Nell’antichità, quando un vulcano eruttava, cercavamo di placarlo a forza di sacrifici. Oggi, invece del vulcano, cerchiamo di placare noi stessi a furia di pasticche. Abbiamo cambiato strategia. Me ne sono accorto in una farmacia di Los Llanos de Aridane, sull’isola della Palma, alle Canarie, quando ho visto che le due persone prima di me avevano delle ricette per un ansiolitico. Ero entrato per comprare dei cerotti, ma ho chiesto anche un colluttorio e uno spazzolino di cui non avevo bisogno perché volevo chiacchierare con la farmacista.

“Durante l’eruzione la gente prendeva dei sonniferi perché non riusciva a dormire. Da quando è finita vendiamo più ansiolitici”, mi ha detto.

Una sua cugina è uscita di casa “così com’era”, senza portarsi dietro niente. Si sente spesso usare quest’espressione, “così com’era”. L’impressione, dopo aver parlato con la gente, è di ascoltare un racconto standard, concordato, che nella sua ripetitività offusca le dimensioni della tragedia. Uscire con i soli vestiti addosso, a pensarci bene, è una cosa spaventosa, soprattutto se non si può rientrare a casa, una circostanza che alla Palma si è verificata in molte occasioni.

“Questa strada si trova nel centro di Los Llanos, e fino a poco tempo fa era completamente ricoperta di cenere. Dovevamo uscire con occhiali protettivi, mascherine e ombrelli”, ha continuato la farmacista.

“Ombrelli?”, ho chiesto perplesso.

“Sì, per la cenere. I capelli puliti resistevano pochissimo. La cenere non sporca, ma si deposita sui capelli. Il piatto della doccia diventava nero”.

L’immagine delle persone con l’ombrello sotto una pioggia di gocce nere solide era così surreale che si è fissata nella mia testa.

Una lacrima, un cuore

I cerotti mi servivano perché la scarpa mi aveva provocato un’escoriazione al piede sinistro, e il giorno dopo avrei dovuto camminare su un terreno accidentato. Dovevo incontrare Felipa Guzmán Reyes, vicedirettrice del parco nazionale della Caldera de Taburiente, a nord, dove appena due milioni di anni fa cominciò a formarsi quest’isola preadolescente che ogni tanto fa prendere un bello spavento. Gli ultimi “spaventi” di cui si ha memoria sono, in ordine cronologico, quello del vulcano San Antonio, nel 1677; del San Juan nel 1949; del Teneguía nel 1971; e quello del Cumbre Vieja, praticamente ieri, nel settembre del 2021.

Si tratta, insomma, di un’isola in formazione, che ogni tanto si lacera in qualche punto per continuare a partorire se stessa. Agli studenti della Palma s’insegna che la loro terra ha la forma di un cuore. È vero, ma anche, ci sembra, di una lacrima al rovescio. Ora ci troviamo a nord, nella zona più grossa della lacrima, nel punto in cui l’isola è emersa dal fondo dell’oceano, che raggiunge i quattromila metri di profondità. In questa zona c’è una gigantesca conca nota come la Caldera de Taburiente, nella cui parete interna sono stati aperti, a diverse altezze, dei sentieri percorribili. Felipa Guzmán e io camminiamo su uno di questi sentieri interni della parte alta della Caldera mentre James Rajotte, il fotografo, cerca i punti migliori per scattare qualche foto.

Questa depressione enorme del terreno (vengono le vertigini a guardare in basso, ma anche in alto) è il risultato dello spostamento dell’edificio vulcanico originale, scavato dall’acqua. Nella parete sudovest la conca presenta una spaccatura che dà vita a un enorme burrone, conosciuto come Las Angustias, da cui l’acqua non raccolta prima o in eccesso arriva al mare, all’altezza della località di Tazacorte. Il burrone è anche il prodotto dell’erosione causata dall’acqua all’inizio dell’esistenza di quest’isola di 708 chilometri quadrati, che ha un’altezza massima di 2.426 metri (il Roque de los Muchachos) e una popolazione di 83mila abitanti, 117 per chilometro quadrato.

Questa zona è stata poco colpita dall’eruzione del vulcano Cumbre Vieja, ma bisogna visitarla se si dà importanza alle origini. È bello, penso, contemplare l’ultima eruzione alla luce del luogo dove è avvenuta la prima. La vicedirettrice del parco racconta: “Quando il vulcano Cumbre Vieja ha eruttato era domenica, il 19 settembre, e io ero a casa di mia madre. C’era grande agitazione, perché non avevamo mai visto un vulcano in eruzione, e dicevano che poteva succedere da un momento all’altro. Eravamo euforici. Mia madre, che aveva vissuto le eruzioni del 1949 e del 1971, ha detto: ‘Che figli ignoranti’. Quando è cominciata l’eruzione siamo saliti in macchina e ci siamo avvicinati il più possibile al vulcano. Dalla fessura uscivano lingue di fuoco, come quelle della corona della statua della libertà. Eravamo ammaliati. Ma i più anziani ci mettevano in guardia: ‘Che disgrazia, la lava coprirà la casa di tizio, che ha lavorato tanto!’. Il vulcano ha queste due facce: sembra che arrivi dall’aldilà, e invece arriva dalla profondità della Terra, dall’interno, non da fuori. È magico fino a quando non ti rendi conto che mentre continua ad avanzare ricopre case, terreni, progetti. Siamo passati dalla magia alla tragedia in un attimo. Alcune persone hanno dovuto abbandonare la casa di corsa, uscendo così com’erano”.

“Così com’erano”, di nuovo.

Mentre proseguiamo sul bordo interno del gigantesco cratere, il cielo si copre e i precipizi, i burroni e le rughe piene di vegetazione che formano le pareti della conca diventano minacciosi come un paesaggio torturato, senza perdere la loro grandezza. Manca solo un poeta romantico che si lanci nel vuoto con la chioma al vento. Fa paura immaginare la caduta.

Guzmán, 48 anni, sposata e con un figlio, dice: “Mio marito aveva seimila metri quadrati di terra sulla costa e la lava si è portata via tutto. Coltivavamo avocado. Avevamo una piscina, avevamo già gettato le fondamenta per costruire una casa. La lava prima si è portata via metà della terra, poi l’altra metà. Per dieci giorni mio marito sembrava perso: prima dell’eruzione andava tutti i pomeriggi a lavorare la terra, era la sua vita. Ora non sa più cosa fare”.

Insisto: non è facile capire se dia più vertigini guardare verso l’alto, dove ci sono dei picchi che formano un crinale enorme, a più di duemila metri d’altezza (noi siamo a circa mille metri), o in basso, in direzione di uno dei solchi dove immagino di rotolare verso l’abisso. Ho perso un po’ il senso dell’orientamento e non saprei dire dove sia il nord, neanche il nord di me stesso. Mi sento come una minuscola formica sul volto di un anziano addormentato, un uomo così pieno di pieghe e rughe che la povera formica non sa se si trova vicino alla bocca, alle palpebre o alle sopracciglia.

Guzmán dice: “Mio marito pensa che potremmo ancora recuperare il terreno, togliendo la lava”.

“Come una crosta”, dico io, perché la lava somiglia un po’ alle croste che si formano quando da piccoli ci si sbuccia le ginocchia. Per il suo aspetto irregolare, però, ricorda anche un melanoma, una di quelle escrescenze orrende che hanno una brutta evoluzione.

“Come una crosta”, conferma lei.

La depressione in cui ci troviamo è coperta di pini, un albero endemico della zona. Il pino delle Canarie si è evoluto per resistere a temperature altissime. Corteccia e foglie bruciano, ma al suo interno il pino resta vivo: sembra morto ma comincia subito a gettare nuovi germogli. Il sottobosco è ricco: ci sono crisantemi campestri, ginestre, lanutelle, echium, cardi, salvia bianca, timo, senecioni, cavoli di roccia, agavi, violette, aeonium nobile. Non conosco tutte queste varietà, ma il solo fatto di elencarle, anche se non distinguo le une dalle altre, è una gioia per le orecchie e toglie drammaticità al paesaggio. Per quanto riguarda la fauna ci sono farfalle, scarabei, luì piccoli, bombi, ragni, pipistrelli di Madeira, grilli, sparvieri, libellule, piccioni selvatici, gheppi, cimici, lucertole, gufi, regoli. Un mondo che ci osserva, immagino, nascosto tra il muschio, le rocce, le crepe, le cortecce degli alberi e le pieghe del terreno.

Sento, all’improvviso, un suono lontano e dolce, come la vibrazione di uno strumento a corda. Immagino che sia una delle manifestazioni del silenzio. Questa zona dell’isola è intatta, anche se è arrivata della cenere nei giorni in cui il vento soffiava in direzione nord, un fenomeno insolito perché di solito spira verso sud. La responsabile del parco dice: “Ho notato che la cenere disturbava alcune piante. Gli animali si muovevano in modo strano, perché le specie di cui si nutrivano erano coperte di cenere. Aggiravano il burrone e andavano verso nord. Guarda, su quelle rupi fanno il nido falchi e gheppi”.

Chiamare “cenere” le emissioni più piccole del vulcano può creare dei malintesi. Per la maggior parte delle persone la cenere è una polvere morbida, il risultato di una combustione, che si disfa tra le dita. Ma le “ceneri” di un vulcano, anche se sono grandi solo quanto un granello di sabbia, sono dure come limatura di ferro. Sono polvere di ferro: se le metti in bocca, sanno di metallo.

Tra le pareti e il vuoto

Arriviamo a piedi al belvedere della Cumbrecita, a circa 1.300 metri di altitudine. Da qui il paesaggio è ancora più sorprendente, se possibile. Per la sua bellezza atroce somiglia a quello di una coscienza tormentata, solo che invece di essere fatto d’idee ossessive, è pieno di natura selvaggia capace di sopravvivere in dirupi, fessure e burroni. Perfino sulle rocce nude, come fanno la pimpinella, la silene italiana, l’aeonium canariense, la carlina falcata, la pelosella: tutte con steli e foglie apparentemente fragili, ma con una capacità commovente di resistere.

Prima che un centimetro di terreno del magma originario diventi coltivabile, dice Guzmán, ci vogliono secoli. La lava deve decomporsi. Quanto maggiore è l’erosione prodotta dalla pioggia e dal vento, meglio è. La lava erosa dall’acqua, dal vento, dai batteri e dai microrganismi in generale si trasforma in quello che noi profani chiamiamo “terra”, cioè il suolo, il sostrato che poi è colonizzato dalle piante e dagli animali. Guzmán spiega che “l’acqua a bassa conduttività elettrica”, come quella che c’è qui, è eccellente per le coltivazioni. Ricordo quest’espressione – “acqua a bassa conduttività elettrica” – non perché la capisca, ma perché ha un bel suono. Mi piace. “Prima la gente scavava nella lava, la copriva di terra e ci coltivava sopra, perché la lava è ricca di nutrienti”, aggiunge Guzmán.

La strada diventa più aggressiva e aspra, mi fermo un attimo a controllare che il cerotto sia ancora al suo posto. Un uccellino canta (un’altra manifestazione del silenzio), ma non riesco a identificarlo. Ci sono gracchi corallini, canarini, rondoni, corvi.

Lo spazio è opprimente e liberatorio allo stesso tempo, con pareti alte e verticali da una parte e il vuoto dall’altra.

“Siamo così effimeri in rapporto ai tempi geologici”, riflette Guzmán. “Mia madre ha vissuto tre eruzioni, nel 1949, nel 1971 e questa. A volte cerco di ricordare cosa c’era sotto la lava. Mi dico: ‘Qui c’era un negozio, qui la casa di quel tipo’. Ripercorro con l’immaginazione la strada che portava al nostro terreno. Avevo imparato il paesaggio a memoria, e ora… Una collega mi ha raccontato che quando la lava è arrivata a casa sua era stesa sul letto, in attesa. Il vulcano le è praticamente entrato in casa. Quando finisce di lavorare la gente non sa dove andare né cosa fare. Magari bisogna abituarsi a vivere per la prima volta in un appartamento o in albergo, dove ancora abitano molte delle persone allontanate dalle zone a rischio a causa dei gas. Qui si dà molta importanza alla proprietà, perché per molti è il frutto del denaro guadagnato emigrando a Cuba e poi investito dopo il ritorno alla Palma. Mia madre ha delle terre ereditate dal padre. Dice che se un giorno le venderemo, il nonno comparirà la notte a tormentarci. Il territorio è piccolo, e gli abitanti sono molto legati alla terra”.

Una casa ricoperta dalla cenere alla Palma, 1 dicembre 2021 (Emilio Morenatti, Ap/Lapresse)

Poi dice: “Il rumore era spaventoso, sembrava di essere in mezzo alla pista di un aeroporto. Ogni tanto si sentiva un’esplosione. Le esplosioni, il tremore”.

Tengo a mente il termine “tremore” come l’entomologo che fissa una farfalla rara al sughero, dopo averla infilzata con uno spillo. Tremore: una parola stupenda per indicare le vibrazioni che arrivano dalle viscere della Terra o dal profondo di una persona, dal magma di cui è fatto il mondo naturale o il subconscio.

Lasciamo il parco nazionale, il luogo in cui è nata quest’isola giovanissima che ancora si sta formando, e scendiamo verso sud nell’auto di Felipa Guzmán per vedere, toccare e calpestare, se possibile, una di quelle colate che abbiamo visto spesso in tv.

Non dimenticare

Eccoci davanti a lei, davanti a una verruca porosa, più alta di noi, a un’escrescenza carnosa, dura, nera, affilata, tagliente e irregolare, davanti alla scoria, rifugio ideale per ogni sorta di rettile.

Il luogo comune che viene in mente è: paesaggio lunare.

Fa rabbrividire il pensiero che qui sotto ci siano case, cucine, padelle, televisori, lenzuola, armadi, giocattoli dei bambini in corridoio, matite colorate, album di fotografie, spazzolini da denti, libri, apparecchi radio, asciugacapelli.

C’è un uomo sulla porta di una casa attaccata a una parete di lava, che nel suo passaggio ha solo sfiorato quest’edificio. Quando vede che mi avvicino con il quaderno e la penna, fa cenno di no con la mano e un’espressione di fastidio. “Non rilascio interviste”.

“L’ha scampata per un pelo”, dico io.

“Vero”, concede con educazione.

Il cimitero Las Manchas alla Palma, 1 dicembre 2021 (Emilio Morenatti, Ap/Lapresse)

E siccome resto fermo, facendo finta di prendere appunti, aggiunge: “Lì, a pochi metri, c’erano delle case. Alcune si sono salvate, ma sono rimaste isolate. Non c’è modo di arrivarci”.

“Lei come si chiama?”.

“Non glielo dico”.

Saliamo sulla parte alta della crosta di lava, in cima al tumore cutaneo che è spuntato sul paesaggio. Il terreno è tagliente.

Parlando della cenere Guzmán dice: “Pulisci per terra e pensi: ‘Ok, ci siamo’. Poi torna il vento, si mette a piovere e devi ricominciare da capo”.

Da qui scendiamo in una zona di banani, dove le strade sono fiancheggiate da pareti altissime di teli che coprono le piantagioni. È come uno strano quartiere vegetale che la lava ha rispettato, anche se la cenere ha sporcato le serre. Mi affaccio a uno dei buchi di questi muri di tela e noto che anche la terra è nera per l’abbondanza della polvere minerale. I banani, con le loro forme strane, sembrano animali preistorici intrappolati in un mondo oscuro: il mondo che probabilmente è rimasto dopo l’impatto del meteorite gigante che spazzò via i dinosauri.

Saliamo a piedi sulla montagna della Laguna da cui si vede perfettamente il cratere del vulcano a forma di ferro di cavallo, di buco, di bocca, di orifizio, di occhiello.

Dice Guzmán che la montagna su cui si erge questa bocca fumante non esisteva, non era lì.

“Cosa c’era allora?”, domando.

“Il pendio che scendeva a valle. C’era una valle”.

Lo stupore con cui parla è quello di chi non riconosce il proprio volto allo specchio. “All’inizio scendeva solo una lingua di fuoco, poi si sono moltiplicate. La montagna a destra è Todoque, che è scomparsa sotto la lava”.

Da qui in effetti si vede una grande macchia nera che, dalla base del vulcano, scende in direzione del mare.

“C’è chi si è portato via anche le porte di casa. Quelli che hanno avuto tempo, ovviamente. Io cerco di ricordare com’era la strada che andava a Puerto Naos. Non voglio dimenticarla”.

Guardare le cose da qui crea dipendenza, perché le dimensioni della tragedia appaiono con la chiarezza di una mappa tridimensionale. Sembra di vedere allo stesso tempo una rappresentazione della realtà e la realtà rappresentata. Due giorni dopo io e il fotografo torniamo, attratti da questa visione stupefacente, in compagnia di Miguel Ángel Morcuende, 67 anni, direttore tecnico del piano speciale di protezione civile e assistenza alle emergenze per il rischio vulcanico. Parla di mesi estenuanti, di giornate di lavoro di sedici ore con l’adrenalina a mille per poter resistere. Il piano di protezione ha funzionato, dice, ma poi si sono dovute prendere delle decisioni sulla base dei movimenti del vulcano, che erano imprevedibili.

“È la prima volta che in Europa un vulcano erutta all’interno di una zona abitata. L’Etna è attivo, però intorno non ci sono case. Ma il fatto è che qui non c’era il vulcano, non esisteva questa mole”, aggiunge indicando la montagna fumante.

Morcuende ha coordinato più di settecento persone che formavano un’équipe multidisciplinare in cui c’erano forze dell’ordine, medici, esperti in incendi forestali, volontari, geologi, fisici, la Croce rossa, componenti dell’unità militare di emergenza e del governo regionale, pompieri delle diverse isole, oltre a quelli della Palma e ai volontari arrivati dalla Spagna.

Piove senza tregua e noi restiamo sotto l’acquazzone, affascinati dal cratere a forma di ferro di cavallo che continua a espellere fumo

“Facevo la spola tra il posto di comando avanzato, il comitato scientifico e quello di direzione, che prendeva le decisioni”.

“In ogni caso, la gestione dell’emergenza è stata un successo”, dico.

“Per me sì”, ammette. “Nei limiti del disastro, ovviamente”.

“Cambierebbe qualcosa se potesse tornare indietro?”.

“Questo preferisco non dirglielo, ma è chiaro che dobbiamo cambiare delle cose nel piano speciale, dobbiamo perfezionarlo”.

Ed eccoci di nuovo in cima alla montagna della Laguna, con quella di Todoque alla nostra destra. Oggi piove. Piove senza tregua e noi restiamo sotto l’acquazzone, affascinati dal cratere a forma di ferro di cavallo che continua a espellere fumo.

“L’edificio vulcanico era instabile”, dice Morcuende. “Collassava e si ricostruiva costantemente, creando nuove fessure, perché la lava cerca il punto più debole della crosta. Questo fenomeno ha dato origine alla comparsa di diverse colate che poi si sono mosse verso la falda del vulcano appena nato, formando questa gigantesca macchia nera che si è divisa in diversi bracci”.

Un sogno profondo

In effetti si ha l’impressione che il vulcano appena nato abbia vomitato una bava nera come l’ala di un corvo. Il braccio nord della bava ha trascinato con sé la metà del nucleo della Laguna. La colata sud è arrivata al faro della Bombilla, trascinando con sé al suo passaggio il nucleo di Todoque e colpendo 1.400 persone. Si vede anche un corpo centrale. Fra questi tre bracci lavici sotto cui sono rimaste sepolte case, terreni e abitudini, si distinguono gruppi di case o serre risparmiati dalla colata, ma completamente inaccessibili. Le chiamiamo colate nord, centro e sud per semplificare, perché è successo anche che una colata si sia sovrapposta a un’altra. Insomma, si sono susseguite colate su colate in un disordine difficile da capire.

Vicino al punto in cui siamo, dove si può osservare simultaneamente la mappa della realtà e la realtà stessa, c’è un’auto con due persone con lo sguardo perso nel paesaggio, che forse sta provando a identificare il punto esatto in cui si trovava la loro casa. Le spazzole dei tergicristalli si muovono da una parte all’altra lasciando intravedere in modo intermittente i loro volti seri, come quelli di chi in un obitorio osserva un cadavere dall’altra parte del vetro.

“Le case della Bombilla e di Puerto Naos sono state sgomberate a causa dei gas. C’è un accumulo di anidride carbonica e, anche se in misura minore, di monossido di carbonio. L’anidride pesa più dell’aria, per cui prende il posto dell’ossigeno e l’atmosfera non è più respirabile, bisogna andarsene”, spiega Morcuende.

La calima, che qualcuno potrebbe confondere con la nebbia, è una specie di foschia fatta di sabbia, polvere, cenere e sali in sospensione. Alle Canarie è frequente in inverno, per il vento che arriva dal Sahara. Riduce in maniera più o meno evidente la visibilità, in base al grado di concentrazione delle particelle, e fa male alla salute sia fisica, perché rende difficile respirare, sia mentale, perché ti porta a immaginare di non respirare bene.

Oggi che c’è la calima ci siamo dati appuntamento alle tre del pomeriggio con Carmen López e un gruppo di tecnici dell’istituto geografico nazionale (Ign) per avvicinarci alla parte alta di Cabeza de Vaca, un punto privilegiato per l’osservazione del vulcano. López dirige l’osservatorio geofisico centrale dell’Ign. Ci ha dato appuntamento al rifugio del Pilar, dove lasciamo le auto per salire sui fuoristrada dell’istituto, dal momento che la cenere non consente di muoversi con altri mezzi.

Avanziamo su un terreno completamente nero e morbido, davanti a un paesaggio di montagna altrettanto nero su cui s’intravedono, sfumati dalla calima, i profili degli alberi neri. Questo nero, insieme alla scarsa visibilità, dà ai burroni che si aprono davanti ai nostri occhi l’aspetto di un girone infernale.

Spiega López: “Il vulcano è in fase posteruttiva, ma non significa che il processo magmatico sia terminato. Le isole vulcaniche hanno tre fasi: gioventù, maturità e smantellamento. Nella fase iniziale l’apporto di materiali è maggiore dell’erosione, e in quella finale l’erosione prevale sui nuovi materiali. Abbiamo una rete di sorveglianza per identificare i fenomeni precursori, prevederne l’evoluzione e determinare i diversi pericoli per tempo, per comunicarli alla protezione civile che poi dovrà rispondere attuando le misure più adeguate”.

“Quando è cominciato tutto questo?”, chiedo.

“I precursori precoci, in questo caso, sono stati sciami sismici a bassa intensità che si sono registrati dal 2017. Ci sarà ancora una certa sismicità, e le emissioni di gas non s’interromperanno durante il riequilibrio e il raffreddamento. La sismicità precede l’eruzione. È un processo che può cominciare mesi o anni prima, quando il magma pressurizzato si accumula nel punto in cui avverrà l’eruzione. Siamo in una fase di stabilizzazione che può durare anni. In questo periodo potranno esserci dei terremoti. È un’attività residua”, afferma.

Sotto le ceneri, prima della catastrofe c’era un sentiero forestale.

La Palma, 3 dicembre 2021 (Emilio Morenatti, Ap/Lapresse)

“Qui cadeva il fuoco”, dice López. “I corvi morivano di fame. Guarda i colori del vulcano”, aggiunge indicando la sua bocca. “Il giallo è per lo zolfo, il bianco per i carbonati e il rosso per il ferro”.

Scendiamo dalle auto – non possono proseguire – e camminiamo con difficoltà sulla cenere fino ad arrivare all’altezza della bocca del vulcano, a quattrocento metri di distanza. Nonostante la calima si vedono perfettamente le labbra del cratere, con il giallo, il bianco e il rosso di cui parla López. Esce una colonna di fumo costante, come se lì dentro ci fosse un gigante che fuma.

L’impressione generale è di essere in un altro mondo, quindi è difficile trovare paragoni efficaci. Tutto l’insieme ricorda più l’universo dei sogni che quello della veglia. Siamo tutti svegli, molto svegli, ma dentro un sogno molto profondo.

“Il terreno prima si spacca, poi si solleva”, spiega López. Il suolo di cenere non è del tutto uniforme, perché spuntano qua e là delle rocce grandi come palloni, se non di più. Sono chiamate “bombe vulcaniche”. I piroclasti emessi dal vulcano si suddividono per dimensioni e morfologia in ceneri, lapilli, bombe vulcaniche e scorie. In questo paesaggio, oltre alle ceneri e ai lapilli, abbondano le bombe vulcaniche, che sono schizzate fuori con tanta forza da essere state ritrovate a un chilometro di distanza.

Ogni tanto, in mezzo alla densità della calima, si apre una fessura da cui penetra il sole. Ma le nostre ombre non si riflettono a terra, perché il terreno è nero, come l’ombra. Quest’assenza mi fa venire in mente un romanzo in cui un uomo vende la sua ombra al diavolo convinto di aver fatto un grande affare. Presto scoprirà con orrore che si può vivere senza altre cose, ma non senza ombra. Lo stesso Peter Pan, che perde la sua all’inizio della storia, deve cucirsela ai piedi per non smarrire una cosa così preziosa e allo stesso tempo simbolica. Siamo un gruppo di sei o sette persone esposte ai pericoli morali che comporta il non trascinarci dietro o il non essere trascinati dalla nostra ombra.

“Ci sono nove punti di emissione che funzionano a intermittenza”, dice López, “perché questa è stata un’eruzione fissurale, non come quella del Teide. La morfologia dell’edificio vulcanico cambiava di continuo: aggiungeva e sottraeva. Alla fine quello che ha aggiunto è stato più di quello che ha sottratto”.

Paragoni che funzionano

Il sole tramonta come un disco d’argento in mezzo alla calima. Comincia a fare freddo perché siamo in alto e il vento si alza da qualche parte del sogno. James, il fotografo, si allontana seguendo le tracce di quello che un giorno doveva essere uno stretto sentiero forestale, e il suo profilo sembra un fantasma nella nebbia. Io resto con Carmen López, che mi descrive con pazienza infinita i diversi strati di cui è fatta la Terra. Noi – tu, lettore, e io – ci troviamo sulla crosta terrestre, che è la parte più esterna e rigida, il cui spessore varia a seconda del fatto che parliamo di zone di montagna o del fondo del mare. In ogni caso, la crosta terrestre è uno strato sottile se paragonato al mantello o al magma, lo strato che viene dopo ed è semisolido per via delle alte temperature. In questo strato succede qualcosa di simile a quando mettiamo una pentola d’acqua a bollire: l’acqua calda sul fondo sale e quella in superficie scende, provocando correnti convettive che muovono le placche litosferiche. Come abbiamo già detto, le placche sono rigide.

Quest’immagine del magma che agisce sulla crosta terrestre e provoca fenomeni vulcanici in grado di creare isole come questa in cui mi trovo ora mi ossessiona: mi ricorda il subconscio che, attraverso manifestazioni come il sogno e il lapsus, cerca delle fessure attraverso cui arrivare nel mondo cosciente.

La terrazza di una casa alla Palma, 30 ottobre 2021 (Emilio Morenatti, Ap/Lapresse)

Sto pensando a questo quando vedo Enrique Alonso, ingegnere esperto in geo­desia, una delle persone che ci hanno accompagnato. Su mia richiesta, Alonso mi spiega di nuovo quello che mi ha appena detto López. Non perché non mi fidi di lei, ma voglio sentirlo un’altra volta, come chi torna ossessivamente sul luogo del delitto. Mentre Alonso parla delle correnti convettive del magma assumo l’espressione di chi non capisce, un’espressione che mi viene naturale nelle situazioni in cui è richiesto di essere svegli, perché sono un po’ lento.

“Nel mantello ci sono diverse temperature che provocano la comparsa di correnti convettive. Il mantello più profondo sale e, se c’è molta pressione, rompe le zone più deboli della crosta terrestre e fuoriesce. Quello che arriva in superficie è il magma, che può essere più o meno denso a seconda della quantità di silicio che contiene. Qui alcuni giorni era più denso e altri meno”, spiega.

“Certo”, dico, perché penso di aver capito, ma devo aver mantenuto involontariamente l’espressione contraria. Infatti Alonso prosegue: “La crosta terrestre è composta da placche tettoniche che galleggiano e scivolano sul mantello, sfiorandosi, toccandosi e scontrandosi. Ora siamo sulla placca tettonica africana. La penisola iberica si trova su quella euroasiatica”.

“Certo”, ripeto senza cambiare la mia espressione da idiota, che a volte dà buoni risultati.

Pieno di pazienza didattica, Alonso ci riprova: “Immagina una ciotola con della crema”.

“Ci sono”, dico.

“Se ci metti sopra un biscotto, il biscotto galleggia e si sposta”.

“Giusto”, rispondo.

“Se la ciotola con la crema fosse molto grande e i biscotti fossero tanti, si muoverebbero e si scontrerebbero, toccandosi. È lo stesso rapporto che c’è tra la crosta terrestre e il magma”.

Il vulcano è spuntato praticamente nel mio giardino, vivevamo a cinquecento metri. Non hanno dovuto avvisarci. Siamo scappati di corsa

Credetemi: l’espressione da idiota, nei momenti giusti, serve a ottenere delle analogie illuminanti. Devo a questa espressione tutto quello che so perché la gente pensa, giustamente, di dovermi ripetere le cose sette volte.

È incredibile pensare che c’è stata un’epoca in cui la Terra non aveva una crosta, perché era solo gas, come il periodo in cui l’embrione umano non ha la pelle o non ha tutti gli strati e somiglia a una cartina per le sigarette in cui si vedono i capillari e i vasi sanguigni. Voglio immaginare che ci siano delle somiglianze tra la formazione della Terra e quella del corpo umano.

Enrique Alonso è uno dei componenti del gruppo di vigilanza vulcanica, composto da 43 persone tra fisici, matematici, chimici, ingegneri delle telecomunicazioni, ingegneri elettronici ed esperti in geodesia. Il vulcano è sottoposto a una stretta sorveglianza, da qualsiasi punto di vista. L’unità fu creata nel 2007 e quattro anni dopo, nel 2011, ci fu l’eruzione dell’isola di El Hierro.

Tre o quattro componenti del gruppo multidisciplinare con cui siamo arrivati fino a qui si allontanano verso il vulcano indossando mascherine, occhiali e tute di protezione speciali: raggiungono l’orlo del cratere per prendere nota delle sue emissioni. I loro profili svaniscono nella calima, come materiale solubile nell’acqua. La brezza porta un odore di acido solforico e cloridrico, caratteristico delle uova marce. È il momento di rientrare.

Il colore dominante

Valentina Fontecha dirige l’hotel Benahoare, a Los Llanos de Aridane, dove alloggiamo. Ha perso la casa tre giorni dopo l’inizio dell’eruzione.

“Il vulcano è spuntato praticamente nel mio giardino, vivevamo a cinquecento metri. Non hanno dovuto avvisarci. Siamo scappati di corsa. Non ci eravamo mai trovati in una situazione simile, non sapevamo cosa fare. Non sapevamo neanche di vivere in una zona vulcanica. C’erano terremoti da vari giorni. Non eravamo tranquilli. I cani erano agitati, ci stavano avvisando. Ho detto a mio marito: ‘Prendiamo la roulotte e andiamocene’. Non abbiamo avuto tempo di prendere altro. Era domenica. Molte persone che erano uscite a fare un giro non sono potute rientrare in casa. Avevano con sé solo la borsa. Dieci minuti dopo essere usciti, abbiamo visto l’esplosione. Mio marito ha detto: ‘Meno male che ti abbiamo dato retta’. Nei primi due giorni la lava ha circondato la casa. Il terzo giorno se l’è mangiata”.

Penso che sia stato come vedere un disastro al rallentatore.

“Per fortuna avevamo un’assicurazione sulla casa. Chi non era assicurato ha più problemi. Vivevamo lì da quindici anni: avevo le galline e gli alberi da frutto”.

“Cos’hai fatto con le galline?”.

“Le ho liberate. Ho preso i documenti più importanti. Non ho figli, non sono una persona materialista. Avevo anche dei cani seppelliti vicino alla casa, a cui abbiamo voluto molto bene”.

Risponde al telefono: “Non ho mai definito stronzo il vulcano”. Risponde a un’altra chiamata. Riattacca. “Stanno cancellando tutte le prenotazioni, perché nel nostro albergo vengono molti tedeschi e austriaci a fare trekking. Prima i nostri ospiti erano soprattutto camminatori, ora abbiamo l’hotel pieno di giornalisti. Dalla camera che occupi tu, la 26, si vedeva l’eruzione. Dal punto di vista lavorativo siamo andati avanti lo stesso, anche se c’erano camerieri o cameriere che avevano perso la casa”.

“Dove vivi ora?”.

“Nella roulotte con cui siamo scappati. Ho avuto questa fortuna. Ci muoviamo da una parte all’altra in base al clima e allo spostamento delle ceneri. L’assicurazione ci ha già pagato, ma comprare qualcosa oggi è complicato, i prezzi sono saliti molto. La cosa peggiore sono le case rimaste in piedi ma inaccessibili. I proprietari non possono essere risarciti, perché la loro casa è intatta. Alcune persone hanno mezza casa sotto la lava e mezza no. I periti dicono: ‘Vedremo’. C’è bisogno soprattutto di notai e di psicologi”.

Mi domando se in quest’ordine.

María del Mar Falcón lavora come centralinista al museo archeologico di Los Llanos. Non ha subìto danni per l’eruzione, ma poi, paradossalmente, ammette di essere esausta, dal punto di vista fisico e mentale.

“Le ceneri, i rumori, i gas, dover lasciare i bambini a casa”, dice con lentezza. “Il fumo ora è dovuto alla degassificazione, ma il Cumbre Vieja è un sistema vulcanico attivo. Vediamo cosa dicono i vulcanologi. La zona della costa è la più controllata, per via dei gas. Il vulcano era come un bambino capriccioso, che di giorno è tranquillo e di notte dice: vi faccio vedere io. Non si riusciva a dormire per le scosse e per il rumore. Tremavano i vetri delle finestre. A sud si è sentito più forte, ovviamente”.

Alcune zone sono rimaste sepolte sotto la cenere. È il caso di Las Manchas, che appartiene ai comuni di El Paso e di Los Llanos de Aridane, dove io e il fotografo passeggiamo (lui alla ricerca di un’immagine fotografica, io di un’immagine retorica), senza sapere se sotto ai nostri piedi ci sia della terra o qualche casa. Il vulcano fuma, forse è vapore acqueo, forse sono i gas della digestione. Sul terreno nero, a pochi metri, c’è un buco. Ci avviciniamo e con nostra grande sorpresa scopriamo una cucina in cui tutto è al suo posto. Ma è tutto nero: vediamo il lavello, le stoviglie di ceramica, gli scaffali con le bottiglie di olio e aceto, i barattoli di vetro con il riso, i fagioli, le spezie, la credenza con i piatti e i bicchieri. Il resto della casa è stato coperto dalla cenere; il tetto, tranne che in questo punto, deve aver resistito. Ci allontaniamo con cautela per paura che si apra un altro buco e ci faccia finire in una delle camere della casa.

Ci sono persone sui tetti rimasti allo scoperto che controllano lo stato degli edifici, a volte insieme ai periti delle assicurazioni. Ovunque si guardi ci sono rovina e desolazione di color nero.

Dalla finestra di una delle case si vede una donna che pulisce la cenere dal davanzale con un aspirapolvere. Dopo averlo spento, mi racconta che il giorno prima dell’eruzione c’era la luna piena.

“Ho detto ai miei figli: ‘Oggi il vulcano erutterà, speriamo che lo faccia di giorno’. Le finestre di casa tremavano da quattro giorni. La cenere è arrivata fino al secondo piano. Siamo dovuti entrare dalla finestra”.

“Cos’è quest’odore?”, chiedo.

“Zolfo. Però dicono che è meglio che si senta la puzza”. Poi aggiunge, guardando verso l’infinito: “Noi non abbiamo ricevuto nulla in eredità. Tutto quello che avevamo era il frutto del nostro lavoro, e ora…”.

Intorno a me tutto è nero, scuro. James Rajotte, il fotografo, mi regala l’immagine retorica che stavo cercando da quando ho messo piede sull’isola della Palma: “Questo paesaggio è come il negativo della fotografia di una stazione sciistica”.◆ fr

Juan José Millás è un giornalista e scrittore spagnolo nato nel 1946. I suoi libri sono tradotti in più di venti lingue. In Italia, tra gli altri, ha pubblicato Laura e Julio (Einaudi 2007) e Carta straccia (Passigli 2012).

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Questo articolo è uscito sul numero 1471 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati