I n primavera, quando Antoine Garceau stava girando un adattamento delle Particelle elementari di Michel Houellebecq per France 2, due tecnici si sono ammalati di covid-19: un macchinista e un assistente operatore. Qualche anno prima per sostituirli sul set, che si trovava in Bretagna, sarebbero bastate due telefonate. Oggi trovare qualcuno da ingaggiare al volo è molto più complicato.

“Quello che sta succedendo è pazzesco”, dice il regista da Atene, dove sta girando il quarto capitolo, in forma di serie, dell’Appartamento spagnolo insieme a Cédric Klapisch e Lola Doillon. “Ma è il genere di aneddoto che tutti i colleghi vi possono raccontare”. Come Claire Denis che sta girando The stars at noon a Panamá e ha faticato a trovare un direttore di post-produzione. O come Olivier Nakache ed Éric Toledano che, a metà della seconda stagione della serie En thérapie, in primavera, avevano problemi a trovare tecnici e attrezzature. Si dice che a Parigi non ci siano più rotaie per i carrelli. “Abbiamo abbastanza cavo?”, si chiede un segretario di produzione. La Hollywood sulla Senna è nel panico.

Il grande paradosso

È questo il grande paradosso: anche se il pubblico non è ancora tornato in massa nei cinema, il settore delle produzioni cinematografiche e televisive non ha mai vissuto una simile euforia. Eppure l’equazione è semplice: la moltiplicazione dei canali (le piattaforme Netflix, Amazon, Apple Tv, Mubi e la francese Ocs) ha determinato una moltiplicazione delle richieste di contenuti e quindi una moltiplicazione delle riprese. Aggiungete a questo il trionfo delle serie tv, che impegnano più persone per periodi di tempo più lunghi – all’incirca cento giornate lavorative consecutive per otto, dieci episodi da cinquantadue minuti–, e avrete l’acqua che bolle in pentola.

“Sono finiti i tempi in cui i precari del cinema faticavano ad accumulare il numero di ore necessario per ottenere il riconoscimento di alcuni benefici di categoria, osserva Sandrine Paquot, direttrice di produzione di Astérix et Obélix : l’empire du Milieu di Guillaume Canet. Insieme al segretario di produzione, al personale amministrativo e agli assistenti alla regia, il direttore di produzione è in prima linea in questa crisi. La pellicola dedicata ad Astérix è uno di quei set sospesi nel marzo 2020 a causa delle misure contro il covid-19. Se inizialmente le assunzioni non erano state un problema per un lavoro che pure richiedeva il doppio dei tecnici abituali (tra le cento e le 150 persone, contro le sessanta abituali), ricominciare si è rivelato molto complicato.

Stabilendosi in Europa le piattaforme hanno ulteriormente amplificato il fenomeno, visto che avevano bisogno di personale esperto del settore. “E questo affollamento esiste anche tra gli attori”, continua Paquot.

Michel Gomez, responsabile dell’ufficio cinema del comune di Parigi, alla fine di ottobre ha elencato una trentina di set cinematografici sparsi per le strade della capitale. “Tra 2015 e 2020, il numero di giorni di riprese a Parigi è raddoppiato”, sottolinea. Per lui, il problema delle riprese cinematografiche riguarda prima di tutto l’occupazione del suolo pubblico. “Si crea un effetto forbice, con la curva delle riprese che s’interseca con quella della disponibilità di spazi pubblici, limitati dalla moltiplicazione dei tavoli all’aperto e delle piste ciclabili. Tutti i sindaci di quartiere vengono a lamentarsi. Il mio sistema per controllare la situazione è questo: il lunedì chiamo la Tsf e gli chiedo cos’hanno in magazzino. In questo momento non gli è rimasto niente”.

Parigi, maggio 2020. Il set di Adieu Monsieur Haffmann (THOMAS COEX, AFP/Getty Images)

La Tsf (34 milioni di euro di fatturato) è, insieme alla Transpalux e alla Panavision, una delle più importanti aziende per il noleggio di attrezzature cinematografiche in Francia: 280 camion tecnici, 160 dipendenti, 120 telecamere, più tutto il resto: luci, gru, rotaie, cavi. “Quando ci sono solo quaranta o cinquanta camion che tornano alla base tra una ripresa e l’altra, significa che siamo al limite”, dice Thierry de Segonzac, che ha creato l’azienda nel 1979, inizialmente subaffittando i camion che equipaggiava e poi aggiungendo le attrezzature.

“Per stare al passo, dobbiamo reinvestire ogni anno dal 12 al 14 per cento del fatturato in nuove attrezzature. Quattro milioni di euro sono il minimo per mantenere un livello tecnologico di qualità”, spiega il direttore dell’azienda. “Ma stavolta, a luglio, per assorbire il picco di attività abbiamo dovuto investire altri quattro milioni di euro”. Questo dimostra la potenza dell’ondata che sta interessando l’industria cinematografica. “Quando abbiamo visto cosa stava succedendo”, racconta de Segonzac, “abbiamo provato a pianificare. Dovevamo raddoppiare i nostri investimenti?”. Alla fine si è deciso di vedere il bicchiere mezzo pieno. “Le piattaforme hanno così tanti soldi da spendere che non riesco a immaginare un ritorno al passato”.

Il bicchiere che trabocca

Dopo il trauma del primo lockdown, nell’autunno del 2020 c’è stata un’esplosione di set: “Tra settembre e novembre, abbiamo ottenuto gli incassi più alti di sempre”. Anche oggi – mentre gli esercenti cinematografici si lamentano – le riprese non conoscono soste. Venerdì 22 ottobre, la Tsf aveva noleggiato materiali a 43 film diversi.

Questa situazione agita i professionisti del settore. “Facciamo molta fatica a mettere insieme le troupe. Il rischio è quello di trascinare la produzione verso il basso, in termini di qualità”, si preoccupa Martin Jaubert, produttore esecutivo di Lupin, la serie di Netflix con Omar Sy. “Stiamo navigando a vista. Non so come andrà a finire”.

La questione della formazione (insufficiente) ritorna in un ambito che ha conservato i suoi riflessi artigianali. “Vediamo che si organizzano dei corsi di formazione, ma è ancora troppo poco, soprattutto perché l’esperienza sul campo è fondamentale”, dice Paquot, 47 anni, che ha cominciato a 17 anni come assistente alla regia di spot pubblicitari. Servirà del tempo.

“I professionisti del settore hanno capito che c’è una situazione particolare”, dice Gomez. “Ma siamo in una bolla? Scoppierà? Se tra cinque o sei mesi alcune piattaforme dovessero scomparire o unirsi? Avremo formato migliaia di persone per niente?”.

Il capo della Tsf sorride. A Coulommiers, nella Seine-et-Marne, nei trecento ettari dell’aeroporto l’azienda sta allestendo un enorme studio. Una decina di teatri di posa, tra i mille e i quattromila metri quadrati ciascuno, e dei backlots, come vengono chiamati i set esterni, che verranno costruiti in base alle produzioni. È difficile vedere il bicchiere mezzo pieno se sta traboccando. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1437 di Internazionale, a pagina 85. Compra questo numero | Abbonati