Da quasi due anni gli abitanti del pianeta sono stretti nella morsa di una pandemia, che non è la stessa per tutti. Nel mondo ricco il covid-19 è diventato una delle prime cause di morte. Nei paesi poveri, invece, la principale macchina di distruzione non è la malattia, ma i suoi effetti collaterali, cioè le misure che sono state prese, da loro e da noi, per frenare la diffusione del nuovo coronavirus. I paesi ricchi e quelli poveri hanno vulnerabilità diverse.

Parlare con i miei familiari in Ghana, Nigeria e Namibia mi ricorda quali possono essere le ricadute di un evento globale su realtà locali dove la vita quotidiana e i mezzi di sostentamento sono colpiti in modo diverso che in Europa e negli Stati Uniti. Succede nell’economia e nella scuola, ma anche nella sanità pubblica. E in tutti questi campi spesso sono in gioco la vita e la morte.

Nei tre paesi africani che ho citato l’età mediana è compresa tra i 18 e i 22 anni, e sappiamo che la malattia discrimina fortemente in base all’età. Tuttavia il covid-19 può uccidere anche ostacolando gli sforzi compiuti per arginare altre malattie, come l’aids, la malaria e la tubercolosi. In Africa 26 milioni di persone devono fare i conti con l’hiv, e in un anno normale ne muoiono centinaia di migliaia. La malaria, che è particolarmente letale per i bambini sotto i due anni, causa la perdita di 400mila vite all’anno.

Sono numeri grandi, eppure in passato lo erano molto di più: un enorme impegno in campo sanitario li ha fortemente ridotti. Ma durante la pandemia le persone hanno smesso di andare a farsi visitare negli ambulatori, anche perché è più difficile arrivarci. A loro volta, gli operatori sanitari hanno limitato i loro spostamenti. Secondo un sondaggio condotto in 32 paesi dal Fondo globale per la lotta all’aids, alla tubercolosi e alla malaria, tra l’aprile e il settembre 2020 le visite ai centri di cura prenatali sono diminuite di due terzi, e le visite ai bambini di meno di cinque anni sono calate di tre quarti.

Gli esperti di salute pubblica prevedono che il numero di persone che rischiano di morire di malaria nel mondo potrebbe raddoppiare per effetto indiretto della pandemia. Nei prossimi anni potremmo registrare 400mila morti in più per la tubercolosi e mezzo milione in più per l’aids. In buona parte del mondo la risposta al covid-19 ha scatenato una pandemia ombra. Il vero costo in vite umane non è solo quello delle vittime della malattia, ma anche delle morti per altre patologie che avremmo potuto evitare.

Nei paesi ricchi la malattia ha ucciso le persone anziane. Nei paesi in via di sviluppo le difficoltà economiche hanno ucciso i poveri

Quest’altra pandemia non è solo una storia di malattie, ma anche una storia di povertà, fame, percorsi di studio interrotti e vite umane schiacciate. Un paragone utile si può fare con la crisi climatica. Nel mondo ricco alcuni pensano all’emergenza climatica come al problema di quanto tenere accesa l’aria condizionata, ma nei paesi poveri è già una questione d’inondazioni, siccità e carestia. Queste disparità tra il nord e il sud del mondo saranno probabilmente un elemento caratterizzante delle prossime crisi. La storia delle due pandemie è la storia di due realtà internazionali. La sfida del periodo postpandemico sarà prendere sul serio il concetto di “comunità internazionale” e integrare le due realtà.

Senza paracadute

Anche nei paesi ricchi l’economia è stata messa a dura prova dalla pandemia. Ma in questa parte del mondo si sono potute spendere somme enormi per attenuare le difficoltà finanziarie provocate dai lockdown e dai protocolli di distanziamento sociale. I paesi a basso reddito non hanno risorse paragonabili. Prendere soldi in prestito è costoso e le possibilità di prelievo fiscale nell’economia formale sono estremamente limitate. Nazione dopo nazione e villaggio dopo villaggio, c’è ben poco per attutire il colpo.

Alcuni mesi fa un gruppo di ricercatori ha condotto dei sondaggi tra i nuclei familiari di nove paesi poveri in Africa, America Latina e Asia per capire com’è cambiato il loro tenore di vita durante la pandemia. In questi paesi dalla popolazione relativamente giovane, le conseguenze del covid-19 sulla salute delle persone sono state meno gravi che negli stati più ricchi (e invariabilmente più anziani). La loro vulnerabilità economica, però, è decisamente maggiore. Nelle famiglie in genere c’è stata una diminuzione dei guadagni, tra chi ha perso il lavoro e chi ha difficoltà a vendere le proprie merci. In Kenya metà delle famiglie rurali intervistate ha dovuto saltare i pasti o ridurli; in Sierra Leone la percentuale sfiora il 90 per cento.

Quando la pandemia è arrivata in India, 140 milioni di lavoratori migranti sono rimasti senza lavoro e sono stati rispediti ai loro villaggi, mettendo in una situazione spaventosa i familiari che dipendevano da loro. “Per quelli che se la cavano a stento”, ha detto l’economista Jean Drèze, che vive in India e ha osservato in prima persona quello che succedeva, “il lockdown è quasi una condanna a morte”.

In tutto il mondo, il numero delle persone in condizioni di povertà estrema è aumentato per la prima volta dal 1997, e gli analisti non prevedono un rapido recupero quando la crisi sanitaria sarà passata. L’Africa si aspettava una crescita economica del 3,2 per cento nel 2020. Si stima che sia stata dello 0,8 per cento. Con un tasso di crescita della popolazione intorno al 2,5 per cento, per molti questo si traduce nell’avere meno da mangiare e per altri in malnutrizione. Nei paesi ricchi le conseguenze mediche del covid-19 hanno ucciso le persone anziane. Nei paesi in via di sviluppo le conseguenze economiche della malattia hanno ucciso i poveri.

Taleni Ngoshi, un’imprenditrice della Namibia di 32 anni, definisce la situazione in termini molto precisi: “Il divario tra ricchi e poveri nel mio paese è enorme e la linea di demarcazione tra la classe media e i poveri è diventata molto sottile”. Ngoshi fa parte del popolo ovambo, nel nord della Namibia, ed è nata in un villaggio dove non arrivava l’elettricità. Ha trovato lavoro in un asilo e ha scoperto di avere il pollice verde. A Windhoek, la capitale del paese, ha lanciato una piccola impresa di servizi di giardinaggio. Le storie come la sua contribuiscono a spiegare perché poco più di una decina d’anni fa la Banca mondiale aveva riclassificato la Namibia da paese a reddito medio-basso a paese a reddito medio-alto.

Con la pandemia gli affari di Ngoshi si sono fermati: gran parte dei suoi clienti abituali ha rinunciato al suo aiuto per evitare i contatti con estranei. Molte persone che conosce hanno perso, oltre al lavoro, la casa e l’automobile. Il modesto stipendio da dipendente pubblico di suo marito serve a mettere qualcosa in tavola, ma lei è preoccupata per i suoi tre collaboratori part-time, e per le sei-sette persone che dipendono da ognuno di loro.

Le storie sono diverse da un posto all’altro, ma si somigliano. Un paese a basso reddito come il Mozambico, considerato lo stato africano più vulnerabile ai cambiamenti climatici (nel 2019 gli eventi meteorologici estremi sono costati miliardi di dollari al governo di Maputo), ha subìto una contrazione economica per la mancata vendita delle sue materie prime sui mercati internazionali in difficoltà e, ovviamente, per il crollo del turismo. In Kenya, un paese a reddito medio-basso dove nel 2020 il pil è diminuito per la prima volta in trent’anni, milioni di famiglie vicine alla soglia di sussistenza hanno sofferto gravemente. Le donne sono state particolarmente colpite, perché spesso lavorano nel commercio al dettaglio, nell’ospitalità e nel turismo. Le perdite globali del settore turistico sono stimate in ottomila miliardi di dollari.

Alla scuola primaria per bambine Azenab, a Wiaga, Ghana, 27 ottobre 2021  (Natalija Gormalova, Book Aid International www.bookaid.org, con un ringraziamento ad AfriKids)

Ma per avere una percezione più esatta di come la pandemia abbia scosso il Kenya, bisogna tener presente che tra i suoi principali prodotti d’esportazione ci sono i fiori: gigli, garofani e rose. Di fatto negli ultimi anni il Kenya si è affermato come il maggiore esportatore di rose nell’Unione europea, coprendo quasi il 40 per cento del mercato. La floricoltura dà lavoro a due milioni di keniani. Intorno al lago Naivasha, a un’ora di auto da Nairobi e a quasi 1.800 metri sul livello del mare, sorgono decine di grandi aziende che coltivano fiori. È una zona soleggiata e con abbondante acqua per l’irrigazione. Nonostante le emissioni generate dal trasporto, l’impronta ecologica di questi prodotti è più bassa di quella dei fiori coltivati nelle serre riscaldate nei Paesi Bassi.

Nell’ultimo anno e mezzo le vendite sono crollate. Il distanziamento sociale ha significato meno cerimonie – matrimoni, funerali, celebrazioni di ogni tipo – e dunque meno fiori. Milioni di rose sono finite al macero quando la gran parte degli ordini è stata cancellata. I lavoratori sono stati messi in aspettativa o hanno ricevuto salari ridotti.

Nell’Africa occidentale – in Ghana e in Costa d’Avorio in particolare – è successo lo stesso con il cacao. Gli alberi di cacao sono esigenti in fatto di temperatura, umidità e terreno, e ampi tratti di questi paesi hanno il terreno ideale. Insieme i due paesi coprono circa i due terzi delle forniture globali di cacao, che è il principale prodotto d’esportazione ivoriano. In Ghana, le esportazioni d’oro e petrolio hanno un valore monetario più alto, ma non hanno la stessa importanza per il paese perché questi due settori impiegano meno persone e creano meno entrate per lo stato. Gli economisti calcolano che fino a un terzo della forza lavoro del Ghana dipenda direttamente o indirettamente dal cacao.

Durante la pandemia il consumo di cioccolato è diminuito. Non il mio, e forse non il vostro, ma quello venduto nei negozi al dettaglio e dai distributori automatici, per regali o acquisti impulsivi: la confezione che prendi al volo all’aeroporto, la tavoletta di KitKat che implora di essere liberata dalla sua prigione di plexiglass. Poi c’è tutto il cioccolato che si compra per Natale, Pasqua e halloween. E in questo caso, che non è stato comprato quando le feste non sono state celebrate.

Le turbolenze del cambiamento climatico sono come quelle del covid-19, ma al rallentatore. Il prezzo lo paga chi non se lo può permettere

La tentazione dell’autarchia

Il Ghana e la Costa d’Avorio avevano entrambi grandi progetti per il 2020. Hanno commissioni statali incaricate di comprare e di vendere il raccolto di cacao e avevano concordato di imporre un sovrapprezzo sulle esportazioni pari a 400 dollari alla tonnellata. Era stato ribattezzato “differenziale per un reddito di sussistenza” e avrebbe dovuto aiutare gli agricoltori. L’industria del cioccolato ha un giro d’affari di 130 miliardi di dollari all’anno, ma solo una minima percentuale finisce ai milioni di piccoli produttori dell’Africa occidentale. Che non se la passano bene: in media, ognuno di loro coltiva circa tre ettari e mezzo di terreno, e deve mantenere sei o più familiari. È un lavoro duro. Gli alberi possono essere bruciati dal sole e i semi sono contenuti in frutti grandi quasi come una palla da rugby. Ci mettono mesi per maturare, e in questo arco di tempo rischiano di essere colpiti da insetti infestanti e da altri patogeni, come il parassita che causa la “malattia del baccello nero”. Negli ultimi cinque anni un altro fitovirus che colpisce queste piante ha costretto a distruggere centinaia di migliaia di ettari di alberi. Molti agricoltori sbarcano a malapena il lunario. Un rapporto dell’Unicef del 2018 ha calcolato che un coltivatore di cacao dell’Africa occidentale guadagnava in media tra gli 0,50 e gli 1,25 dollari al giorno. Quando mio padre era un parlamentare in Ghana negli anni sessanta mi parlava spesso dei coltivatori di cacao rovinati dalla commissione governativa che fissa i prezzi.

Oggi molti coltivatori sono spesso persone di mezz’età, perché i loro figli, vedendo quant’è dura la vita dei genitori, cercano altri modi di guadagnare. Nel 2019, all’annuncio del programma del “differenziale per un reddito di sussistenza”, i coltivatori aumentarono la produzione sperando di accrescere le entrate. Invece si sono ritrovati con una grande quantità di semi che non erano in grado di conservare. Quando il covid-19 ha messo in crisi il mercato della cioccolata, i compratori occidentali hanno sospeso gli ordini. Gli intermediari locali, noti come pisteur, hanno preteso forti sconti per ritirare i semi dai coltivatori.

Fiori che appassiscono, cacao che marcisce: sapendo come i sistemi del commercio internazionale hanno maltrattato il sud del mondo, non sorprende che alcuni consiglino di sottrarsi a questi meccanismi. Tra gli studiosi africani e asiatici suscitano un rinnovato interesse le tesi dell’economista franco­egiziano Samir Amin, morto nel 2018, a favore della déconnexion, cioè la disconnessione da un ordine ingiusto in cui sviluppo e sottosviluppo sono solo due facce della stessa medaglia.

Amin, che aveva lavorato a lungo in Senegal, sosteneva che lo sviluppo dev’essere “nazionale e popolare” e mirare a una maggiore autonomia, o a quella che definiva una strategia di autosufficienza. A suo giudizio, una vera indipendenza politica esigeva l’indipendenza economica. Anche se negava che i suoi piani si spingessero fino all’autarchia – l’autosufficienza assoluta – insisteva che le “relazioni esterne” di un paese dovevano rispondere alle esigenze dello sviluppo interno: una versione moderata dell’autarchia.

Purtroppo, l’esperienza postcoloniale dei paesi africani che hanno tentato qualcosa di simile, come la Guinea sotto il leader autoritario Ahmed Sékou Touré, non è incoraggiante. Di fatto, la storia della crescente interdipendenza globale è anche una storia di maggiore uguaglianza tra le nazioni. Stando alle classificazioni ufficiali della Banca mondiale, negli ultimi vent’anni più di trenta paesi sono passati dalla categoria del reddito basso a quella del reddito medio.

Il ventunesimo secolo ha portato progressi enormi nel paese della mia infanzia. In Ghana il pil procapite è quintuplicato tra il 2002 e il 2016. Negli ultimi anni la maggior parte delle economie in più rapida crescita è stata africana. Molti scossoni economici causati dalla pandemia sono a breve termine: il mercato dei fiori e quello del cioccolato – come quello del legname e della bauxite – si stanno risollevando.

Ma ci sono comunque lezioni da trarre dalla vulnerabilità del sud durante la pandemia. La prima è che, se ignorano le realtà del mercato o non affrontano gli ostacoli internazionali, i programmi di sviluppo nazionale autogestiti non funzionano. Il rompicapo del cacao ghaneano è un esempio significativo. Nel febbraio 2020 il presidente del Ghana, Nana Akufo-Addo, è andato in Svizzera per annunciare che il suo paese non sarebbe più stato dipendente dall’esportazione di materie prime perché avrebbe cominciato a produrre cioccolato e a risalire la catena produttiva, librandosi in volo come l’aquila, il simbolo nazionale.

Un paio di generazioni fa i leader ghaneani erano impegnati ad avviare l’industria dell’acciaio: secondo loro era quella la modernizzazione. Akufo-Addo lega le sue speranze a barrette di un altro genere. Perché il Ghana non dovrebbe avere grandi fabbriche come quella del Toblerone, con vasche a temperatura controllata, nastri trasportatori e macchine incartatrici? È vero che il paese non ha un’industria lattiero-casearia e che la produzione di zucchero lascia a desiderare, ma i semi di cacao sicuramente non mancano.

Faustina Adocta, 15 anni, prende l’acqua dal pozzo a Wiaga, Ghana, 28 ottobre 2021  (Book Aid International www.bookaid.org, con un ringraziamento ad AfriKids, 2)

Eppure il Ghana, come molti paesi meno industrializzati, è stato bloccato da esigenze e interessi in conflitto. Un recente articolo di un’economista della Scuola di studi orientali e africani (Soas) di Londra e di un analista del cacao che vive ad Accra lo spiega bene. Poiché la banca centrale del Ghana ha bisogno di dollari statunitensi (riserve di valuta estera), la commissione statale per il cacao deve vendere il prodotto alle multinazionali.

Allo stesso tempo il paese soffoca la produzione locale imponendo una tassa del 60 per cento sulle vendite interne di cioccolato e su altri prodotti semifiniti a base di cacao. Sono previste esenzioni fiscali per le aziende che esportano gran parte della produzione, ostacolando quelle che potrebbero acquisire competenze e capacità sviluppando i mercati locali. Tutti questi retaggi contrastano con la speranza di Akufo-Addo di risalire la catena produttiva.

Circolo vizioso

Ci sono altre difficoltà. Un sistema di proprietà della terra molto frammentato rende difficile per i piccoli coltivatori avere il pieno possesso delle loro fattorie. In Ghana molti terreni sono nelle mani dei capi tradizionali, per questo la riforma agraria è un problema immenso e immensamente complicato. E in Africa occidentale la resa dei raccolti di cacao è migliorata ben poco nell’ultimo secolo. Ora ci sono programmi che promuovono metodi di coltivazione più avanzati e sostenibili – compresa la cosiddetta “irrigazione intelligente” – ma sono stati avviati tardi.

Questi dilemmi sono tipici dei paesi in via di sviluppo. In tutta l’Africa e l’America Latina gli stati hanno economie organizzate intorno all’esportazione di materie prime legate alla pesca, all’agricoltura o all’industria mineraria. In gran parte dei casi, la lavorazione di questi prodotti prima della vendita è minima: il valore aggiunto è scarso. È molto diffusa l’imprenditoria di sussistenza, accompagnata da un’alta vulnerabilità associata al lavoro informale e ai bassi tassi di risparmio. Nel frattempo la crisi climatica peggiora tutto. Quando l’agricoltura è inefficiente impiega più terra, questo aggrava la deforestazione, che aggrava i cambiamenti climatici, che aggrava l’inefficienza dell’agricoltura. L’harmattan, il vento stagionale dell’Africa occidentale – caldo, asciutto e polveroso –, è diventato più forte e invadente negli ultimi vent’anni. Di fatto, le turbolenze della crisi climatica sono come quelle del covid-19, ma al rallentatore. Il prezzo lo paga sempre chi non se lo può permettere.

Timothy Nsobila e Bright Attiah a Gowrie, Ghana, 25 ottobre 2021 (Natalija Gormalova)

Nella pandemia ombra del sud del mondo, le conseguenze più durature potrebbero riguardare istruzione e competenze, quello che gli economisti chiamano il capitale umano. La chiusura delle scuole è stata un problema grave ovunque. In tutto il mondo, 1,6 miliardi di studenti hanno interrotto le lezioni. Ma le aule dell’Africa sono state chiuse più a lungo rispetto alla media mondiale, e questo è un continente dove l’età mediana è inferiore a vent’anni. I paesi a basso reddito, dicono i ricercatori della Banca mondiale, “potrebbero perdere più di tre anni dei loro investimenti nell’istruzione di base”, e questo comporterà una perdita altrettanto grande di guadagni futuri.

Per molte famiglie il problema non è l’accesso a internet, ma l’elettricità. Tra aprile e agosto dell’anno scorso, l’ong statunitense Human rights watch (Hrw) ha condotto interviste in tutta l’Africa scoprendo che molti bambini non ricevevano nessun tipo di istruzione. Anche se c’erano le lezioni online e uno dei genitori aveva un telefono, il traffico di dati a loro disposizione spesso non era sufficiente per ascoltarle. Un adolescente di Garissa, in Kenya, ha detto ai ricercatori di Hrw che le lezioni erano trasmesse da una radio locale, ma lui non aveva la radio.

Quando le scuole chiudono, spiegano i ricercatori, le ragazze sono colpite con particolare durezza. Rischiano di incorrere in matrimoni e gravidanze precoci, abusi domestici e sfruttamento della manodopera minorile. Per tutti questi motivi, oltre al fatto che alle ragazze è sistematicamente chiesto di provvedere alla cura dei bambini e ai lavori domestici, i ricercatori dell’Unesco temono che undici milioni di bambine in tutto il mondo non tornino più a scuola. È un altro esempio delle conseguenze a lungo termine del covid-19.

A nudo

Questa disparità di genere è preoccupante per vari motivi. Si calcola che i salari delle donne crescano dell’11,5 per cento per ogni anno di scuola che hanno frequentato, una percentuale più alta di due punti rispetto agli uomini. Come ha osservato una volta l’economista statunitense Lawrence Summers, “nel mondo in via di sviluppo l’investimento nell’istruzione delle ragazze è probabilmente quello che frutta di più”. Quando le donne sono più istruite hanno meno bambini, e investono su ogni figlio; i loro bambini sono più sani e, a loro volta, più istruiti. Anche la partecipazione civica è più alta tra le donne che hanno studiato, e come ha suggerito il premio Nobel Amartya Sen, accrescere l’istruzione femminile può contribuire a ridurre la disuguaglianza di genere all’interno delle famiglie.

Il sistema è sostenibile solo se implica una responsabilità condivisa. Quando le cose vanno male, dobbiamo aiutare i più vulnerabili

Tutte queste cose contano per le prospettive di libertà e benessere di una società. Quando gli esperti di sviluppo dicono che l’interruzione delle lezioni determinata dalla pandemia minaccia di spingere 22 milioni di studenti nella “povertà educativa”, le conseguenze non sono solo finanziarie. È un enorme spreco di potenziale umano.

“Il covid è una marea che si è ritirata rivelando la nostra nudità”, mi ha detto Sanyade Okoli, una consulente finanziaria che lavora a Lagos, in Nigeria. “Ha mostrato tutta la debolezza del nostro sistema sanitario, dell’istruzione, delle strutture pubbliche, e così via”. Queste debolezze si possono vedere nelle tabelle di dati, ma si possono osservare anche nelle strade. Una donna che gestisce un’azienda di comunicazioni a Win­dhoek mi ha offerto una visione molto precisa della situazione: “Ogni giorno ho una decina di persone alla porta che chiedono da mangiare o di lavorare”. Secondo gli economisti della Banca mondiale, più dell’80 per cento dei 120 milioni di persone che il covid ha spinto nella povertà estrema – definita come un reddito equivalente o inferiore a 1,90 dollari al giorno – vive in paesi a reddito medio, una categoria molto ampia che comprende India, Indonesia, gran parte dell’Africa occidentale e buona parte dell’America Latina. Non dovrebbe sorprendere. Le persone che vivono nei paesi a reddito medio sono particolarmente vulnerabili alle contrazioni globali: comprano dal mondo ricco e vendono al mondo ricco. Sono totalmente immerse nell’economia globalizzata. Questo coinvolgimento ha consentito dei progressi straordinari, ma negli ultimi tempi la sensazione è che queste persone cerchino di risalire una scala mobile che scende.

La soluzione non è rinunciare o restare a casa. Anche se l’unica cosa che si desidera fare è coltivare il proprio giardino, non siamo indipendenti dagli altri per i semi, il fertilizzante e – come abbiamo ormai capito – le condizioni meteorologiche. Il modo per ricostruire un mondo post-covid non è ritirarsi dall’internazionalismo, ma rafforzarlo.

Le catastrofi sono frattali. Devono essere capite – e affrontate – a livello generale e particolare. Quando i paesi dell’Europa e del Nordamerica hanno introdotto i lockdown per rallentare la pandemia, i loro governi hanno offerto ai cittadini aiuti mirati. Un programma paragonabile in Nigeria è stato scarsamente finanziato e – a detta dei nigeriani con cui ho parlato – opaco a tal punto che a beneficiarne sono state soprattutto persone vicine al governo. Con il Paycheck protection program, gli Stati Uniti hanno concesso alle imprese in difficoltà prestiti che in determinate circostanze non dovevano neanche essere restituiti. Nel Regno Unito, i prestiti Bounce back e altri dello stesso tipo hanno permesso finanziamenti a condizioni molto agevolate. Questi programmi erano imperfetti, ma sono stati di grande aiuto.

Su scala internazionale serve qualcosa di simile. Il mondo ricco, nell’insieme, trae vantaggi enormi dalla globalizzazione. Abbiamo molto a cuore il cioccolato e le rose, per non parlare di alluminio, litio, tantalo, ittrio e neodimio, che servono per fabbricare i nostri telefoni. Sotto molti aspetti è un’impresa comune – un sistema di cooperazione – di cui beneficiamo tutti. Ma, come tutti sappiamo, i vantaggi per alcuni sono maggiori. Se i partner commerciali dei paesi ricchi perdessero la loro fiducia nel sistema, potrebbero avere la tentazione di uscirne. Sarebbe costoso per loro, ma anche per i paesi ricchi.

Il sistema è sostenibile solo se implica un senso di responsabilità condivisa. Quando le cose vanno male, noi che beneficiamo del sistema abbiamo il dovere di fare al livello internazionale quello che facciamo nei nostri paesi: aiutare i vulnerabili a superare la tempesta. Quando le misure di sanità pubblica adottate per “appiattire la curva” nei paesi ricchi possono spingere nella povertà la gente di altri posti del pianeta, questo è un problema di tutti. Un sistema globale integrato è in pericolo quando il rischio è trasferito sui più deboli.

I pericoli della disuguaglianza

Le responsabilità internazionali dei paesi ricchi nell’era del covid-19 sono state discusse in modi assurdamente limitati, come se si trattasse solo di mandare più vaccini alle popolazioni che ne hanno meno. Certo, i programmi come Covax, il distributore internazionale di vaccini, devono essere riforniti meglio, ma tutti i vaccini del mondo non possono rimediare ai pericoli morali e pratici della disuguaglianza. Nei paesi ricchi la turbolenza economica fa finire più persone in cassa integrazione. In quelli poveri fa finire più persone nella tomba.

Negli ultimi anni i progressi ottenuti per combattere la povertà globale sono stati incoraggianti, ma si sono dimostrati anche fragili. Okoli, in Nigeria, ricorda che all’inizio della pandemia le persone con più mezzi si occupavano di sfamare i bisognosi. “C’era la sensazione”, ha aggiunto caustica, “che se non li avessimo sfamati noi, loro ci avrebbero mangiato”. La pandemia di covid-19, come ha detto lo storico dell’economia Adam Tooze, “è la prima crisi veramente onnicomprensiva dell’era dell’antropocene”. A suo giudizio, ha messo fine all’idea che la globalizzazione spingerà il mondo verso una maggiore uguaglianza economica e sociale, che lui definisce “visione millenaristica”. La questione è cosa la sostituirà.

Per confrontarci con le disuguaglianze in un mondo postpandemico avremo bisogno di criteri più sensibili per misurare la fragilità. Nessuna semplice iniezione risolverà le vulnerabilità e le disparità che nascono dall’interdipendenza globale. Nel settore pubblico e in quello privato faremmo bene a riflettere su tutta una serie di questioni: come ristrutturare, condonare o altrimenti mitigare l’onere del debito quando i governi indebitati hanno usato bene il denaro che hanno ricevuto; come promuovere un’agricoltura (e altre forme di sfruttamento delle risorse) più intelligente e sostenibile; come incoraggiare una migliore amministrazione al livello regionale e nazionale; come creare e mantenere istituzioni globali flessibili e inclusive.

Da sapere
Progressi in fumo

◆ Il covid-19 ha interrotto gli ultimi venticinque anni di progressi nella vita delle ragazze, scrive Bloomberg Businessweek in un articolo dal Kenya sulle conseguenze della pandemia. Nairobi ha tenuto chiuse le scuole dal marzo 2020 al gennaio 2021, e ha imposto coprifuoco e chiusure mirati. Le misure sono servite a contenere i contagi, ma hanno anche fatto salire i livelli d’insicurezza alimentare, disoccupazione e violenze domestiche. Il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione stima che 12 milioni di donne in tutto il mondo non abbiano avuto accesso ai contraccettivi per colpa delle misure restrittive, cosa che potrebbe aver generato 1,4 milioni di gravidanze indesiderate. Uno studio dell’università statunitense di Denver prevede che si dovrà aspettare il 2030 perché il numero di donne e ragazze in povertà estrema scenda ai livelli precedenti alla pandemia.


E, naturalmente, servono modi per indirizzare al meglio l’assistenza. Quando nei mesi scorsi il Regno Unito ha deciso di tagliare gli aiuti esteri di quattro miliardi di dollari ha compiuto una ritirata nel momento in cui la storia gli chiedeva di avanzare. Chi è scettico sugli aiuti esteri sottolinea un punto importante: servono governi che rispondano in primo luogo ai loro cittadini, non ai donatori e ai prestatori stranieri. Ma il giusto tipo di assistenza (compresi i finanziamenti relativi al covid-19 e la sospensione del debito messa in atto dal gruppo della Banca mondiale negli ultimi diciotto mesi) non deve necessariamente avere un effetto distorsivo sul modo di governare. E l’investimento sulle capacità umane non è mai denaro sprecato.

Come la crisi del clima ci insegnava molto prima che arrivasse il covid-19 a dirlo forte e chiaro, quello che succede in un posto può avere ripercussioni in tanti altri luoghi. È per questo che la pandemia non dev’essere interpretata come una crisi sanitaria piovuta dal cielo, ma come qualcosa di portata molto più ampia.

“La scienza è la via d’uscita”, ha detto agli inizi della pandemia Jeremy Farrar, il capo dell’ong britannica Wellcome trust. Ma, per quanto necessaria, la scienza non è sufficiente, soprattutto quando siamo interessati non solo a uscire, ma anche a rientrare. Mentre i nazionalismi turbolenti e autoreferenziali continuano a raccogliere seguaci, dovremo resistere alle fantasie dell’autarchia, all’illusione di cavarcela da soli. L’epoca postpandemica richiede una percezione più profonda dei nostri obblighi reciproci.

Penso a quello che mi ha detto Taleni Ngoshi, in Namibia, su come si è sentita influenzata dalle persone che per vivere dipendevano da lei: “Ci sono giorni che ti svegli nel letto e pensi: ‘Sono stufa’. E poi un minuto dopo pensi: ‘Devo fare qualcosa. Se resto a letto e mi piango addosso, cosa mangeranno gli altri domani?’”.

Loro dipendono da lei proprio come, in fin dei conti, lei dipende da loro. Intorno a questi piccoli ambienti di cura reciproca dobbiamo costruirne altri più grandi, globali. La resilienza non dovrebbe essere appannaggio dei ricchi.

Per avere una situazione internazionale più giusta e sicura dobbiamo tenere conto di rischi sistemici concepiti nei termini più ampi possibili. E il commercio senza responsabilità è un rischio che non possiamo permetterci: allettante come una scatola di cioccolatini, deperibile come un fiore reciso. ◆ gc

Kwame Anthony Appiah è uno scrittore angloghaneano. Insegna legge e filosofia alla New York university ed è un opinionista del New York Times. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La menzogna dell’identità (Feltrinelli 2019).

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Questo articolo è uscito sul numero 1443 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati