Qualche tempo fa nella posta c’era anche la lettera della commissione elettorale di Hong Kong che mi chiede di confermare la correttezza dei miei dati: il 10 dicembre si voterà per le elezioni distrettuali, e l’amministrazione vuole che tutto si svolga senza intoppi e che l’affluenza alle urne sia alta. Tra i miei amici e conoscenti però nessuno ha intenzione di andare a votare: l’ultima elezione dei consiglieri distrettuali (che controllano la spesa delle 18 aree amministrative in cui Hong Kong è divisa) risale al 2019, l’anno delle proteste a favore della democrazia soffocate con violenza dalle forze dell’ordine. Quell’anno, mentre il governo definiva “rivoltosi” i manifestanti, si rifiutava di parlarci e metteva in dubbio il sostegno popolare nei loro confronti, in 17 distretti su 18 hanno vinto i candidati che in campagna elettorale avevano detto di condividere le rivendicazioni della protesta.

Da allora, Hong Kong è cambiata molto, in particolare dopo che la legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino nel 2020, in piena pandemia, ha introdotto una serie di nuovi crimini che rendono l’ex colonia britannica molto più simile alla Cina. I consiglieri eletti nel 2019 sono stati rimossi (in alcuni casi arrestati) dopo che è stato stabilito che solo i patrioti possono ricoprire incarichi pubblici, sia nei distretti sia negli uffici del governo.

Per ricoprire incarichi pubblici è necessario un giuramento di fedeltà al governo di Hong Kong. Il che esclude automaticamente chi vuole fare opposizione

Da allora per ricoprire questi incarichi è necessario un giuramento speciale, con cui si promette fedeltà al governo di Hong Kong. Il che esclude automaticamente chi vuole fare politica all’opposizione: il Partito democratico, ancora attivo, aveva cercato di candidare sei persone, ma nessuna di loro è stata accettata. Per di più, anche nel caso dei candidati vicini al governo, il numero di quelli eleggibili a suffragio universale è stato diminuito – ora su 470 seggi solo 88 sono scelti dalla popolazione – e, in una specie di ritorno all’era coloniale, ogni distretto sarà supervisionato da un funzionario governativo. Sono stati anche ridisegnati i collegi elettorali, mescolando gli elettori di quell’unico distretto che nel 2019 era favorevole al governo con quelli vicini che invece avevano sostenuto la democrazia.

La campagna elettorale è stata quasi inesistente. Il 25 ottobre John Lee, capo dell’esecutivo del territorio, ha tenuto il suo discorso annuale e presentato il programma per l’anno prossimo invitando i cittadini a recarsi alle urne. Il discorso di Lee, durato tre ore e mezza, ha mostrato che a essere ridisegnati non sono solo i collegi elettorali: ha fatto riferimento alle manifestazioni del 2019 chiamandole un “tentativo di rivoluzione colorata”, istigata da “forze esterne”.

Per chi le avesse dimenticate, le “rivoluzioni colorate” sono quelle che una ventina d’anni fa avevano coinvolto diversi paesi ex sovietici come la Georgia e l’Ucraina. Per Pechino rappresentano una minaccia costante, e l’allerta contro i movimenti per la democrazia è sempre ai massimi livelli. Lee ha denunciato di nuovo la “violenza nera” dei manifestanti del 2019 e dichiarato che solo grazie all’introduzione della legge sulla sicurezza nazionale oggi Hong Kong è di nuovo sicura. Non è del tutto vero, in realtà, perché nel territorio la criminalità è aumentata del 48 per cento nei primi tre mesi del 2023. Ma su questo Lee non si è soffermato.

La sicurezza nazionale, nel senso in cui la intende Pechino, sembrerebbe abbastanza protetta dalla legge attuale, e invece no: l’anno prossimo, ha detto Lee, a Hong Kong saranno introdotte ulteriori norme per preservarla, secondo quanto previsto dall’articolo 23 della minicostituzione cinese. Le nuove leggi puniranno con maggior severità i crimini di tradimento, secessione, sedizione, sovversione contro il governo centrale, furto di segreti di stato e collaborazione con gruppi stranieri.

Nel 2003, l’ultima volta che il governo di Hong Kong aveva cercato d’introdurre le leggi previste dall’articolo 23, quasi un milione di persone aveva circondato il parlamento locale, chiedendo che un articolo della costituzione potenzialmente liberticida come quello venisse esaminato solo dopo aver messo in atto quanto previsto dall’articolo 45, ovvero il suffragio universale. Parlando di recente di quelle manifestazioni Chris Tang, il ministro della sicurezza di Hong Kong (ed ex capo della polizia), ha detto che delle “forze esterne” avevano cospirato per portare i cittadini a non fidarsi del governo e a scendere in piazza.

Insomma, i candidati eleggibili sono pochi e preselezionati, mentre quelli eletti sono stati rimossi dal loro incarico o sono finiti in prigione. Le autorità, inoltre, negano che i cittadini di Hong Kong siano mai scesi in piazza per senso civico o per desiderio di partecipazione, e affermano che l’hanno fatto solo perché erano pilotati da forze esterne non meglio qualificate. Non stupisce, quindi, che in questo momento la partecipazione degli elettori sia scarsa. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1539 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati