“Sappiamo se aveva famiglia?”. Autoisolata nella mia stanza, ho finalmente guardato Avengers: Endgame, finendo per commuovermi alla scena in cui i difensori della Terra si riuniscono per seppellire Vedova Nera. In precedenza, il personaggio era stato ritratto nella serie cinematografica della Marvel come tragico e solitario, unica femmina del gruppo, supersoldata in spandex che non riesce mai davvero ad andare d’accordo con Occhio di Falco o Hulk, “mostruosa” in quanto sterile. La single senza figli, donna sola per definizione. Finché Capitan America non sottolinea l’ovvio. Vedova Nera ce l’aveva eccome, una famiglia. “Noi”.
Quel momento, quello in cui l’accozzaglia di supereroi si rende conto di essere una “vera famiglia”, è una metafora pop culturale ancora abbastanza toccante da non risultare abusata. Soprattutto quando sei chiusa in camera tua da una settimana, intrappolata in un corpo che ti spaventa, a farti venire crisi di tosse per una smania di auto-monitoraggio, avendo solo un coinquilino che ti lascia fuori dalla porta tazze di tè preparate, se non con perizia, con affetto. Come milioni di altre persone, anch’io, durante la pandemia di covid-19, ho finito per ripensare il mio concetto di famiglia. L’idea di “famiglia trovata” è un costrutto culturale per cui i tempi sono definitivamente maturi, dal momento che molti di noi oggi se ne stanno creando, e ricreando, una.
L’amore è un lavoro. La convivenza è un lavoro. Stufi di fare anticamera per l’età adulta socialmente rispettabile, noi millennial abbiamo deciso di metter su casa qui
Alla fine di marzo, una giornalista amica di amici mi ha chiamato per sapere come funzionava la famiglia in cui vivevo a Los Angeles. Stava scrivendo un articolo su chi passava la quarantena con persone che non erano né parenti né amanti. Cioè noi: io e il mio coinquilino, più un amico e un’amica che vivono da soli nei paraggi. Tutti separati dai genitori dalla distanza e dalla malattia, tutti estremamente single. Pur non essendo una famiglia esattamente tradizionale, avevamo bisogno di un termine per riferirci l’uno all’altra, quindi – visto che in questo momento il mondo sembra un po’ una di quelle cronologie alternative da serie tv di fantascienza distopica all’ultima stagione – abbiamo deciso di definirci una “capsula”.
Ho conosciuto il mio coinquilino, compositore e cantautore, qualche anno fa a una festa a New York, in un pulsare di luci ultraviolette e musica pompata. Abbiamo subito capito che a un certo punto saremmo stati importanti l’uno per l’altra; quel momento è arrivato alla fine del 2019, quando ho avuto bisogno di un coinquilino per un appartamento in subaffitto a Silver Lake, con un pessimo bagno con lavandini doppi e una pianta di limone nell’aiuola. Gli altri compagni di capsula sono una musicista e terapista di vedute sessuali ampie conosciuta su Twitter e uno strano giovane giornalista conosciuto in fila per il bagno alla caffetteria di quartiere, dove ci siamo messi a parlare dei nostri programmi radiofonici preferiti.
Il motivo per cui è nata la capsula è stato più accidentale che profondo: io e il mio coinquilino ci siamo presi le cimici dei letti. Le cimici dei letti sono schifose, costose da eliminare e sfiancanti, oltre a importi d’interpretare un tuo personale film catastrofico, incenerire buona parte dei tuoi effetti personali e disinfestare il resto. Il giornalista della caffetteria ci aiutava a trasbordare tutti i nostri vestiti alla lavanderia automatica; io dormivo sul divano dell’amica terapista per sfuggire alle pungenti bastardine del mio letto. Quando hanno annunciato che Los Angeles chiudeva, eravamo già stati a contatto così ravvicinato che, se uno di noi fosse stato esposto al virus, lo saremmo stati tutti. Abbiamo deciso di condividere il rischio. Dividerci le pulizie, l’intrattenimento, le commissioni da fare in macchina. Assicurarci che, in ogni momento, tutti avessero abbastanza snack per non impazzire e che nessuno se la squagliasse per incontrare degli sconosciuti rimorchiati con un’app. Era logico. O almeno così abbiamo detto alla giornalista.
Pensavo che sarebbe stata una breve intervista, che saremmo apparsi a metà di un articolo. Di lì a qualche giorno, la nostra foto era in prima pagina sul Los Angeles Times: “L’isolamento è più leggero con i compagni di quarantena”, diceva il titolo. Di colpo ci siamo ritrovati a dare interviste alle tv locali e alla radio nazionale. La cosa stava sfuggendo un po’ di mano. Perché, mi chiedevo, facciamo notizia?
La storia che la maggior parte di noi sta vivendo è molto diversa da quella che ci aspettavamo di vivere. A noi millennial, come a diverse generazioni prima di noi, è stato insegnato che l’età adulta sarebbe cominciata nel momento in cui avessimo trovato la perfetta persona del sesso opposto con cui accasarci. Funzionava così: aspettavi una persona con cui poter creare una vera famiglia e tutto quello che veniva prima o dopo erano solo cazzate. “Se pensiamo alla famiglia statunitense, molti di noi continuano a preferire quell’ideale”, ha scritto di recente l’opinionista conservatore David Brooks in un pezzo sull’Atlantic intitolato “La famiglia nucleare è stata un errore” . “La consideriamo come la norma anche se per decine di migliaia di anni prima del 1950 la principale modalità di vita degli esseri umani non è stata quella”.
La famiglia nucleare, come osserva Brooks, è un’aberrazione storica. Era un’ipotesi di organizzazione della società praticabile solo con strutture in grado di renderla possibile: abitazioni a prezzi contenuti, reti di sostegno locale formate da famiglie allargate di parenti e amici, un generoso sistema previdenziale, lavori ben retribuiti che permettevano ad almeno un genitore di occuparsi in larga parte dei figli, e una cultura che per lo più escludeva le donne da questi lavori, rendendo il ruolo di moglie e madre l’unico al quale la maggior parte di loro potesse aspirare.
Tutto questo, nel bene o nel male, è cambiato. Economicamente esclusa da tutti i tradizionali indicatori di successo, dai figli alla casa di proprietà, un’intera generazione si è costruita una vita nello spazio tra la storia che la società ha previsto per lei e quella che di fatto è possibile. C’è chi vive da sola, chi vive con un compagno o una compagna, con i genitori o con entrambi. Moltissimi hanno dei coinquilini.
Con l’arrivo del covid-19, nel grande gioco delle sedie musicali che era la nostra melodrammatica convivenza, la musica si è interrotta. Di colpo abbiamo dovuto ammettere che le persone con cui abitiamo sono le persone con cui viviamo davvero, che si tratti di coinquilini, della nostra famiglia allargata, dei genitori anziani, della sorella del fidanzato o del fidanzato della figlia, degli amici sposati o del collega alcolizzato divorziato da poco che lo scorso gennaio è stato da noi un paio di settimane e ora è la persona con cui parliamo di più al mondo. Sono loro la nostra famiglia, nell’accezione originaria del termine, che deriva da quello latino con cui s’indicava un nucleo familiare. La _familia _comprendeva i parenti di sangue ma anche gli ospiti, i visitatori, le guardie, i servi, gli schiavi, chiunque per scelta, circostanze o coercizione vivesse sotto lo stesso tetto e a cui si dovesse una sorta di fedeltà.
Durante i mesi del lockdown globale, il concetto di “casa di quarantena” è entrato nel lessico culturale. Girano meme in cui si chiede con quale eroe della Marvel o dei cartoni animati, divinità greca o scrittore famoso preferiremmo essere rinchiusi, sforzandoci di sondare un inscrutabile futuro senza ucciderci a vicenda. Ma anche se aumenta il numero delle persone che vivono in nuclei familiari imbastiti ad hoc per i tempi di crisi, permane una certa confusione ogni volta che il nucleo in questione non corrisponde a forme familiari. “Le quarantene tra amici a volte incontrano la riprovazione di chi aderisce a una definizione di famiglia tradizionale”, ha scritto la giornalista del Los Angeles Times (con la quale, devo dire, è stato un piacere parlare, tanto che ci messaggiamo ancora).
Siamo sempre più numerosi a non avere motivi per aderire a una concezione di famiglia tradizionale. A Los Angeles, quasi metà degli adulti convive con un/una “non partner”. Circa un terzo degli statunitensi adulti, e la maggioranza di quelli tra i 18 e i 34 anni, vive in condivisione. Per tutti loro, il modello della coppia sposata e avvolta dalla benigna stabilità insieme ai figli, quell’unica versione di ciò che avrebbero dovuto essere l’amore, l’impegno e la sicurezza, non è la vita che conoscono. E non è neanche la mia.
Una parte di me ha sempre saputo che la mia storia non sarebbe finita come un film della Disney, con le campane, la pioggia di riso e i titoli che scorrono sulla coppia perfetta dietro la sua staccionata, per sempre felice e contenta. Ma era possibile, senza quello specifico “per sempre”, essere felici? Da bambina inquieta e ombrosa cresciuta in una cittadina fuori Londra, pensavo di no. Fino a un sabato per il resto normale di quando avevo 13 anni.
Mamma e papà si stavano separando, il posto in cui preferivo rinchiudermi lasciando fuori il mondo era il cinema d’essai di quartiere, dove quel giorno vidi un film molto strano. Era in svedese, ambientato negli anni settanta. Parlava di una madre di periferia che fugge da un matrimonio agli sgoccioli per andare a vivere, con due figli al seguito, in una scombinata comune hippy piena di comunisti, edonisti e varie gradazioni di idealisti suscettibili che discutono di chi deve lavare i piatti. Il film era Together, diretto da Lukas Moodysson; il titolo significa “insieme”.
_Together _mi ribaltò il mondo. Vedevo il matrimonio dei miei genitori naufragare e al tempo stesso cercavo di capire come doveva essere la vita adulta. Avevo già la fastidiosa sensazione che i programmi dei miei coetanei non avrebbero funzionato per me. Ed ecco quindici bestie rare stipate in un’unica grande casa. La vita che facevano non era normale né per gli standard della Stoccolma degli anni settanta né per quelli della Londra degli anni duemila, eppure stavano insieme. C’era un che di romantico. Sapeva di libertà. Sembrava facile, come sempre quando si tratta di una storia vista da fuori.
Vent’anni dopo, sono ormai vissuta insieme ad altri per la maggior parte della mia vita adulta. Dopo l’università, nei primi anni della grande recessione, andai a vivere in un sudicio appartamento condiviso a Londra, in Turnpike lane, nel tentativo di ricreare un po’ dello spirito di Together. C’erano, va da sé, accesi confronti politici sulla rotazione dei turni per lavare i piatti e dibattiti etici su come e se sterminare i topi grandi come terrier che andavano a rovistare nei bidoni. Scoprimmo presto che condividere lo spazio smette di essere divertente in un punto compreso tra la prima volta in cui metti il piede nel vomito del coinquilino mentre stai uscendo per andare al tuo lavoro a salario minimo e la milionesima volta in cui non riesci a dormire perché chi condivide il muro con te sta facendo un casino da ventitreenne qual è. Subito dopo andai a vivere con un archeologo scozzese tabagista e una coppia di hacker insonni a Mile end. Poi in un appartamento di Hackney con due poete lesbiche. Poi ci furono le occupazioni studentesche del 2010 e i campi di Occupy nel 2011, dove abitai per vari mesi di fila (una volta ho condiviso una stanza in una comune a Willesden green, una credenza riconvertita e un materasso sul pavimento con una simpatica darkettona australiana alla modica cifra di 450 sterline al mese, che mi sembrava pure un affarone). Non mi è mai passato per la testa di mettere su famiglia. Innanzitutto non potevo permettermelo. Complessivamente, tra il 2008 e il 2020, ho avuto 35 case in cinque paesi con, a seconda del metodo di conteggio, più di duecento coinquilini, i loro partner, le loro eccentricità e i loro traumi infantili, tentando di creare famiglie temporanee in attesa che la nostra “vera vita” cominciasse.
L’ultima comune in cui sono vissuta, a Londra nel 2015, era nel capannone di un magazzino abbandonato in cui, teoricamente, avrebbero dovuto vivere due o tre persone in qualità di “custodi”. Quando entrai eravamo sette, tutti tra i 22 e i 34 anni. Poi, man mano che lo spazio al piano di sotto si sviluppava, diventammo otto, poi dieci, più in genere un paio di scapestrati extra che dormivano sui divani. Avevamo una cosa che pochi giovani nella capitale avevano: spazio.
Non tantissimo, ovviamente, e non lussuoso. Le tubature vittoriane si rompevano ogni estate, e condividere un gabinetto portatile con nove persone solleva seri dubbi sulla mia capacità di fare delle scelte giuste, così come giocare all’infinito gioco di attribuire l’appartenenza di una tazza o di un fidanzato particolarmente lerci. Però c’era un che di romantico, e c’è ancora a cinque anni e ottomila chilometri di distanza, mentre sono confinata in quarantena con tre persone che l’anno scorso conoscevo appena.
“È una cosa che non ha una spiegazione eterosessuale”. Poco dopo che la nostra capsula da quarantena è finita sul giornale, Reddit se n’è accorto e di colpo centinaia di sconosciuti hanno cominciato a chiedersi chi di noi scopasse segretamente con chi. C’entrava non poco la fotografia che accompagnava l’articolo, in cui il mio favoloso coinquilino cantautore era adagiato tra di noi con degli stivali vistosi e un paio di pantaloncini attillati che andavano bene per il distanziamento sociale ma decisamente malissimo per il lavoro. “È il gruppo di persone più assurdo che abbia mai visto, e passo un sacco di tempo a guardarmi allo specchio”, diceva uno su Reddit. “Una persona con i capelli magenta per me non può essere etero”, le avevano fatto eco. Io m’indignavo: sono la prima a sorprendermi della mia passione per il sesso eterosessuale canonico, ma questo non vuol dire che non mi vada di colorarmi i capelli o di vivere con un’allegra cucciolata di svalvolati queer.
Le persone queer hanno sempre formato “famiglie alternative”: può essere facile, soprattutto se vivi in una bella zona progressista di una bella metropoli progressista, dimenticarsi di quanti giovani ancora oggi siano abbandonati dalla famiglia, scagliati dolorosamente di peso in una vita adulta per cui non sono preparati. Ma negli anni trascorsi dalla crisi del 20008 le ragioni per cui persone di ogni tipo, queer o no, formano famiglie alternative sono andate aumentando.
Gli stipendi sono crollati, gli affitti volati alle stelle, in molti ci siamo ritrovati a vivere, per necessità, quello che in passato sarebbe stato considerato uno “stile di vita alternativo”. Ci sono madri single che decidono di vivere insieme per creare un nucleo familiare in cui darsi aiuto e sostegno reciproco. Giovani coppie sposate che faticano a pagare il mutuo accolgono amici in stanze e garage liberi, facendogli pagare l’affitto. Persone adulte vanno o tornano a vivere con amici e genitori. La cosiddetta coabitazione, come le case minuscole, gli incontri scadenti e le tinture casalinghe sbagliate, è una tendenza diffusa. Perché i millennial non hanno un soldo. Il motivo per cui tanti di noi vivono con uno, due, cinque o sei coinquilini non è che abbiamo preso la decisione collettiva di distruggere le norme sociali dei nostri genitori, o non solo. È anche una necessità economica.
Ma la famiglia, in ogni epoca, lo è sempre. La famiglia nucleare, durante il suo breve apogeo, era fondamentalmente una strategia economica, che facilitava il controllo del fabbisogno di manodopera e l’organizzazione della cura dei figli e del lavoro domestico in modo che le donne lo svolgessero quanto più possibile gratuitamente. Un assetto simile oggi non ha più senso, né economico né emotivo, e i millennial lo sanno: in fin dei conti quasi la metà di noi è cresciuta con i genitori divorziati o con un genitore solo. Eppure, la famiglia nucleare è ancora l’unica forma di famiglia culturalmente legittimata.
In questo momento c’è un bisogno profondo non solo di trovare altri modi di vita, ma che quei modi siano riconosciuti e sostenuti dalla società. Però questo desiderio di fatto è realizzato solo in un posto: nella narrativa, soprattutto quella di genere, che può permettersi più libertà nell’immaginare mondi diversi dal previsto, dall’ordine e dalla normalità.
La metafora della famiglia trovata circola da decenni. Un gruppo di outsider, riuniti dal caso, trova un modo per convivere e crescere insieme. La cosa funziona in quanto soddisfa un desiderio, anche per chi è cresciuto senza un gruppo di amici su cui fare affidamento. E perché le possibilità drammaturgiche sono infinite. Molto spesso le narrazioni di genere si aprono ingegnando un modo per riunire persone disparate. S’incontrano tutti in una taverna o su una nave spaziale o mentre fuggono da una razza padrona fatta di robot. Appartengono tutti alla stessa unità militare, frequentano la stessa accademia per supereroi, sono delinquenti minorenni con i superpoteri seguiti dagli stessi assistenti sociali. A volte inizialmente si odiano, ma poi le loro vite finiscono per intrecciarsi.
Le scrittrici, in particolare, sono da tempo pioniere di un genere di romanzo futuristico che cerca alternative d’immaginazione alla famiglia nucleare intesa come unità fondamentale dell’esistenza umana. Ursula K. Le Guin, Octavia Butler e Sheri S. Tepper, ma anche Marge Piercy, N.K. Jemisin, Lois McMaster Bujold, Joanna Russ e Lidia Yuknavitch si sono imposte come creatrici di alternative fantastiche alla felicità tradizionale. Molto spesso, per farlo devono inventare nuove strutture di parentela aliene. Nuove capsule, nuovi sistemi amicali, nuovi “surrogati”, come li definisce la teorica Sophie Lewis nel suo libro Full surrogacy now. La famiglia surrogata, o struttura familiare surrogata, nell’appropriazione che Lewis fa del termine, sostituisce e migliora la forma tradizionale della famiglia patriarcale attraverso nuove reti di accudimento fluide.
Nella serie di romanzi di Becky Chambers Wayfarers, una banda di fuorilegge spaziali scorrazza per l’universo incrociando varie società aliene. La mia preferita è quella degli Aandrisks, per i quali è normale, nel corso della vita, avere tre famiglie. Prima viene la famiglia di nascita, o “di schiusa”, che non sempre coincide con quella di sangue. In seguito, da giovani, si formano “famiglie piuma”: chi ne fa parte produce figli ma non li alleva, in quanto impegnato a costruirsi una vita e ad attraversare il melodramma che per molti di noi caratterizza il periodo tra i venti e i trent’anni. Infine c’è la “famiglia casa”, in cui ci si riunisce con altri adulti maturi per crescere i figli che si è finalmente pronti a educare.
E se vivere con amici, estranei, genitori, fratelli e sorelle non fosse considerato un fallimento? O se fosse un fallimento non necessariamente nel senso deteriore del termine? Il filosofo pop Jack Halberstam parla di “un’arte queer del fallimento”, che sceglie di abbandonare fragili modelli di successo in ogni caso non concepiti per noi. È uno stile di vita che “si rivolge all’impossibile, all’improbabile, al poco realistico e all’ordinario. Che perde con serenità, e nel farlo immagina altri obiettivi per la vita, per l’amore, per l’individuo”. Una spiegazione eterosessuale per tutto questo in effetti non c’è.
Per una famiglia trovata si può soffrire come per una tradizionale. Nell’ottobre 2016 compivo trent’anni e ho fatto una festa nella mia comune di Londra. È stata una bella festa. Si beveva, ci si scambiavano segreti e anche baci poco prudenti, ed ero felice pensando che la mia vita adulta era quella. Tre giorni dopo, i nove intimi amici con cui convivevo, compreso qualche ex amante, mi hanno consegnato una lettera di sette pagine, fronte retro, in cui mi si spiegava, con retorica fricchettona atrocemente dettagliata e ferocemente nonviolenta, che ero sostanzialmente un brutto spreco di tessuti umani, e venivo quindi espulsa dalla casa che coincideva con la mia intera sfera sociale. È stato un colpo. Ero già vissuta in situazioni poi deteriorate, ma mai mi sarei aspettata di esser trascinata fuori per l’orecchio senza preavviso. Pensavo che quelli fossero i miei amici, la mia famiglia.
Il colpo al cuore ha avuto un peso fisico. Nessuna relazione finita, prima di allora o dopo, mi ha fatto male anche solo la metà. Ci sono stata male per molto tempo, e la cosa peggiore, forse, è stata non avere una lingua in cui tradurre il lutto. Se avessi rotto un fidanzamento, spiegare quel dolore sarebbe stato più facile. I miei parenti hanno mostrato comprensione ma anche sollievo: mi volevano bene, ma a quel punto speravano accettassi soluzioni più tradizionali, qualcosa di più solido e sicuro.
Ho deciso che forse avevano ragione. Forse avevo fatto un errore, deviando dalla storia che le donne eterosessuali devono raccontarsi sulla propria felicità. Poiché sforzarmi di vivere come se fossimo agli albori di un paese migliore era troppo doloroso, avrei cercato di essere normale. Sono andata a vivere con un caro amico appena diventato un partner sentimentale, in un piccolo appartamento tutto nostro nella cittadina dove ero cresciuta. All’epoca sembrava un’ottima idea. Stavamo entrambi facendo grandi sforzi di normalità per corrispondere in tutti i sensi a ciò che è normale. Diventare quadrati. Tagliare via i pezzi più morbidi e inusuali del nostro cuore ricavando le linee nette pretese dalla società. Forse, se eravamo in due a fare quello che ci si aspettava che facessimo, avremmo potuto essere felici. Al sicuro.
Era un piano sciocco. Presto mi sono ritrovata di nuovo single, in una casa con il mutuo intestato a me grazie all’eredità di un parente. Per tenere a bada il tarlo della solitudine ho cominciato ad arredarla in modo frenetico. Sapevo che ero fortunata. Ma allora perché ero tanto infelice? Perché sarei stata pronta a rinunciare a tutto non per il compagno perfetto, il matrimonio perfetto o il mutuo perfetto, ma per condividere di nuovo un bagno malconcio e le bollette e i lavori di casa con nove amici e relativi tic, alla faccia della precarietà e dell’insicurezza?
La lezione che ho dovuto imparare è: oggi la famiglia nucleare tradizionale non è né più stabile né più sicura né più destinata a una duratura felicità delle famiglie alternative. Nel romanzo Le sirene di Titano, Kurt Vonnegut impiega centinaia di pagine per arrivare alla conclusione che lo scopo – o quantomeno uno degli scopi – “della vita umana, indipendentemente da chi la controlla, sia quello di amare chiunque si abbia vicino”. Il problema delle famiglie trovate è lo stesso di qualsiasi altro tipo di famiglia. Non esiste una struttura perfetta, un unico insieme di regole, capace di garantire che ci si comporti sempre bene l’uno con l’altro, che a tratti non si debba crescere un po’, e che a nessuno venga mai più spezzato il cuore.
Nella serie tv Buffy l’ammazzavampiri, un gruppo di liceali combatte mostri e demoni mentre tenta di vivere una vita normale, per poi rendersi conto che la vita normale, forse, non è poi un granché. Alla quinta stagione, la banda deve affrontare uno dei mostri più spaventosi che ci siano: i genitori retrogadi, a cui non sta bene che Tara, una delle protagoniste, sia lesbica oltre a essere una strega. “Noi siamo i suoi parenti di sangue”, grida il padre. “E voi chi diavolo siete?”. È Buffy a sottolineare l’ovvio: “La sua famiglia”.
Durante il lockdown per il covid-19, milioni di persone hanno dovuto confrontarsi con gli aspetti talvolta coercitivi della famiglia tradizionale. Stime al ribasso suggeriscono che gli episodi di violenza domestica nel mondo sono aumentati tra il 20 e il 30 per cento, per il numero di persone, soprattutto donne, che si sono trovate in trappola con i loro aguzzini. Ma anche prima del confinamento, negli Stati Uniti ogni settimana 19 donne erano uccise dal marito o da un conoscente stretto. La famiglia nucleare, come tutte, può essere un posto pericoloso.
Il punto non è che i legami, che siano di sangue o di altri liquidi corporei, sono superflui, irrimediabilmente violenti o, come nel caso di Buffy, direttamente demoniaci. È che non sono gli unici rapporti che contano, e per chiarirlo a una società che da troppo tempo considera la diversità un pericolo c’è voluta una pandemia. L’isolamento forzato ci ha reso iperconsapevoli di ciò che esigiamo e ci aspettiamo dalla coabitazione, e della speranza di un cambiamento. Forse il vero pericolo, ora, non è il semplice fatto che un numero consistente di noi possa non formare mai una famiglia tradizionale, ma l’idea che alcuni di noi preferiscano non farlo. Che forse bisogna smettere di farlo perché si deve e cominciare a farlo perché si vuole.
Durante il lockdown mi sono ritrovata a stiracchiare i muscoli sociali intirizziti dai tempi della comune: la matematica da dispensa dei pasti da organizzare, dello sfamare con cibi nutrienti e interessanti persone squattrinate, impaurite e con precisi cibi da evitare che vogliono solo cenare con qualcosa di buono. La difficoltà di rimanere generosa anche quando il bagno non si pulisce magicamente da solo, e secondo te chi è che porta sempre fuori l’immondizia, eh? La fatina dei cassonetti?
Litighiamo, certo. Io e il mio coinquilino abbiamo avuto una settimana di liti come possono esserlo quelle tra una scrittrice nevrotica e un musicista nevrotico intrappolati insieme in un buco con un sacco di lavoro per il quale una ha bisogno di tanto silenzio e l’altro di tanto rumore. Ci sono state lacrime. Torte impastate con rabbia. Sommesse ammissioni del fatto che entrambi, da tutta la vita, lottiamo per trovare uno stile di vita in cui l’essere diversi, ambiziosi, creativi e queer non significhi per forza stare da soli.
Le liti hanno occupato mezza settimana. L’altra metà l’abbiamo passata a cercare un’altra casa da condividere quando scadrà il contratto, perché il lavoro emotivo è stato sfiancante e importante, e nessuno dei due ha voglia di ricominciare da zero con altre persone. Il coinquilino sa infastidirmi quasi più di chiunque altro, e se qualcuno gli fa del male lo ammazzo. Quando a maggio ho avuto dei sintomi simil-covid, è stato lui a impedirmi di lavorare a questo articolo, a insistere che mi mettessi a letto una volta per tutte, magari con un bel film stupido di supereroi. Il significato di famiglia, io credo, è questo.
Vuol dire amare chiunque si abbia vicino. E non deve sempre piacerti. L’amore è un lavoro. La convivenza è un lavoro. Stufi di fare anticamera per l’età adulta socialmente rispettabile, noi millennial abbiamo deciso di metter su casa qui. Non aspettiamo che cominci la “vera vita”. Potremmo non avere mai la sicurezza e la stabilità che ci hanno insegnato a desiderare, ma possiamo impegnarci lo stesso e fare comunità. La vera vita, per me, è questa. Sono queste le famiglie e i rapporti che mi hanno cresciuto, mi hanno insegnato ad aver cura di me stessa e degli altri, e che mi hanno spezzato il cuore, il cervello e non poche delle mie tazze preferite. Sono le nostre vere vite, brevi e bellissime, sciocche e improbabili, e le vivremmo molto meglio se non avessimo solo il contentino della fiction, ma il permesso di credere nel loro valore. ◆ mc
Laurie Penny
è una giornalista britannica. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Meat market. Carne femminile sul banco del capitalismo (Settenove 2013). Questo articolo è uscito sull’edizione statunitense di Wired con il titolo Live long and prosper: covid-19 and the future of families.
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Questo articolo è uscito sul numero 1368 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati