Quando arrivo nei locali della cooperativa Gólya, la band Bozo sta finendo il sound check prima del concerto previsto tra poco. Il locale, ospitato in un ex stabilimento industriale dove si producevano tram, sta lentamente cominciando a riempirsi: c’è chi è venuto a prendersi una birra prima del concerto e chi, al bar al piano di sopra, aspetta l’inizio di un incontro sulla mitologia nel black metal. Qualcuno va a fumarsi una sigaretta sulla terrazza. Io, invece, faccio un salto in biblioteca, dove trovo, allineati uno accanto all’altro, libri di teorici di sinistra, di giardinaggio e fumetti giapponesi.
La cooperativa Gólya (cicogna) si è trasferita solo pochi anni fa ai margini del distretto più hipster di Budapest, l’ottavo. L’ultima volta che ero stato in città, nel 2018, il collettivo aveva occupato una casa abbandonata in un’altra zona del quartiere, dove gli effetti della gentrificazione erano già evidenti. Dopo qualche tempo l’edificio è crollato e Gólya ha dovuto trovare un nuovo nido. “Gli ungheresi sono un popolo nomade, quindi non c’è da meravigliarsi se i locali si spostano da una parte all’altra della città. Oggi sono qui, domani in un altro quartiere”, ride Gábor Hanzelik, il traduttore e docente universitario che mi fa da guida. Nel corso della serata scoprirò che il team di Gólya opera in modo non gerarchico e le persone si alternano nelle mansioni a seconda della necessità. “Una volta sei alla contabilità, quella dopo ti occupi della pulizia delle toilette”, dice Gábor.
Questo spazio autonomo alla periferia della città è un buon esempio di come i giovani ungheresi stiano affrontando le misure imposte dal governo di Viktor Orbán per mettere a tacere la cultura indipendente. Gli ultraconservatori di Fidesz sono al potere dal 2010 e hanno lentamente ma inesorabilmente occupato tutte le istituzioni culturali del paese. E controllano anche la distribuzione dei finanziamenti pubblici, che finiscono sempre nelle tasche di una manciata di fedelissimi. Alla cultura giovane e indipendente non resta che sopravvivere ai margini.
L’inventiva, in compenso, non manca. I ragazzi mi raccontano che di recente in città sono nati diversi spazi autogestiti. La maggior parte è concentrata nell’ottavo distretto, che vanta una solida tradizione alternativa, un municipio liberale e affitti relativamente bassi. In questi locali, che probabilmente non otterrebbero mai i permessi dalle autorità, si svolgono concerti, feste, conferenze, proiezioni di film, seminari. È lo stesso meccanismo che negli anni novanta portò alla nascita, nei cortili abbandonati del quartiere ebraico, dei famosi ruin bar, oggi ridotti a trappole per turisti.
“Nella cultura ungherese i bar non hanno una tradizione paragonabile a quella, per esempio, della Repubblica Ceca. Qui da noi, durante il socialismo, le persone s’incontravano soprattutto nelle case”, mi spiega Hanzelik. Gli spazi indipendenti di oggi ripropongono lo spirito di quelle serate. Il Riff, un locale sul lato di Pest del ponte Margherita, dove si concentra la comunità di fan del rock psichedelico e del metal, in passato era un bagno pubblico. Per entrare bisogna suonare il campanello e ottenere un via libera. In certi bar sotterranei, come il Kek Ló o il Kripta, si tengono feste di musica elettronica, ma per partecipare bisogna prima chiedere l’amicizia a un profilo semisegreto sulla loro pagina Facebook. Allo Zsír si va a ballare, e per bere una cosa al Keret Club è necessario diventare soci.
Tutti questi posti sono accomunati da una specie di spirito cospirativo, forse anche un po’ paranoico, che riflette la realtà dell’Ungheria di oggi. Ma se si riesce a entrare, ci si sente a casa. Resistere al regime di Orbán non significa doversi privare del divertimento.
Centralizzare e dominare
Attila Kleb è l’organizzatore di un festival jazz che si tiene a primavera in decine di posti in tutta la città: dai grandi teatri ai piccoli locali. Siamo seduti in un caffè vicino al magnifico viale Andrássy e mi racconta che una delle più grandi sale da concerto amministrate direttamente dal ministero della cultura ha interrotto il contratto con il festival improvvisamente e senza spiegazioni. L’amministratore nominato dal ministro ha assegnato l’edificio a un teatro musicale, con cui molto probabilmente ha dei legami. “Tutto è deciso da un ristretto circolo di persone. Se hai bisogno di qualcosa, devi avere gli amici giusti. Solo così si va avanti. C’è una forte gerarchizzazione, ma allo stesso tempo molta confusione”, dice Kleb, spiegando che i soldi spesi per la cultura sono più o meno gli stessi che in passato, solo che oggi finiscono nella tasche di pochissimi soggetti.
Nell’ultimo decennio si è formata una nuova classe di artisti e artiste disposti a sostenere il governo in cambio di vantaggi e favori. Spesso sono personaggi anziani, rispettati e conservatori, che difendono la loro posizione. Secondo Kleb questa “cultura di regime” è populista e produce solo kitsch. Così, mentre i contesti artistici più marginali fanno fatica a sopravvivere, nascono faraonici progetti statali, come la casa della musica ungherese, la Magyar Zene Háza. Progettata dall’architetto giapponese Sou Fujimoto a forma di fungo, è spuntata quattro anni fa nel Városliget, il principale parco di Budapest. L’operazione immobiliare ha anche costretto alla chiusura la storica sala da concerto Dürer Kert. La Magyar Zene Háza ospita installazioni artisticamente interessanti, come lo spazio sotterraneo del Sound Dome, ma il fatto che l’evento principale della prossima primavera sarà una mostra di oggetti provenienti dalla tenuta del cantante Freddie Mercury la dice lunga sulla direzione presa.
Quando Viktor Orbán ha personalmente inaugurato la Magyar Zene Háza, nel 2022, ha fatto un discorso molto aggressivo sull’importanza di conservare le tradizioni nazionali e contro la “burocrazia di Bruxelles”, che imporrebbe agli ungheresi immigrazione e politiche di genere. Non deve stupire, quindi, che i musicisti indipendenti si chiedano se partecipare o meno ai progetti in cantiere nella struttura.
Negli ultimi quindici anni il governo Orbán ha applicato il principio della centralizzazione in tutti i campi. Grazie a un potere quasi incontrastato, ha cambiato le regole del gioco politico, per esempio ridisegnando i collegi elettorali a proprio beneficio e prendendo il controllo dei mezzi d’informazione. Orbán non ha mai fatto mistero di voler usare la cultura per promuovere i valori tradizionali che devono distinguere l’Ungheria dall’occidente liberale, aperto e decadente.
Alle elezioni del 2010 Orbán ha conquistato una maggioranza parlamentare di due terzi, che gli ha permesso di cambiare la costituzione, ridefinendo la nazione come una comunità etnica di ungheresi aderenti alla tradizione cristiana europea. Da allora le istituzioni educative e artistiche devono adeguarsi a quest’ideale di nazione. Le seconde, in particolare, sono sotto la rigida supervisione dell’Accademia ungherese delle arti e del Fondo culturale nazionale, istituiti dal nuovo regime. Sono loro a distribuire i fondi agli artisti che dimostrano lealtà ideologica.
Altrettanto efficace è stata la tattica di consegnare le istituzioni culturali statali, come i teatri, nelle mani di privati legati a Fidesz. In questo modo le decisioni sono prese senza gare d’appalto e supervisione pubblica. Questo modello di privatizzazione si applica anche alle università, che nel 2021 sono passate sotto il controllo di fondazioni guidate da persone di fiducia di Orbán, spesso nominate con cariche a vita. Questo garantisce che la linea ideologica di Fidesz sarà seguita anche se in futuro il partito dovesse perdere il potere.
Tuttavia, un’istituzione su cui la comunità culturale alternativa può contare c’è ancora: è il comune di Budapest. Lo conferma Attila Kleb, il cui Jazzfest Budapest sopravvive esclusivamente grazie all’appoggio dell’attuale sindaco, Gergely Karácsony, che ha vinto le elezioni locali del 2019, un anno dopo una serie di grandi proteste antigovernative. Con il tempo il sindaco è diventato uno dei volti più noti del movimento d’opposizione Insieme per l’Ungheria, che alle politiche del 2022 si è presentato unito contro Orbán. Il suo candidato, tuttavia, è stato sconfitto. Budapest rimane quindi l’ultimo baluardo progressista del paese, ma il governo sta riducendo in ogni modo le sue entrate. Il risultato è che la città è sull’orlo della bancarotta.
Sia che percorriate i larghi viali di Pest o le strade collinari di Buda, in qualche modo avrete sempre davanti a voi la sagoma del parlamento ungherese, lungo il Danubio. Il monumentale edificio neogotico di piazza Kossuth è stato costruito all’inizio del novecento, appena trent’anni dopo la fondazione ufficiale di Budapest, nata dalla fusione di Pest, Buda e Obuda. Con la sua imponenza, è come se il parlamento volesse ricordare ai visitatori che la politica è al di sopra di ogni cosa.
Le immagini del Pride di giugno a Budapest hanno fatto il giro del mondo
L’estate dello scontento
Il poster in cui la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen manovra delle marionette sorridendo diabolicamente l’ho notato per la prima volta mentre ero in tram e stavo andando nel quartiere di Kelenföld, nella parte meridionale di Buda, famoso per i suoi palazzi brutalisti.
In centro, dove si concentrano i turisti, manifesti simili non si vedono, ma nei quartieri periferici la propaganda del governo è ovunque. “I burattinai di Bruxelles vogliono aumentare le tasse” si legge sotto l’immagine di Von der Leyen. Anche se non c’è un simbolo di partito, è abbastanza chiaro chi ha messo il manifesto. E a chi si rivolge.
Agli occhi di Orbán e Fidesz, “Bruxelles” è il nemico universale della nazione, a cui attribuire ogni male. È così dall’estate del 2015, quando il primo ministro decise di fermare alle frontiere i profughi diretti in Germania, costruendo un recinto di filo spinato. La propaganda se la prende esplicitamente con la città che ospita le istituzioni europee, ma Orbán non nomina più l’Unione europea, che rimane molto popolare tra gli ungheresi. Essere burattini manovrati da Bruxelles significa essere traditori della nazione.
Nella mia settimana a Budapest m’imbatto per due volte in manifestazioni antigovernative: una, con migliaia di persone, si svolge di domenica di fronte al parlamento; l’altra, pochi giorni dopo, è un corteo di un centinaio di persone lungo il viale Andrássy. Oltre a quelle ungheresi, si vedono sventolare anche le bandiere dell’Unione europea.
Grazie a un potere incontrastato, Fidesz ha cambiato le regole del gioco politico
Il governo sa di poter contare su una visione semplificata e polarizzata del mondo e del ruolo dell’Ungheria nella politica internazionale. Una decina d’anni fa Orbán ha cavalcato l’ostilità verso gli stranieri, e all’occorrenza continua a sfruttare il trauma storico dell’umiliazione subita da Budapest con il trattato del Trianon del 1920 (quando l’Ungheria perse due terzi dei suoi territori) e con l’occupazione sovietica del 1956. Fidesz usa l’arma della memoria storica per suggerire agli ungheresi che l’unica cosa su cui possono contare è l’orgoglio nazionale. Finora ha funzionato.
Parlo di questi temi con Katalin Erdődi, drammaturga e attuale direttrice dello spazio multidisciplinare Trafó, che fa delle interessanti precisazioni sulla distribuzione dei finanziamenti alla cultura. Il nazionalismo di Orbán – mi dice – è solo un alibi ideologico per nascondere interessi molto più pragmatici. “Non c’è una visione globale della cultura, le scelte sono dettate dal risentimento e dalle guerre culturali. Alcuni protagonisti del mondo della cultura avevano l’impressione di essere stati emarginati dal precedente governo di centrosinistra. Adesso sono tornati in scena”, dice Erdődi. Più che promuovere l’arte nazionale o tradizionale si tratta di difendere il territorio conquistato e guadagnare potere. “Questa lotta per l’egemonia mi fa pensare alla Russia, dove le voci critiche sono state completamente messe a tacere”.
Gli artisti che scelgono di non sostenere il regime sono condannati alla precarietà. Erdődi racconta la storia di una sua conoscente, un’attrice diventata famosa grazie ai film indipendenti, che ha rifiutato di lavorare per l’industria cinematografica ufficiale, totalmente in mano al governo. Fare una scelta del genere significa “vivere nell’insicurezza, perché la cultura indipendente è priva di mezzi”, dice Erdődi. Quando si vive in una situazione di precarietà per via delle proprie posizioni politiche, è difficile essere solidali con gli altri, perché si deve lottare quotidianamente per un tozzo di pane. Questo succede nei regimi autoritari.
Quando, nel 2023, in Slovacchia il partito del premier sovranista Robert Fico ha cercato di seguire le orme di Orbán e di prendere in mano il controllo della cultura, a Bratislava ci sono state grandi proteste. Dopo il 2010 anche a Budapest sono state organizzate diverse manifestazioni per l’indipendenza della cultura, ma non si sono mai trasformate in un movimento strutturato, fa notare Erdődi. “Orbán procede in modo mirato, un passo alla volta. Quando Fidesz ha preso il controllo della galleria d’arte Műcsarnok e del museo Ludwig, le proteste si sono limitate all’ambito delle belle arti. Poi si è concentrato sui teatri. E lo stesso ha fatto con le università. Questa strategia divisiva ha impedito che le proteste si trasformassero in un movimento unitario, com’è successo in Slovacchia”. Inoltre, le nuove complesse leggi sulla cultura hanno una scarsissima risonanza fuori Budapest.
Le cose, però, si stanno muovendo. Le immagini dell’enorme partecipazione al Pride di giugno a Budapest, non autorizzato dal governo, hanno fatto il giro del mondo. E poi c’è stato il festival musicale di Sziget, ad agosto, accompagnato da slogan apertamente antigovernativi. Infine, anche diversi artisti famosi hanno cominciato a farsi sentire, come il rapper Majka: la sua canzone Csurran, cseppen (Gocciola, gocciola), che prende di mira la corruzione nella politica ungherese, ha raccolto milioni di visualizzazioni su YouTube. C’è chi ha parlato di “estate dello scontento”.
◆Le prossime elezioni legislative ungheresi sono previste nell’aprile 2026. Per la prima volta in quindici anni, in testa ai sondaggi non c’è il partito nazional-conservatore Fidesz, del primo ministro Viktor Orbán, ma la formazione di centrodestra Tisza (Partito del rispetto e della libertà), guidata da Péter Magyar, con il 45 per cento delle intenzioni di voto.
◆Il 28 novembre Orbán è stato in visita a Mosca, dove ha incontrato il presidente russo Vladimir Putin per la seconda volta dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, nel febbraio 2022. Il premier ungherese si è assicurato nuove forniture di gas e petrolio russo e un prestito per completare la costruzione della centrale nucleare Paks2, realizzata in collaborazione proprio con Mosca. Viktor Orbán è inoltre tornato a proporre l’organizzazione di un vertice a Budapest sulla guerra in Ucraina, con Vladimir Putin e il presidente statunitense Donald Trump.
Questa nuova ondata di proteste è senza dubbio alimentata dal fatto che per la prima volta Viktor Orbán ha un rivale politico temibile. Si tratta di Péter Magyar, un eurodeputato di 44 anni che guida il partito Tisza (Rispetto e libertà) e al momento è in testa ai sondaggi. Le prossime elezioni, in programma per l’aprile 2026, potrebbero minacciare il dominio del primo ministro. Allo stesso tempo, però, la maggior parte delle persone con cui ho parlato non ha un’idea precisa di Magyar. Fino a due anni era un dirigente di Fidesz. E usa le stesse tattiche populiste di Orbán, con le quali riesce a fare quello che l’opposizione non ha mai fatto: conquistare gli ex elettori di Orbán nei piccoli centri e nelle aree rurali. Il risultato del voto è difficile da prevedere, ma potrebbe anche succedere che Orbán non convochi affatto le elezioni, magari usando l’alibi del conflitto tra Ucraina e Russia.
Dubbi e domande
Guardando o ascoltando le interviste fatte a Orbán alla tv e alla radio pubbliche da giornalisti troppo compiacenti, in cui il premier può parlare di qualsiasi argomento, mi torna in mente la televisione cecoslovacca degli anni della “normalizzazione”, dopo la fine della primavera di Praga del 1968. Secondo i miei amici ungheresi la propaganda è veicolata anche da riviste e giornali, in gran parte controllati da Fidesz. La cerchia di Orbán ha in mano pure le librerie, cosa che rende difficile far circolare opinioni diverse. L’opposizione è attiva soprattutto sul web.
Gli ungheresi devono leggere tra le righe e stare attenti a ciò che dicono in pubblico, come succedeva durante il regime comunista, che comunque negli anni ottanta in Ungheria era un sistema relativamente aperto. Questo ha fatto sì che nel 1989 una cesura netta non ci sia stata. Nei primi governi democratici c’erano politici che avevano occupato cariche durante il regime.
Il “comunismo gulasch” di quegli anni oggi è celebrato nello storico ristorante Kádár Étkezde, riaperto di recente, dove ai tavoli coperti da tovaglie cerate a quadri si possono ordinare i piatti tradizionali degli anni settanta e ottanta. Le pareti sono tappezzate con foto tratte da riviste d’epoca, che evocano il senso di rassicurante stabilità del periodo precedente al 1989, quando il regime chiedeva una sola cosa ai cittadini: non preoccupatevi della politica. Orbán, però, ha obiettivi diversi. Per sopravvivere deve alimentare continue guerre culturali e costringere i cittadini a decidere da che parte stare. A suo sfavore, però, oggi c’è il fatto che l’economia è in crisi e che nelle casse dello stato mancano i fondi europei, bloccati da Bruxelles. L’inflazione continua a crescere, come gli affitti. A far crollare il governo potrebbe essere proprio questo.
“Forse ci concentriamo troppo su ciò di cui vorremmo sbarazzarci e c’interessiamo poco a quello che dovrebbe arrivare dopo”, dice Katalin Erdődi, tornata in Ungheria dopo undici anni in Austria. L’esodo di giovani talenti all’estero è stato un problema evidente negli ultimi dieci anni, che nemmeno la propaganda di Fidesz ha potuto nascondere. Ma da un po’ di tempo si assiste alla tendenza opposta: i trentenni stanno tornando, perché magari hanno ereditato una casa o forse perché desiderano esserci quando cadrà il regime di Orbán. Ma succederà davvero?
Le persone con cui ho parlato a Budapest ammettono di non riuscire a immaginare il futuro del paese. L’Ungheria vuole davvero rinunciare all’attuale regime per tornare alla situazione, quasi altrettanto complicata, di quindici anni fa? Anche se Orbán dovesse cadere, rimarrebbero comunque in piedi la costituzione, le leggi e la rete di istituzioni che ha costruito con tanta cura. Inoltre, come farà un paese di dieci milioni di persone, decimato dalla fuga di intere generazioni, a trovare una nuova classe intellettuale capace di costruire un futuro diverso da quello nazionalconservatore? Più che certezze, l’Ungheria di oggi offre soprattutto domande. ◆ ab
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Questo articolo è uscito sul numero 1643 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati