Durante la giornata inaugurale della conferenza delle Nazioni Unite sul clima (Cop28), che si è aperta il 30 novembre a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, i paesi partecipanti hanno approvato i dettagli cruciali di un fondo per compensare le perdite e i danni causati dal cambiamento climatico, placando i timori che la questione potesse compromettere i negoziati su altri temi scottanti. L’intesa è un passo avanti rispetto all’accordo raggiunto nel 2022 alla Cop27 di Sharm el Sheikh, in Egitto, e dovrebbe aiutare i paesi poveri a sostenere i costi sempre più elevati del riscaldamento globale. I negoziatori hanno lavorato un anno per definire i dettagli principali del fondo e appianare le divergenze su chi contribuirà e chi potrà accedervi.

A Dubai il fondo è stato approvato così com’era descritto nella precedente proposta, anche se “i passaggi relativi al suo finanziamento sono stati un po’ stemperati”, dice Friederike Roder dell’organizzazione umanitaria Global citizen.

Finora sono già stati promessi 725 milioni di dollari, di cui cento da Germania ed Emirati Arabi Uniti, 75 dal Regno Unito e 17,5 dagli Stati Uniti.

Secondo Roder siamo ancora lontanissimi dalle centinaia di miliardi di dollari che servirebbero per rimediare ai danni del cambiamento climatico, ma questa intesa iniziale potrebbe contribuire a spianare la strada ai colloqui sulle tante altre questioni urgenti che dovranno essere affrontate alla conferenza.

Anche se le Nazioni Unite non hanno definito in modo formale cosa s’intende per “perdite e danni”, l’espressione si riferisce generalmente alle perdite economiche o di altro tipo causate dalla crisi climatica, che vanno al di là della capacità di un paese di adattarsi. Questo potrebbe includere sia, per esempio, i danni improvvisi provocati da eventi climatici estremi sia le conseguenze a lungo termine dell’aumento del livello del mare.

Il dibattito sulla questione risale alla prima conferenza sul clima delle Nazioni Unite, più di trent’anni fa, e si è concentrato principalmente su come i paesi ricchi potessero aiutare quelli poveri, che sono più soggetti agli effetti del cambiamento climatico pur avendo contribuito in minima parte a causare il problema con le emissioni di gas serra.

Alla Cop28 gli stati hanno adottato un testo molto simile alla proposta presentata dai negoziatori all’inizio di novembre. La discussione è stata tesa. Secondo Preety Bhandari dell’ong ambientalista World resources institute ci sono stati “momenti drammatici”.

L’accordo si fonda su compromessi in diversi campi che contrappongono i paesi “sviluppati” a quelli “in via di sviluppo”. Queste definizioni sono usate dalle Nazioni Unite sulla base di convenzioni di lunga data, che in molti casi però non riflettono la ricchezza effettiva degli stati.

Il dibattito sul fondo ha toccato vari punti: dove avrà sede, quali paesi dovrebbero contribuire e quali potranno accedervi. Niente è definitivo fino alla ratifica a chiusura della conferenza, ma questi nodi sembrano essere stati sciolti.

Un compromesso chiave è stata l’intesa in base alla quale inizialmente il fondo sarà gestito dalla Banca mondiale, malgrado i timori dei paesi in via di sviluppo: secondo loro questo potrebbe complicare l’accesso ai soldi perché l’istituto è controllato dagli stati donatori.

Un altro aspetto decisivo è che per i paesi che inquinano da più tempo, come gli Stati Uniti e il Regno Unito, i contributi non saranno né obbligatori né vincolati alle emissioni storiche di gas serra. Il testo si limita a “invitare tutti i finanziatori a contribuire al fondo affinché operi su vasta scala”. Secondo Bhandari questo “rende difficile capire che tipo di somme arriveranno”.

La formula, però, apre alla possibilità che anche stati relativamente ricchi come la Cina e l’Arabia Saudita possano contribuire al fondo, nonostante ufficialmente rientrino nella categoria dei paesi in via di sviluppo. “Per chi ha sempre inquinato è molto importante cercare di portare al tavolo anche gli altri stati che inquinano oggi”, dice David Nicholson dell’organizzazione umanitaria Mercy corps.

Malgrado il tentativo di alcuni paesi sviluppati di limitare l’accesso al fondo ai soli stati più vulnerabili, il testo consente l’accesso a tutti quelli in via di sviluppo.

Questa cautela è in parte dovuta alle promesse non mantenute in passato. Alla conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2009 i paesi ricchi avevano promesso di stanziare cento miliardi di dollari all’anno entro il 2020 per aiutare quelli poveri ad adattarsi al cambiamento climatico e avviare la transizione alle energie rinnovabili, ma hanno mancato tutte le scadenze ed è possibile che l’obiettivo sia stato rispettato solo nel 2022.

“Molti di noi stanno ancora aspettando gli aiuti per le perdite e i danni che erano stati promessi alla Cop27”, dice Fatima Denton dello United Nations university institute for natural resources in Africa, che ha sede in Ghana. “Se non ci accordiamo su un sistema per esigere i contributi dai paesi sviluppati, il processo avviato alla Cop rischia di ridursi a un concorso di bellezza, in cui gli stati si mettono in mostra promettendo nuovi fondi prima ancora che arrivino i vecchi”.

Il problema dell’attribuzione

Secondo Roder i circa settecento milioni di dollari già promessi alla Cop28 sono un primo passo, ma data la quantità di denaro che potrebbe servire per risarcire perdite e danni li definisce un “timido inizio”. In realtà non si sa bene quanto occorra. Il testo non specifica l’ammontare del fondo, ma durante i negoziati i paesi in via di sviluppo hanno proposto l’obiettivo di fornire cento miliardi di dollari all’anno entro il 2030.

Perfino questa cifra, però, è inferiore ad alcune stime della reale portata delle perdite e dei danni causati dal cambiamento climatico, che in futuro probabilmente aumenteranno. Una valutazione del Vulnerable twenty group, un’alleanza di 68 paesi vulnerabili, ha concluso che tra il 2000 e il 2019 le loro economie hanno perso 525 miliardi di dollari, pari a un quinto del loro pil. Secondo uno studio recente 143 miliardi di dollari l’anno di danni sono già imputabili agli eventi estremi causati dal cambiamento climatico.

Il fondo per le perdite e i danni dovrà essere fornito in aggiunta alle centinaia di miliardi di dollari necessarie ai paesi a basso reddito per adattarsi al cambiamento climatico e ridurre le emissioni, spiega Nicholson. “Occorre chiarire che l’impegno su questo tema non deve andare a scapito delle ambizioni sulla finanza climatica in generale”.

“Sono cifre astronomiche”, dice Roder. “Ma è importante sottolineare che è possibile raggiungerle”, dice ricordando le migliaia di miliardi di dollari di ricavi ottenuti dalle grandi aziende di combustibili fossili, che i ricercatori hanno collegato alle migliaia di miliardi di dollari di danni causati dal clima. “Il denaro è già nel sistema, bisogna solo reindirizzarlo”.

L’accordo raggiunto alla Cop27 sull’istituzione del fondo è stato in parte reso possibile dai progressi della climatologia, che hanno permesso ai ricercatori di ricondurre determinati eventi meteorologici al cambiamento climatico. Ma nonostante i passi avanti della “scienza dell’attribuzione”, può essere problematico usare questi studi per prendere decisioni sulla distribuzione dei fondi.

Un ostacolo è rappresentato dal fatto che molti dei paesi più esposti alla crisi climatica hanno pochi dati su cui basare l’attribuzione dei fenomeni, osserva Joyce Kimutai del Kenya meteorological department. “In quelle regioni non esistono gli strumenti per raccogliere prove scientifiche”, spiega. Uno studio sulle recenti alluvioni in Africa centrale, per esempio, non è riuscito a stabilire un legame certo con il cambiamento climatico per mancanza di dati sulle precipitazioni.

Per questo, secondo Kimutai, l’accesso al fondo perdite e danni per i paesi vulnerabili non deve essere vincolato alla dimostrazione che è stato il cambiamento climatico a produrre un dato evento, almeno finché la scienza non sarà in grado di farlo. “Le regioni più vulnerabili hanno bisogno di ricevere quei fondi subito”, dice. ◆ sdf

Da sapere
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◆ Dal 30 novembre al 12 dicembre a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, si svolge la 28esima conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (Cop28). Oltre all’intesa sul fondo per le perdite e i danni, la conferenza ha già prodotto un altro importante accordo: 118 paesi hanno sottoscritto l’impegno a triplicare la disponibilità di energia da fonti rinnovabili e raddoppiare il miglioramento dell’efficienza energetica entro il 2030. Inoltre il presidente della Cop28 Sultan al Jaber ha annunciato che cinquanta aziende petrolifere responsabili di quasi metà della produzione mondiale di idrocarburi hanno promesso di azzerare entro il 2030 le loro emissioni nette di metano, un potente gas serra. Al Jaber, considerato dagli ambientalisti inadatto al ruolo perché è a capo dell’azienda petrolifera di stato degli Emirati Arabi Uniti, è stato criticato dal segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres per aver sostenuto che secondo la scienza non è necessario abbandonare i combustibili fossili per fermare il cambiamento climatico. Bbc


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Questo articolo è uscito sul numero 1541 di Internazionale, a pagina 107. Compra questo numero | Abbonati