È universalmente riconosciuto che le persone che non hanno mai cresciuto un bambino schizzinoso sanno perfettamente come convincere i figli degli altri a mangiare. La loro è una conoscenza superiore, granitica nella sua teoria, incontaminata da una cosa prosaica come l’esperienza. Vi diranno che i genitori di oggi sono troppo accomodanti, che viziano i figli trasformandosi nei loro cuochi personali. E comunque i bambini mangiano troppo cibo spazzatura. Provate a servirgli farro arrosto e kombucha per qualche settimana e impareranno ad apprezzare i sapori veri. Se sono inappetenti: affamateli. Se non vogliono provare piatti nuovi: forzateli. In fondo i bambini francesi mangiano educatamente tutto quello che gli viene proposto, compresi il fegato e i coniglietti. Se i vostri figli non apprezzano quello che mettete in tavola, sarà per qualche vostra carenza morale.

Secondo un’altra teoria, i bambini schizzinosi sarebbero parte di un malessere più ampio diffuso nei paesi occidentali. Il problema non sono i genitori, è la cultura. I dottori raccomandano lo svezzamento troppo tardi, impedendo ai bambini di abituarsi a una varietà di sapori. I cibi ultraprocessati intorpidiscono la loro sensibilità agli aromi naturali. Il lusso di poter scegliere tra così tanti alimenti diversi ha creato i bambini schizzinosi, che spesso rimangono tali fino all’età adulta.

Queste brillanti idee suscitano in me una perplessa esasperazione. Sono il tipo di persona che, per principio, assaggia la salsiccia di trippa e lo stomaco di maiale farcito. Ma durante i primi dodici anni della mia vita ho rifiutato di mangiare la maggior parte delle cose. Per i miei genitori era un ostacolo non da poco perché, fino ai miei sei anni, non vivevamo nell’abbondanza. La Romania dei primi anni ottanta era martoriata dalle politiche di austerità imposte dal governo per permettere al paese, sull’orlo della bancarotta, di ripagare i debiti esteri. Dopo aver ricevuto un ulteriore prestito dal Fondo monetario internazionale, il presidente Nicolae Ceauşescu accettò di aumentare le esportazioni e ridurre le importazioni. In pratica i prodotti migliori dell’agricoltura romena erano venduti all’estero, mentre si importava poco e niente. I beni di prima necessità erano razionati e le code infinite diventarono parte integrante della vita quotidiana. I miei genitori restavano in piedi per ore, con temperature sotto lo zero, per comprare carne e patate, quando avevano la fortuna di trovarne ancora. Messa di fronte a quel cibo duramente procacciato, la loro esile e pallida figlioletta serrava le mascelle. A nulla servivano ragionamenti e suppliche, né il fatto che il paese fosse affamato: io non mangiavo.

Durante i pasti inventavo scuse per scappare. Avevo un odio particolare per il latte. Non lo bevevo freddo e riuscivo a malapena a deglutirlo caldo con il miele, a condizione, naturalmente, che non si fosse formata la pellicina. Ritrovarsi in bocca la viscida pellicina del latte è uno shock, di quelli che ti ricordano che anche i momenti più dolci della vita possono essere distrutti dall’orrore esistenziale della realtà, e qualcosa di così semplice e confortante può in un attimo diventare nauseante.

L’altro mio nemico era la carne, e la mia contestazione, in un paese dove il vegetarianismo era praticamente sconosciuto, suscitava lo sdegno generale. C’è una scena, nel film Il mio grosso grasso matrimonio greco, in cui il personaggio interpretato da Andrea Martin, zia Voula, non si capacita che il futuro sposo sia vegetariano: “Come sarebbe a dire che non mangia carne? Oh, non fa niente, non fa niente, ti faccio l’agnello!”. Una sintesi perfetta della cucina romena.

Quando ripenso alla mia infanzia, sento un coro di voci che prova a convincermi della bontà di un piatto tradizionale a base di parti di animali che non ho nessuna intenzione di mettere in bocca. Piftie, un aspic aglioso fatto con piedi, mascelle e orecchie di maiale; creier pane, o cervello di vitello fritto in pastella; ciorba de burta, una zuppa acida alla trippa; cresta di gallo bollita; fudulii, anche detti testicoli di toro. Tutte leccornie che facevano venire l’acquolina in bocca alle vecchie generazioni. Ma io trovavo sgradevoli anche i nostri pasti quotidiani: stufato di pollo cotto per ore, zuppe punteggiate di flaccide erbette, e il ciulama, una sbobba grigiastra di funghi o pollo immersi in una salsa a base di brodo di carne e farina.

Il mio rifiuto di mangiare era un tormento che spinse la mia famiglia verso vette di creatività e ingegno. Mio nonno Mircea tagliava i pomodori e il salame e li disponeva in due file tra noi, come pezzi di una scacchiera. Poi attaccava una delle mie fette di salame e la mangiava. A quel punto contrattaccavo infilzando con la forchetta uno dei suoi soldati-pomodori e me lo infilavo in bocca. Mio padre tentò un approccio diverso: la dieta della fame. Lasciava che rifiutassi un pasto dietro l’altro finché, dopo tre giorni, trangugiavo tutto quello che mi metteva davanti. In seguito disse che mia madre era stata troppo tenera, impedendogli di portare avanti il suo brillante esperimento pedagogico.

Messa di fronte a quel cibo duramente procacciato, la loro esile e pallida figlioletta serrava le mascelle. A nulla servivano ragionamenti e suppliche: io non mangiavo

Dato che ero di una magrezza intollerabile, un medico consigliò ai miei di portarmi in montagna e di nutrirmi con latte di mucca grasso. I miei genitori prenotarono una casa vicino a una fattoria per le vacanze, e ogni mattina scendevano dalla collina per andare a comprare una bottiglia di latte fresco, ancora caldo e olezzante di bestia. Si potevano permettere una sola bottiglia, che posavano amorevolmente davanti a me, sperando che la loro unica erede, il loro unico legame con l’immortalità, avrebbe preso qualche chilo. Ogni mattina assaggiavo un sorso e mi tiravo indietro disgustata, e loro bevevano il resto del prezioso latte. Quando tornammo a Bucarest, io ero ancora pallida e gracile, mentre i miei avevano entrambi messo su un po’ di peso.

Se mostravo interesse per un alimento qualsiasi, la mia famiglia vi si aggrappava con la stessa folle disperazione che riconosco in me ora quando provo a dar da mangiare a mio figlio. A un certo punto le mie nonne si accorsero che apprezzavo la zuppa di pomodoro con i capellini. La mangiavo addirittura con gusto. Andai da nonna Nadia e mi preparò la zuppa di pomodoro con i capellini. La settimana seguente, da nonna Sanda, mi venne servita la zuppa di pomodoro con i capellini. Una settimana dopo, Nadia mi posò davanti un piatto di zuppa al pomodoro con i capellini. “Non sapete cucinare nient’altro?”, chiesi, per nulla impressionata.

Ripensando a quel periodo, ora capisco quante cose rifiutavo respingendo un piatto. Rifiutavo cibi, in particolare quelli ricchi di proteine come la carne e i latticini, in un paese dove consumare abbastanza calorie da crescere bene era una sfida per chiunque non avesse un aggancio con una fattoria o con il Partito comunista. Rifiutavo anche una cultura che aveva continuato a praticare il “non si butta niente” ben oltre il momento in cui la cucina americana aveva rinnegato le frattaglie. Rifiutavo di condividere il piacere dei miei genitori, e ho continuato a ripetere quel lungo “no” anche dopo che ci trasferimmo in Israele e poi in Canada.

C’è un “no” di cui mi pento amaramente. Dopo la rivoluzione romena e l’apertura delle frontiere, i parenti di mia madre ci vennero a trovare a Toronto. Per festeggiare, la mia famiglia comprò aragoste per tutti e le bollì nella cucina del nostro piccolo appartamento. C’è una foto che ritrae mio nonno mentre divora felice un crostaceo rosso acceso, mia nonna bella e radiosa e, in mezzo a loro, una ragazzina impettita davanti a un piatto vuoto, con l’aria sprezzante e vessata. Da allora ho mangiato varie aragoste, ma se ce n’è una che non avrei dovuto rifiutare era quella. Non sapevo che mi rimanevano pochi anni insieme a mio nonno, né capivo il senso di quell’abbondanza nel quadro della sua vita. Era probabilmente la sua prima e ultima aragosta, e io avevo scelto di non condividerla con lui.

Per spiegare con tatto perché esistono i bambini schizzinosi, alcune teorie puntano sulla comprensione più che sul biasimo. C’è chi sostiene che quei bambini esercitano il loro potere sull’unica cosa che possono controllare: ciò che mettono in bocca. Altri pensano che una predisposizione genetica gli faccia percepire più intensamente i sapori amari. O che abbiano un senso del gusto molto sviluppato, e siano quindi più sensibili ai sapori forti, anche quelli dolci. Quando i bambini smettono di fare storie a tavola, lo fanno per ragioni misteriose. Forse gli viene detto di mangiare un alimento talmente tante volte che raggiungono la magica soglia oltre la quale il disgustoso diventa delizioso. O forse le loro papille gustative si sono intorpidite con l’età, permettendogli di sopportare i sapori amari, aspri o dolci. Se appartengono alla mia stessa, astuta categoria, escogitano strategie per mangiare di più gli alimenti che gli piacciono.

Con il tempo ho cominciato ad apprezzare alcuni insoliti piatti di mia invenzione, strani miscugli sperimentati nelle lunghe ore che passavo da sola a casa dopo la scuola. Ricoprivo di ketchup e formaggio arancione fluorescente delle fette di pane in cassetta, le passavo al microonde e infine ci conficcavo dei pezzetti di cetriolini sottaceto e di cipolla cruda. Per anni a scuola ho buttato i miei panini alla salsiccia, ritrovandomi a fare la fame, fino al giorno in cui ho avuto l’idea di aprire un enorme panino alla cipolla, cospargerlo di formaggio spalmabile, aggiungere uno strato di zuppa al pomodoro e spolverizzarlo di sale. Per l’ora di pranzo, la zuppa di pomodoro aveva impregnato il pane, il formaggio aveva sporcato tutto il sacchetto, e l’insieme era diventato un intruglio viscido, puzzolente e salatissimo che trovavo divino. Agli occhi dei miei compagni i miei pranzi erano disgustosi, ma io, seguendo l’esempio dei miei genitori, avevo imparato a godermi il cibo anche quando gli altri lo trovavano rivoltante.

Franco Matticchio

Poi, durante l’adolescenza, la mia fame si fece sentire di più. Desideravo la carne: bistecche, costolette di maiale, fegato. Mi incuriosiva quello che i miei amici mangiavano a casa, e osservavo i loro genitori sfornare chapati o aprire confezioni di gelatina di sangue di maiale nel quartiere di Scarborough Chinatown. Per un’adolescente, la periferia di Toronto era un ottimo posto dove scoprire il piacere di mangiare. Le famiglie dei miei amici mi introdussero alla zuppa di germogli di bambù, alle frittelle di patate di Hanukkah e all’aragosta fredda. Mi accolsero durante la cena dello Shabbat e mi insegnarono a ringraziare per il tè battendo silenziosamente due dita sul tavolo. Ho assaggiato i miei primi curry alle feste della capa indiana di mia madre. A casa, cercavo di riprodurre i piatti che mi piacevano, imponendo ai miei genitori un agedashi tofu passabile e un pad thai con troppo ketchup.

In quanto alla cucina dei miei genitori, negli anni avevo cominciato a trovarla più interessante e appetitosa. Non avevo nessuna intenzione di provare a cucinare l’aspic di maiale, ma ascoltavo quando spiegavano come scegliere le foglie di verza sottaceto più adatte per gli involtini, come rendere la cipolla cruda meno pungente per preparare l’insalata, come togliere l’amaro delle melanzane arrosto ma non il sapore affumicato. In dieci anni, da commensale maleducata mi ero trasformata in un’amante non solo della cucina del mio paese ma anche delle specialità cosmopolite che mi circondavano.

Quando sono rimasta incinta, a poco più di trent’anni, avevo dimenticato le mie antiche lotte con il cibo ed ero certa che avrei messo al mondo una buona forchetta. Durante la gravidanza ho mangiato cose di ogni genere, convinta di gettare la basi biologiche per un palato avventuroso. Mio figlio non sarebbe stato incoraggiato a entusiasmarsi per il cervello di vitello. Avrebbe avuto accesso ai sapori migliori che un ricco paese occidentale poteva proporre, una grande varietà di ingredienti, alcuni dei quali gli sarebbero sembrati deliziosi. All’inizio è stato così. Come molti bimbi piccoli, buttava giù qualunque cosa gli venisse proposta, afferrando con gioia olive, cipolle e – bello di mamma! – pure le alghe wakame. Me la stavo cavando alla grande.

Poi, intorno ai due anni, ha smesso di mangiare quasi tutto. Accettava solo pane bianco, riso in bianco e pasta in bianco. Le verdure solo se crude e croccanti. Il latte, solo sui fiocchi d’avena o sul porridge (non cotto).

A volte ho l’impressione che il suo rifiuto sia un castigo per tutto quello che ho fatto patire alla mia famiglia. Mio figlio non usa le buone maniere per dirci quanto trova disgustoso un piatto che non si è neanche degnato di assaggiare. Non provo quasi più piacere a cucinare, tanta è la frustrazione nel vedere i miei sforzi culinari stroncati con disprezzo. Le maestre dell’asilo si sperticano in lodi sulla sua creatività e gentilezza, per poi aggiungere, sottovoce, che a tavola è un disastro. I nonni gli cucinano piatti ispirandosi ai libri di ricette per bambini, per poi nascondere la loro delusione nel vederlo scansare la lasagna di spinaci o il tortino di broccoli che secondo l’autore o l’autrice del libro sarebbero stati un successo sicuro. Ormai con mio marito apriamo i libri di ricette per bambini, guardiamo le foto di Cose Che Non Sono Pasta In Bianco e ci abbandoniamo alla risata cavernosa degli sconfitti.

Eppure il bambino cresce. Ha un’energia infinita. È sveglio, divertente e affettuoso. Il pediatra non è preoccupato. Quando gli altri provano a convincerlo a comportarsi come uno normalmente affamato, mi sembra di essere l’unica persona in grado di capirlo. So quant’è frustrante essere costretti a mangiare una cosa con un odore o una consistenza insopportabili, o restare a guardare per ore un piatto che non si riesce a finire. Riconosco la sua cocciutaggine, il modo in cui respinge perfino quello che gli piace se ha l’impressione che lo stiamo forzando. Mi scoccia che il suo comportamento a tavola faccia passare in secondo piano le sue tante qualità, come se quest’unico difetto pesasse più della sua curiosità, della sua sensibilità o del suo sorriso da diavoletto.

Anche io sono stata definita da quello che non mangiavo, da quell’unica dimensione della mia vita in cui non ero totalmente obbediente. Mi è stato insegnato a sentirmi in colpa per quello che non mettevo in bocca, e ora spesso mi sento in colpa per quello che faccio. E per quanto mi dispiaccia vedere mio figlio respingere il cibo che vorrei condividere con lui, non voglio che i pasti in famiglia diventino un campo di battaglia per la sua autonomia fisica.

È vero, essere schizzinosi a tavola spesso equivale a un rifiuto della famiglia, della cultura, delle basi della buona educazione. Ma segna anche lo sviluppo di un gusto individuale. Le opinioni troppo nette sulla qualità di qualcosa di solito ci mettono a disagio, e c’è una ragione: la parola giudicante in origine aveva un senso positivo (indicava semplicemente la capacità di valutare bene), mentre oggi ha una connotazione negativa. Eppure mio figlio, anche se respinge alcuni dei miei piatti preferiti, ha un talento naturale quando si tratta d’individuare gli aromi artificiali o gli accostamenti poco convincenti. È perennemente critico, ma raramente sbaglia. E resistere alla pressioni dei suoi genitori lo costringe a inventarsi nuovi modi per cercare cose che non vuole mangiare.

Qualche tempo fa ho cucinato i maccheroni al formaggio, quelli veri, con la besciamella, il formaggio buono e uno strato dorato di pangrattato. Erano tutti ingredienti che mio figlio tollera, presentati in un classico piatto per bambini, motivo per cui mio marito e io speravamo potesse dar vita a un pasto condiviso. Mio figlio ha assaggiato un boccone e ha dichiarato che non gli piaceva. Probabilmente non era vero, ma cercando di nascondere la mia frustrazione gli ho detto che non c’era altro da mangiare. “Forse”, ha suggerito lui, “sarebbe più buono dentro un panino”. Mio marito e io ci siamo guardati e ci siamo precipitati a prendere il pane. E così mio figlio si è mangiato due panini ai maccheroni col formaggio, spiegando di aver migliorato la ricetta.

In alcune zone della Romania, l’ultimo boccone lasciato su un piatto è chiamato rușinea, la vergogna: lo scandalo di un bambino che rifiuta un pasto comprato col sudore della fronte e cucinato con amore. Quel boccone rappresenta l’umiliazione dei genitori che falliscono nell’elementare compito di nutrire la loro creatura. La vergogna lega il bambino schizzinoso ai suoi esausti genitori di fronte a parenti, insegnanti, amici e dottori pieni di buone intenzioni. Serviranno un po’ di flessibilità e di ingegno, ma prima o poi, spero, riusciremo a cenare tutti insieme, lasciandoci la vergogna alle spalle. ◆ fs

Irina Dumitrescu è una scrittrice e critica letteraria romena. Insegna letteratura inglese medievale all’università di Bonn, in Germania. Questo articolo è uscito sul sito Serious Eats.

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Questo articolo è uscito sul numero 1644 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati