contro il governo fanatico e ultranazionalista di Benjamin Netanyahu. In questo ha un vantaggio, scrive ancora Scheindlin: può contare su “una vera alleanza ebrea-araba-palestinese”. Lo dimostrano le iniziative, le manifestazioni e le attività svolte da varie organizzazioni della società civile nonostante la repressione.

Se vuole contare in futuro, la sinistra israeliana “deve continuare a fare fronte comune su preoccupazioni condivise”, conclude Scheindlin. Insomma, “non vincerà le elezioni presto”, ma può cogliere questa tragica occasione per “recuperare i suoi valori più profondi e sostenere qualunque percorso verso la pace, in quello che altrimenti sarebbe un terrificante vuoto di idee”.


Il terzo fronte potrebbe essere una riconfigurazione di quelli che erano i laburisti, Meretz e Yesh atid (partiti laici di sinistra e di centro), con un ruolo chiave per il nuovo eroe del centrosinistra sionista: l’ex deputato di Meretz e generale dell’esercito Yair Golan, che il 7 ottobre è entrato e uscito dalle zone di combattimento con la sua pistola e la sua auto, salvando i sopravvissuti. Questo schieramento riproporrà la separazione dei due stati, da raggiungere attraverso negoziati con l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). Potrebbe anche sostenere una coesistenza dentro Israele, promuovendo diverse forme di alleanza arabo-ebraica.

Fare i conti

Le ultime due alternative politiche saranno incoraggiate dai sentimenti contro i coloni espressi dall’opinione pubblica israeliana, soprattutto da quando i manifestanti antigovernativi hanno identificato un legame tra la riforma della giustizia proposta dall’estrema destra e le sue fonti ideologiche nel movimento sionista religioso nei territori occupati. Il rifiuto dei pogrom dei coloni, come quello avvenuto nella città di Hawara a febbraio, è aumentato e molti israeliani vedono negli attacchi dei coloni in Cisgiordania un terzo fronte di guerra.

Inoltre, il fatto che negli ultimi mesi l’esercito israeliano abbia spostato truppe dalla barriera di Gaza agli avamposti dei coloni in Cisgiordania, cosa che potrebbe aver spianato la strada al successo dell’operazione di Hamas, ha rafforzato l’odio e il risentimento verso i coloni. Detto questo, l’odio degli israeliani nei confronti dei palestinesi è salito molto di più e la remota possibilità che gli israeliani accettino la soluzione di uno stato unico o di una confederazione si è ulteriormente ridotta.

È un momento cupo e difficile per quelli di noi che si impegnano a contrastare l’apartheid e a promuovere una soluzione fondata sulla giustizia e sull’uguaglianza. Le conquiste ottenute con fatica in decenni di lotta comune sono state cancellate e saranno difficili da recuperare. Il nostro movimento è allo sbando e la disperazione abbonda.

D’altra parte, finita la guerra dovremo fare i conti con noi israeliani, il che potrebbe offrirci nuove opportunità. Molto di quello per cui abbiamo lottato diventerà più rilevante, con più persone a livello locale e globale disposte a riconoscere che il sistema in cui viviamo è ingiusto, insostenibile e non offre a nessuno una vera sicurezza. Dobbiamo raddoppiare l’impegno per promuovere un processo politico pacifico, mettere fine all’assedio e all’occupazione, riconoscere il diritto dei rifugiati palestinesi a tornare nelle loro terre e trovare soluzioni per trasformare il diritto in realtà.

Ma questo richiederà alcune ridefinizioni. Il movimento progressista e antiapartheid dovrà essere chiaro sui diritti collettivi degli ebrei e garantire la loro sicurezza in qualsiasi soluzione venga trovata. Dovremo affrontare Hamas e il suo posto nella nuova realtà, assicurandoci che non possa più commettere attacchi contro gli israeliani, mentre insistiamo sulla sicurezza dei palestinesi e sulla necessità di proteggerli dall’aggressione militare israeliana e dei coloni. Senza tutto questo, sarà impossibile andare avanti. Intanto, ci sono due richieste urgenti su cui concentrare gli sforzi: la liberazione degli ostaggi civili e un cessate il fuoco immediato. Ora. ◆ dl

Haggai Matar è un giornalista e attivista israeliano. Dirige +972 Magazine, un sito indipendente gestito da un gruppo di giornalisti palestinesi e israeliani.

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Questo articolo è uscito sul numero 1539 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati