Verso la fine di luglio sono uscite due notizie correlate: un’allerta fame per i trecentomila rifugiati del campo di Kakuma, in Kenya, e un avvertimento lanciato da alcune organizzazioni umanitarie sulla possibilità che gli 1,4 milioni di sfollati nello stato di Borno, in Nigeria, potessero essere reclutati dal gruppo jihadista Boko haram. L’autrice, una giornalista della Bbc, le ha collegate alla fine degli aiuti statunitensi che, in un caso, finanziavano le razioni alimentari, nell’altro i trasferimenti di denaro alle famiglie. Il sottotesto era esplicito: la fine dell’agenzia statunitense Usaid è una catastrofe per lo sviluppo.
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Poco dopo l’inizio del suo secondo mandato il presidente statunitense Donald Trump ha chiuso l’agenzia e ne ha trasferito i resti al dipartimento di stato. Il segretario di stato Marco Rubio ha precisato che tutti gli aiuti sarebbero stati attentamente esaminati per verificarne la coerenza con il programma America first. Trump ha proclamato che gli Stati Uniti non avrebbero più “dilapidato ciecamente soldi senza un ritorno per il popolo americano”.
I cinici potrebbero sostenere che gli aiuti di Washington sono sempre stati una questione di “prima l’America”, visto che spesso erano vincolati a “partner attuatori” statunitensi e gli “aiuti” alimentari sovvenzionavano gli agricoltori americani. L’approccio transazionale adottato dagli Stati Uniti – che affidando gli aiuti al dipartimento di stato li legano esplicitamente alla politica estera – non è una novità. Nel 2013 quasi la metà dei paesi donatori appartenenti all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) avevano inglobato i propri dipartimenti per la cooperazione allo sviluppo in quelli degli affari esteri. Tra questi, Australia, Canada, Islanda, Nuova Zelanda e Regno Unito. In seguito alle fusioni gli aiuti sono diminuiti: nel 2024 i fondi destinati da questi paesi all’Africa subsahariana sono calati del 28 per cento. Solo la Norvegia, il Lussemburgo, la Svezia e la Danimarca hanno raggiunto l’obiettivo fissato dalle Nazioni Unite di donare lo 0,7 per cento del loro reddito nazionale. Gli Stati Uniti non l’hanno mai raggiunto: nel 2024 hanno destinato solo lo 0,22 per cento. In ogni caso il loro contributo, pari a 63,3 miliardi di dollari, li rendeva il primo donatore al mondo.
La festa è finita
Possiamo quindi dire che l’epoca d’oro degli “aiuti” è finita. E possiamo considerare conclusi i dibattiti sulla loro efficacia. L’unica parola d’ordine sopravvissuta nel settore è “3d”, cioè allineare lo sviluppo (development) alle priorità diplomatiche e di difesa dei donatori.
La festa è finita anche per l’Onu. A maggio aveva ricevuto solo 1,8 dei 3,7 miliardi di dollari previsti: gli Stati Uniti, i debitori più importanti, erano in arretrato di 1,5 miliardi di dollari (seguiti dalla Cina con 597 milioni di dollari). Questi arretrati non saranno pagati, visto che l’amministrazione Trump detesta l’Onu almeno quanto la Usaid. A settembre, quando Trump ha pronunciato il suo discorso di condanna davanti all’assemblea generale, gli arretrati statunitensi erano saliti a tre miliardi di dollari. L’Onu ora prevede di tagliare del 20 per cento il personale, ridurre i bilanci e unificare alcune agenzie.
Gli effetti di questi tagli si vedono sul campo. Il Sudan ha ricevuto solo il 13 per cento dei 4,2 miliardi di dollari richiesti dall’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari. Nel campo di Kakuma, oltre che in Niger, Libia e altrove, i rifugiati soffrono la fame e protestano. Non ci sono più soldi né provviste da distribuire gli sfollati in Nigeria.
Quale sarebbe la risposta appropriata da parte dell’Africa? Di sicuro non le lamentele. Gli aiuti hanno creato nei paesi africani un incentivo perverso a sottrarsi alle proprie responsabilità. I profughi che soffrono la fame sono un problema per il paese che li ospita. L’insicurezza che li ha costretti a fuggire è un problema del loro paese d’origine. Nelle notizie su Kenya e Nigeria la giornalista della Bbc non chiedeva cosa stessero facendo i paesi africani. Il giornalismo che si occupa di sviluppo raramente li chiama in causa. L’intemperanza dell’amministrazione Trump offre l’opportunità di liberarci dagli incentivi perversi degli aiuti. I rifugiati di Kakuma e gli sfollati del Borno non meritano niente di meno. ◆ gim
Lynne Muthoni Wanyeki è una politologa e attivista per i diritti umani keniana. Dirige la sezione africana di Open society foundations.
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Questo articolo è uscito sul numero 1643 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati