Sono cresciuto in una terra di bugie e di ossa, in cui le morti erano cancellate o nascoste dal Cremlino. Una terra dove il potere si rifiutava di riconoscere l’Ucraina come una nazione. A tutti era imposta l’identità sovietica. Oggi assistiamo al ritorno della stessa violenza nichilista. “Sto bene”, mi ripetono amici terrorizzati a Charkiv e Kiev. Che altro potrebbero dire? Questa guerra non è nuova, e in un certo senso abbiamo sempre saputo che sarebbe ricominciata.

Ricordo i fori sul muro. Mio padre e io stavamo tornando a casa dopo una camminata in un piccolo parco pieno di lillà, vicino al nostro appartamento di Charkiv. Allora l’Ucraina era ancora una repubblica sovietica. “Perché ci sono quei buchi?”, chiesi a mio padre, indicando alcuni crateri in un angolo del nostro edificio.

“Sono tracce della guerra”, mi rispose. Eravamo a metà degli anni ottanta, quasi quarant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Quelle tracce di artiglieria le ho ancora in mente. È uno dei primi ricordi della mia infanzia.

In Ucraina era impossibile crescere senza accorgersi della violenza che quella terra aveva subìto. Ci arrampicavamo sui vecchi carri armati che adornavano i parchi e le piazze. Imparavamo la storia a cena, a scuola, dai racconti di fame e d’invasioni tramandati di generazione in generazione: dalla distruzione della Rus di Kiev nel duecento all’attacco nazista del 1941, fino alle purghe sovietiche. Negli anni ottanta il paese era una gigantesca fossa comune. Eppure ci dicevano che quella non era la storia dell’Ucraina, ma la storia dell’Unione Sovietica. Un’amnesia collettiva imposta dal Cremlino a tutte le repubbliche.

La storia dell’Ucraina moderna cominciò poco più di un secolo fa, alla fine della prima guerra mondiale, quando nuovi stati emersero dalle rovine degli imperi sconfitti in tutta Europa. L’Ucraina, però, fu divisa in due: da una parte le regioni orientali e centrali, annesse all’Unione Sovietica, dall’altra quella occidentale, in precedenza appartenuta all’impero austro-ungarico, unita alla Polonia. Da quel momento entrambe le regioni hanno vissuto decenni di sofferenze.

Varsavia, che aveva appena riconquistato la sovranità dopo 123 anni, non aveva intenzione di permettere lo sviluppo di un’identità ucraina nella Galizia orientale, e gli anni venti furono segnati da attacchi sempre più violenti contro la cultura, le chiese e le scuole ucraine. Quando i nazionalisti ucraini lanciarono una campagna di terrorismo e omicidi contro l’occupazione polacca, Varsavia rispose nel 1930 con una repressione brutale.

Tutto questo, però, impallidisce di fronte al genocidio compiuto da Stalin nell’Ucraina sovietica. Dal 1932 al 1933 i commissari sovietici sequestrarono grano e cibo ai contadini ucraini in nome della collettivizzazione, in una spietata ritorsione contro gli agricoltori indipendenti.

Da sapere
Censura e repressione

A due settimane dall’inizio della guerra, in Russia la repressione delle voci critiche verso il presidente Vladimir Putin e l’invasione dell’Ucraina è sempre più dura. Il 4 marzo il parlamento russo ha approvato un disegno di legge che punisce con il carcere fino a 15 anni chi diffonde notizie false sulla guerra in Ucraina, cioè chi non si attiene alla versione ufficiale del Cremlino, che vieta di usare la parola guerra e impone invece di chiamare il conflitto “operazione militare speciale”. Negli stessi giorni l’organo di controllo dei mezzi d’informazione russo, l’agenzia Roskomnadzor, ha disposto l’oscuramento di una serie di testate giornalistiche indipendenti, tra cui la radio Eco di Mosca, i canali tv Current Time e Dožd, il giornale online Meduza e i siti di Radio Liberty, Bbc, Deutsche Welle, Facebook e Twitter. “Ormai il linguaggio della propaganda del Cremlino è esplicitamente orwelliano. Dopo qualche giorno dall’inizio dell’offensiva contro l’Ucraina, i notiziari delle tv di stato russe, che sono la fonte primaria d’informazione per la stragrande maggioranza della popolazione, definivano la guerra ‘un’operazione per riportare la pace’. Quello che i russi vedono in tv sono solo bugie e odio, su grandissima scala”, scrive Masha Gessen sul New Yorker.

Molto forte è stata anche la repressione delle manifestazioni di protesta. Dopo i cortei organizzati il 6 marzo in sessanta città russe, la polizia ha arrestato più di quattromila persone, tra cui molti adolescenti. I dimostranti erano scesi in piazza rispondendo a un appello del dissidente Aleksej Navalnyj, in carcere dal 2020. “Per ora Putin può dormire sonni tranquilli”, scrive il settimanale polacco Tygodnik Powszechny. “Come rende noto il centro di ricerca statale sull’opinione pubblica, il 68 per cento dei russi appoggia ancora il presidente. Ma quelli che non lo fanno firmano petizioni, lettere e appelli per la pace. Sono soprattutto intellettuali: architetti, registi, scienziati. E sono una minoranza. Ma una minoranza molto significativa”. ◆


Quella strategia provocò una carestia apocalittica. Le persone morivano per strada. Gli ucraini erano costretti a mangiare polvere, erba, spazzatura. Ci furono casi di cannibalismo. Circa 3,9 milioni di ucraini morirono a causa di quello che è passato alla storia come holodomor, “morte per fame” in ucraino. Ma uccidere non bastava. Come insulto finale, Stalin vietò che si parlasse della carestia e si assicurò che le statistiche fossero modificate per nascondere le morti, come se quelle vittime non fossero mai esistite.

Meno di dieci anni dopo, i nazisti si impossessarono dell’Ucraina. Circa 1,5 milioni di ebrei ucraini furono uccisi, in gran parte dagli squadroni della morte Einsatzgruppen con l’aiuto di collaborazionisti locali, in quello che è ricordato come “l’olocausto dei proiettili”. A Babyn Jar, alle porte di Kiev, 33mila ebrei furono uccisi nell’arco di due giorni. Il massacro non si limitò agli ebrei. Diverse città, tra cui Charkiv, furono ridotte in macerie. Due milioni di ucraini furono rinchiusi nei campi di lavoro in Germania. E tornò la fame. In totale persero la vita tra i cinque e i sette milioni di ucraini. Circa duecentomila tatari di Crimea, musulmani che avevano vissuto in territorio ucraino per secoli, furono deportati dai sovietici in Asia centrale. Morirono in decine di migliaia.

Nuove cicatrici

La fine dell’occupazione tedesca non segnò la fine delle sofferenze, ma lasciò il posto al ritorno della repressione sovietica. L’Unione Sovietica non tollerava nessuna identità, individuale o nazionale, che sfidasse il suo dominio. Per quarant’anni la Russia ha metodicamente cancellato la lingua e la cultura ucraine, sostituendole con un kitsch sovietico fatto di stelle rosse, slogan e tomi di Lenin. L’identità ucraina era marginalizzata. Ricordo ancora quando a scuola ci mostravano disegni di contadini con le vyšyvánka (le camicie ricamate della tradizione ucraina), che sorridevano in modo beota sventolando bandiere sovietiche.

Il Cremlino cancellò anche il ricordo dell’Olocausto, considerato pericoloso perché rafforzava l’identità della comunità ebraica. Per decenni i corpi di centinaia di migliaia di ebrei rimasero abbandonati nelle fosse comuni naziste, senza nessuna targa commemorativa. Quando il regime consentiva la costruzione di monumenti, i morti erano definiti solo “pacifici cittadini sovietici”.

Nel 1986, quando ero ancora una bambino, ci fu l’esplosione della centrale nucleare di Černobyl. Mosca soffocò ogni dibattito sulla tragedia, nascondendola sotto una coltre di segretezza e propaganda. Tre anni dopo, i miei genitori, mia nonna, mia sorella e io (insieme a migliaia di altri ebrei) fuggimmo a Vienna. Nel 1991, dagli Stati Uniti, osservammo la scomparsa dell’Unione Sovietica e della cortina di ferro. L’Ucraina ritrovò la sua indipendenza, ma le promesse di democrazia svanirono presto in un’epidemia di corruzione.

Nel 2004, con la rivoluzione arancione, centinaia di migliaia di ucraini rovesciarono l’esito di un’elezione presidenziale segnata da gravissimi brogli. Nell’inverno del 2013-2014 milioni di persone hanno partecipato alla rivolta di Euromaidan. Poco dopo, però, la Russia ha annesso illegalmente la Crimea e i separatisti sostenuti da Mosca hanno lanciato una contro-rivolta nella parte orientale del paese. Mi chiedo se il nostro vecchio palazzo di Charkiv oggi abbia nuove cicatrici. Sempre che sia ancora in piedi. I miei amici statunitensi mi hanno scritto per esprimere la loro solidarietà e chiedermi cosa possano fare per aiutarci. Ad alcuni non ho risposto. Non riuscivo a farlo. Gli Stati Uniti vogliono un lieto fine, e io non avevo il coraggio di dire la verità: non c’è niente che possano fare, così come non c’è niente che io possa fare.

Ma forse non è così. Vladimir Putin ha scatenato una guerra che non è solo militare. Come i suoi predecessori al Cremlino, anche lui sta cercando di cancellare l’idea stessa dell’esistenza dell’Ucraina. Alla notizia di ogni nuovo bombardamento russo, però, mi sento più ucraino e mi aggrappo con più forza a quell’identità che prima i sovietici e poi la Russia hanno cercato di cancellare.

Spero che altri contribuiscano a far vivere l’Ucraina. Imparate la storia. Accendete una candela nel giorno del ricordo dell’holodomor, a novembre. Piangete i morti. Ricordate il nostro paese. ◆ as

Lev Golinkin è uno scrittore statunitense di origine ucraina. Ha scritto Uno zaino, un orso e otto casse di vodka (Baldini+Castoldi 2017).

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Questo articolo è uscito sul numero 1451 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati