Eccolo dunque, il guerrigliero disarmato. L’appuntamento è a un chiosco di Stung Treng, verso la fine del viale alberato che affaccia sul Mekong. Alcuni edifici francesi risparmiati dalla guerra civile conferiscono ancora una patina coloniale a questa città fluviale nel nordest della Cambogia. Il tramonto allunga tenui striature violacee sul grande fiume, le ghirlande di luci colorate dei ristoranti si riflettono sull’acqua. Il giovane, vestito di verde militare, ha l’aria guardinga. Rimane vicino alla motocicletta, evidentemente pronto a scappare in ogni momento. Ci accoglie con un sorriso pacifico e luminoso, ma gli occhi nerissimi restano vigili, tradiscono l’abitudine a stare in guardia. E forse una maggior dimestichezza con le insidie della giungla rispetto al caos di questo lungofiume.

Parlarsi è difficile: i piani alti dei palazzi sono usati per allevare una specie particolare di rondini, attratte con degli altoparlanti che emettono garriti artificiali assordanti, una colonna sonora che sovrasta perfino quella dei clacson degli scooter, e che invita questi uccelli a costruire qui i loro nidi impastati con la saliva. Sono migliaia, destinati al mercato cinese, dove i ristoranti più raffinati li comprano a più di duemila dollari al chilo.

Noi però siamo qui per raccontare un altro giro d’affari, quello del pregiato legname cambogiano. Alcune varietà, per esempio il palissandro, costano quanto la saliva di rondine. Anche il legno finisce in Cina. O, con l’inganno, in Europa.

La Cambogia detiene il record mondiale per il disboscamento illegale. Secondo la ong Amnesty international, tra il 2001 e il 2020, ha perso circa 2,5 milioni di ettari di foresta, un’area equivalente alla Sicilia. Stando ai dati del Global forest watch nella foresta pluviale cambogiana, un tempo definita “Amazzonia del sudest asiatico”, su dieci alberi tagliati, nove sono abbattuti illegalmente. I taglialegna sono per lo più braccianti impoveriti, i ranger fanno da palo, mentre i mandanti si trovano nei palazzi del potere della capitale Phnom Penh. Il bottino è contrabbandato in Vietnam e da qui esportato all’estero: nel 2022 legname e derivati hanno fruttato 16,3 miliardi di euro, e dal 2015 le esportazioni vietnamite di mobili sono cresciute in media del 2 per cento ogni anno.

L’imboscata

“Ci sarà un carico stanotte”, dice a bruciapelo il giovane. Si chiama Heng Sros, è nato nell’anno del maiale, ha 27 anni ma è già un “guerrigliero” veterano. Nella foresta le sue armi sono il gps, la telecamera e un taccuino per documentare il colossale saccheggio. Combatte una battaglia impari e pericolosa. Perché questo attivista in sella alla sua Honda Dream 125 non è un Don Chisciotte che si scaglia contro nemici immaginari. I suoi rapporti sui “cartelli della motosega” toccano gli interessi della classe dirigente del paese e in molti lo preferirebbero morto.

Quando lo incontriamo è appena rientrato da un pattugliamento al confine con il Vietnam, sul telefono mostra un video in cui si vedono camion militari che trasportano legno rosso oltre la frontiera: alberi di narra e palissandro thailandese, tutti elencati nella lista delle specie minacciate.

Heng è in contatto con i suoi informatori nei villaggi del distretto settentrionale di Stung Treng, tra il Mekong e la Prey lang, 3.600 chilometri quadrati di foresta dichiarata protetta dal governo al solo scopo di abbattere alberi in santa pace. La soffiata è attendibile, dice. Non si sa quanto legno sarà trasportato né dove sarà diretto, ma la fonte, un contadino della comunità indigena kuy, conosce il punto della boscaglia da cui i criminali usciranno per raggiungere il Mekong. Così ci ritroviamo in piena notte a seguire per quasi due ore le moto di Heng e del suo devoto scudiero lungo una strada sconnessa che affianca il fiume in direzione sud.

L’aria è calda e l’odore della polvere si confonde con il profumo ammaliante del frangipane. Attraversiamo una campagna piatta, interrotta solo ogni tanto da qualche nucleo di case sparse, fatte di legno e sollevate da terra come palafitte. Di solito Heng si muove nelle notti più buie, ma oggi la luna è enorme, sembra di poterla colpire con un sasso. Rischiara i campi di riso, gli appezzamenti di banani e manghi, si riflette sul Mekong inondandolo di una luce blu metallico.

Arrivati ai margini della Prey lang dobbiamo nasconderci. Heng punta subito verso l’unica abitazione, bussa con decisione, sveglia il proprietario e lo informa bruscamente che ci accamperemo in una stanza che si affaccia sulla strada. L’uomo in mutande acconsente senza fiatare, nessuna domanda. “Il viandante è sempre ben accolto”, spiega Heng, “purché se ne vada alle prime luci dell’alba”. Ma c’è dell’altro: è l’istintiva arrendevolezza sedimentata nel carattere dei cambogiani durante la stagione delle sanguinose epurazioni dei Khmer rossi. Nelle campagne il terrore seminato più di quarant’anni fa da Pol Pot ha messo radici profonde. E il regime filocinese del premier Hun Sen domina il paese dal 1979 sfruttando questa paralisi delle coscienze. “È un trauma inestirpabile, difficile da spiegare”, racconta Heng sottovoce, mentre siamo seduti sui calcagni dietro un muretto ad aspettare il carico per l’imboscata. “Nessuno ne parla, è un tabù collettivo. Sono cresciuto in una famiglia di contadini, mia madre non accetta la mia ribellione,ha il terrore che mi metta contro i potenti. M’implora di nascondere le mie idee e la mia formazione, perché ricorda cosa fecero i Khm­er rossi a chi possedeva un’istruzione. Teme che m’ammazzino”.

Potrebbe succedere. D’altronde è ritenuto l’erede di Chut Wutty, il leader ambientalista che denunciò per primo il ruolo dei militari nella distruzione della Prey lang. Nel 2012 fu ucciso a un posto di blocco vicino al confine con la Thailandia. “Ero ancora un monaco allora, e con gli altri fratelli avevamo già celebrato varie cerimonie di ordinazione degli alberi nella Prey lang. Avvolgevamo i tronchi con la veste buddista, consacrandoli per dissuadere i trafficanti”, racconta Heng. “Ma le persone avevano paura di denunciare. La foresta da cui dipendevano la tradizione e la vita dei villaggi spariva e tutti tacevano. Il sacrificio di Wutty mi ha convinto a seguire il suo esempio. Ho abbandonato l’abito monacale e ho cominciato la mia battaglia”.

Per finanziarla ha venduto tutto ciò che aveva, compreso un terreno ereditato dalla madre. “Per il governo sono un fuorilegge, come qualsiasi ribelle. La parola oukteam, ribellione, è appena stata proibita per decreto. È pericoloso anche pronunciarla”. Heng riceve continue minacce di morte: un trafficante ha promesso pubblicamente di farlo a pezzi con il machete, alcuni giornalisti vicini al regime gli avrebbero offerto denaro per conto del governo. Nel 2021 è stato arrestato perché era entrato insieme ad altri attivisti nella Prey lang a filmare il trasporto illegale di grandi carichi di teak nei depositi dell’azienda sudcoreana Think Biotech. I ranger hanno incarcerato lui e festeggiato con i trafficanti. Quando, dopo cinque giorni, è stato rilasciato, gli è stato vietato l’accesso nella provincia di Kratié e di parlare con i giornalisti.

Improvvisamente scarta di lato, dalla boscaglia filtra il bagliore dei fari, e subito dopo arrivano gli scoppi di un motore che arranca. È un koyun, un bufalo meccanico nel gergo dei coltivatori di manioca, il trattore da traino a due ruote capace di affrontare anche i terreni più impervi. Frenando sembra sbandare fuori controllo. Il carico dei preziosi tronchi che s’intravede sotto la cerata è così pesante che impiega una decina di metri per fermarsi. Heng e il suo scudiero puntano le torce in faccia al ragazzo alla guida. Va nel panico, con gli occhi spiritati, confonde il freno con la frizione e tutto traballa pericolosamente. Altre due persone lo seguono su una motocicletta di scorta modificata con triple sospensioni posteriori, il mezzo tipico dei ladri di legname della Prey lang. Non sanno cosa fare, hanno l’aria minacciosa. Forse sono armati. Poi comincia un interrogatorio incalzante. Il conducente balbetta, risponde con una serie di “non lo so, fratello”. Poi ammette che trasporta palissandro, non può dire quanto vale al metro cubo, ci sono più di venti tronchi nel rimorchio. Li consegnerà a un punto stabilito sulla riva del Mekong. Da lì il carico viaggerà via fiume.

“Dimmi la verità! Per chi lavori, fratello?”, chiede Heng.

“Per conto mio”, risponde il trafficante.

“Paghi mazzette per poter tagliare e trasportare?”.

Il villaggio di Siem Bouk, sulle rive del fiume Mekong, Cambogia, gennaio 2022  (Nanni Fontana e Massimo Di Nonno)

“Sì, divido i soldi con altre persone. Per stare tranquillo”.

“Hai pagato lungo la strada, hai pagato i poliziotti?”.

“Non posso dirlo, fratello. Io vivo qui”.

“Paghi anche i ranger?”.

“Pago perché mi lascino in pace, mi fanno lavorare solo con il buio”.

L’attivista Heng Sros. Siem Bouk, Cambogia, gennaio 2022 (Nanni Fontana e Massimo Di Nonno)

“Trasporti ogni notte?”.

“No fratello, ogni tre notti. Ma lasciami andare…”.

Heng registra tutto con il telefono, insiste sulle cifre, vuole ricostruire i vari passaggi di denaro per capire quanto vale il mercato illegale prima della consegna al fiume, dove comincia tutta un’altra filiera clandestina che porta fino al Vietnam. Il trafficante stanotte tratterrà per sé circa duecentocinquanta dollari. Sono tanti soldi in una regione in cui un bracciante nelle piantagioni è pagato 6,25 dollari al giorno e un operaio tessile ne guadagna al massimo duecentotrenta al mese.

Il carico riparte in un turbinio di polvere che volteggia a lungo nell’aria, oscurando i primi bagliori dell’alba. Rimaniamo sulla pista con un senso di pena per il giovane trafficante impaurito, ma anche di rabbia, per quei tronchi che dopo trenta, quarant’anni abbandonano la loro foresta ballonzolando verso il Mekong e il mondo. Vorremmo seguirli, ma Heng dice che sarebbe troppo rischios0.

Nella foresta

“Dal 2016 perdiamo più alberi, da quando la Prey lang è diventata una foresta protetta”, dice Houn Sopheap, 45 anni, uno dei capi della comunità indigena kuy, mentre ci guida verso la terra del nemico, quella presidiata dai ranger. Siamo nella provincia di Kampong Thom, nella Cambogia centrale, la terra ancestrale dei kuy, il popolo della foresta, che ora non può più metterci piede. “Finiremo come le tigri”, dice Sopheap. “Sono scomparse durante i bombardamenti dell’esercito statunitense ma poi sono tornate. C’erano le tane quando ero ragazzo. Ora sono sparite per sempre perché hanno rubato il loro habitat, proprio come lo stanno rubando a noi”.

Il palazzo reale di Phnom Penh, Cambogia, gennaio 2022 (Nanni Fontana e Massimo Di Nonno)

Il paradosso è che stiamo attraversando la cosiddetta bocca della tigre, un fazzoletto di foresta, ormai ridotto a sottobosco, a cui la popolazione locale può accedere per raccogliere funghi ed erbe selvatiche o per procurarsi il legno strettamente necessario alle costruzioni. Confina con il lembo sudoccidentale della Prey lang, chiamato testa di tigre. Tutto insomma evoca il grande felino, che però qui si è estinto: l’unico ruggito udibile è quello della motosega.

Sopheap vive ai margini del villaggio di Sandan insieme a un nutrito clan familiare, in una delle capanne rialzate più povere della zona. È il “capo” di una decina di uomini della sua comunità, militanti che rivendicano il diritto d’accesso alla foresta e fanno parte del Prey lang community network (Plcn). Camminiamo in fila indiana nella boscaglia, Sopheap e i suoi ci portano fino alle briciole di foresta di cui devono accontentarsi. “Il ministero dell’ambiente non protegge gli alberi, ma chi li taglia”, dice Sopheap, masticando nervoso una foglia di cardamomo. “Ci tengono fuori dalla Prey lang per permettere ai ranger di gestire senza testimoni gli abbattimenti illegali e ai generali di organizzare i carichi”. Il sentiero s’allarga in uno spiazzo in cui si trova un piccolo tempio coperto da un tetto di legno, il gruppo si raduna per implorare la protezione degli spiriti. In mancanza dell’incenso, nelle crepe dell’altare animista infilano sigarette accese, e finita la preghiera tutti rimettono i mozziconi tra i denti. Quando la vegetazione diventa più intricata, gli uomini raccolgono rami di chheu phleung, l’albero del fuoco, che una volta macerato è usato per pescare: immerso nelle pozze, l’acqua diventa gialla e i pesci salgono a galla. Mentre la corteccia è benefica per chi ha partorito da poco, raccontano.

Per i kuy la foresta pluviale è una farmacia e una riserva di miele selvatico. Soprattutto era l’unica fonte di reddito fino a quando hanno posseduto alberi di resina, tramandati per testamento di padre in figlio. Ne incontriamo uno dal fusto altissimo, avrà sessant’anni ed è in salute nonostante l’ampia voragine fuligginosa scavata nel basso tronco, in cui è appiccato il fuoco che serve per liquefare la resina da raccogliere. “Questo albero produce fino a quaranta litri di resina all’anno”, dice Set Semt, 58 anni. La sua famiglia aveva acquisito il diritto di sfruttare settecento alberi nella Prey lang. E lui stesso fino a qualche anno fa vendeva la resina al mercato di Kampong Thom a 2.500 riel al chilo, circa sessanta centesimi di euro. Nei villaggi si usava come combustibile per le lanterne o come antibiotico, mescolata con la cera d’api. Oggi è un prodotto molto richiesto per laccare il legno e per rendere impermeabile lo scafo delle barche. Ma Set ha dovuto rinunciare alla sua miniera di resina, come il suo compagno Plouk Chan, quarant’anni, che aveva ereditato novecento alberi dal padre, finché nel 2016 il governo ha dichiarato la Prey lang una riserva naturale e per loro è diventata proibita.

La foresta è di fatto una proprietà privata, per lo più in mano ad aziende straniere, vietnamite, malesi e cinesi, che hanno ottenuto le concessioni per 99 anni. Si chiama Economic land concession ed è stata la madre di tutte le leggi che consentono di svendere il paese: un meccanismo, oliato con la corruzione, che avrebbe dovuto far sviluppare il settore agroindustriale e attirare investimenti, concedendo a privati lo sfruttamento di vasti terreni demaniali. Foreste incluse. In teoria, le grandi piantagioni di alberi della gomma, di manioca o banane dovevano generare guadagni per lo stato e occupazione nelle aree rurali. In realtà le concessioni sono quasi sempre usate come coperture per disboscare. La vera ricchezza della Cambogia è il legno. Infatti, dopo aver prelevato gli alberi i terreni sono spesso abbandonati. La destinazione ad area protetta è stata un trucco per sbarazzarsi della comunità kuy: sulla carta le aziende private possono tagliare solo in modo selettivo, in realtà disboscano impunemente per piazzare legno pregiato sul mercato clandestino o per fare posto agli alberi della gomma, fondamentali nell’industria degli pneumatici.

Nel 2019 Sopheap e i suoi uomini volevano partecipare a una cerimonia buddista nella regione di Preah Vihear. S’erano dati appuntamento con altri gruppi di attivisti del Plcn per spargere incensi nella foresta e consacrare alcuni alberi secolari cingendoli con le vesti arancione, come faceva Heng, quando era monaco. “Ranger e agenti del ministero dell’ambiente hanno bloccato le delegazioni. “Ci hanno tenuti nella foresta per un giorno e una notte”, dice Sopheap. “Alcuni sono stati picchiati”.

Per capire come il massacro della foresta pluviale sta stravolgendo questa regione nel bacino del Mekong e le comunità rurali, decidiamo di rimanere qualche giorno nella sede del Plcn, il fortino dei ribelli di Sandan nascosto in una delle poche macchie di vegetazione rimaste. I kuy faticano a distinguere gli effetti della crisi climatica da quelli del disboscamento, sanno però che le due cose messe insieme sono una bomba devastante. “Più abbattono gli alberi meno pioggia cade”, dice Sopheap, sempre piuttosto cupo in volto, a tratti diffidente. “Ormai la stagione umida non finisce più a ottobre ma ad agosto. La foresta tratteneva l’acqua, bastava scavare un metro per trovarla. Oggi, senza gli alberi, la falda si trova a dieci, venti metri di profondità”.

Nel villaggio l’unico modo per sopravvivere è coltivare nelle aree disboscate: riso, anacardi e soprattutto manioca, di cui la Cambogia è il quarto produttore in Asia. A Sandan la manioca è diventata quasi una monocoltura, piramidi di tuberi segnano il paesaggio tutt’intorno a questo villaggio di cinquemila abitanti. I proprietari sono vietnamiti e thailandesi che rivendono sul mercato cinese mangimi, amido ed etanolo. Chi prova a mettersi in proprio, spiega Sopheap, deve sostenere molte spese, s’indebita e torna a fare il bracciante. La motosega diventa l’unico strumento per uscire dalla povertà.

Le cose sono però più complicate di quel che sembra e, come in tutte le piccole comunità, il confine tra verità e maldicenza è sottile. In pochi sono disposti a parlare e giriamo a vuoto tra le promiscue abitazioni del villaggio, in cui bambini, galline, cani e mucche sembrano di tutti e di nessuno. Il primo a lanciare l’accusa è un falegname, nella sua bottega vicina al mercato: “Sopheap e i suoi uomini fanno affari con i trafficanti. Con la scusa di pattugliare coprono le spalle ai loro familiari che abbattono gli alberi più pregiati. Qui lo sanno tutti”. Dice che la gente ha paura di esporsi, ma a lui non importa più niente, perché è un uomo fallito e disperato: “Non trovo più legno, nemmeno al mercato nero. Sono un falegname, lavoro a poche centinaia di metri da una foresta ma mi manca la materia prima per vivere, mi spiego?”, dice mentre continua a intagliare la testata d’un letto con motivi floreali. “Quando è cominciato il traffico di palissandro con la Cina la domanda è esplosa, così sono passato al legno di seconda scelta, poi a quello di terza, ma ora non posso permettermi neanche questo. Il mercato nero funzionava bene: chi deve costruire una casa o ripararla ottiene un permesso speciale per procurarsi il legno necessario nell’area forestale riservata alla comunità e taglia un paio di metri cubi in più da rivendere di nascosto. Fino a sette anni fa pagavo duecento dollari un tronco di seconda categoria. Ora non bastano duemila dollari per uno di terza”.

Le accuse del falegname alla squadra del Plcn sono difficili da verificare. Ma non sono le sole. Un pomeriggio siamo invitati a mangiare degli ottimi num ansom check, degli involtini dolci di banana e riso, a casa di Lim Hour, 56 anni, detto il Cinese per via delle origini della madre. Oggi è uno degli uomini più in vista del villaggio, affitta metà dello spazio del mercato coperto, gestisce un albergo e un emporio. È arrivato a Sandan quando aveva nove anni a bordo di un camion di deportati, diretto a un campo di lavoro qui vicino. “Pol Pot voleva creare la razza pura cambogiana, e io ero troppo chiaro di carnagione”, ironizza. Ha cominciato come meccanico di biciclette per strada, in cambio di qualcosa da mangiare. Sappiamo che quando i ranger arrivano al villaggio alloggiano da Lim, gli scooter con l’insegna del ministero dell’ambiente sono parcheggiati nel cortile. Sono collusi con i trafficanti? “Non solo loro”, risponde perentorio. “In Cambogia quasi tutti quelli che dovrebbero proteggere la foresta la distruggono”. Lim ne ha anche per la terra dei suoi avi materni. Ci fa salire sul tetto dell’albergo e indica la catena di alte colline che interrompe la piana disboscata a est del villaggio: “Siamo diventati un protettorato di Pechino. Fanno quel che gli pare e prendono quel che vogliono. Hanno disboscato per scavare una miniera d’oro laggiù, ci sono i posti di blocco dove non passano neanche i militari”. E aggiunge: “Stanno comprando i terreni a monte del fiume Stung Sen per creare uno sbarramento. In Cambogia esiste una moratoria che impedisce di costruire dighe sul Mekong, ma i cinesi le edificano sui suoi affluenti. Quando i vasi sanguigni si restringono, il cuore riceve meno ossigeno. E può portare all’infarto”.

Un cartellone elettorale del Partito popolare cambogiano nel villaggio di Srae Chang, Cambogia, gennaio 2022  (Nanni Fontana e Massimo Di Nonno)

Sul fiume

Il borbottio della barca accompagna, come un sommesso requiem, il nostro pellegrinaggio fino al cimitero degli alberi. Stiamo risalendo da quasi due ore l’ultimo tratto del Mekong cambogiano verso il confine con il Laos, e quelle migliaia di giganteschi spettri che emergono dalle rive del fiume, come carbonizzati dal napalm, non hanno mai smesso d’allungare i loro osceni tentacoli neri, implorando silenzio e rispetto per la morte della foresta. Un paesaggio anfibio di rovine che evoca immagini di guerra, e l’angoscia diventa sconfinata come il Mekong quando i nostri colleghi fotoreporter, Massimo Di Nonno e Nanni Fontana, alzano il drone sull’intero alveo del fiume. È uno sterminio. Alcuni alberi morti hanno dei tronchi incastrati fra i rami a molti metri d’altezza. “Sono lì da anni, da quando il livello del fiume, tra agosto e settembre, saliva anche di dieci metri. Ora non supera i cinque”, ci dice Kong Chanty, 55 anni, capo della comunità di pescatori di O’Svay.

Quando Kong spegne il motore siamo a poche centinaia di metri dall’ultima diga piazzata appena oltre il confine con il Laos. “È stato il colpo di grazia”, dice. È la tredicesima eretta lungo il corso del fiume, undici sono in Cina e due in Laos, per produrre energia e irrigare campi sempre più aridi. Quando arriva in Cambogia il fiume è un gigante esangue. Nella lingua khmer mekong significa “marrone-fango”, ma ora si naviga nel blu. “Le dighe trattengono gran parte dei sedimenti, l’acqua scende lenta”, spiega Kong. La portata non è sufficiente per trasportare fino al delta i sedimenti che si depositano sul fondo riempiendo le fosse che in questa regione rendevano il Mekong il fiume più pescoso del mondo. Qui nella stagione secca si riproducevano più di quattrocento specie di pesce.

In Cambogia l’“ecosistema Mekong”, con la sua alternanza tra stagione umida e secca, è andato in cortocircuito. Non solo per gli effetti della crisi climatica, aggravati dal disboscamento selvaggio, ma anche a causa delle dighe: l’acqua viene rilasciata quando e come decide la Cina e anche nel periodo dei monsoni è troppo poca e lenta. Le fosse ricolme di sedimenti, invece, impediscono al livello dell’acqua di abbassarsi a sufficienza anche durante la stagione secca, e così vaste aree di foresta restano allagate per troppi mesi all’anno, uccidendo gli alberi. Anche il plancton marcisce, non nutre i pesci e avvelena le piante.

Il Mekong, dice il pescatore, univa i popoli del sudest asiatico, superando le differenze politiche e i conflitti: “Era il fiume di tutti, oggi ogni nazione lo sfrutta a scapito delle altre. Le dighe lo hanno trasformato in un campo di battaglia”. C’è il cimitero degli alberi, e c’è il lutto dei pescatori: “Ognuno pescava fino a una tonnellata di pesce all’anno, ora non si riesce più a sfamare tutta la famiglia”.

E così sono diventati ribelli, e quindi fuorilegge, anche i pescatori. Si battono contro le dighe e la rapina della foresta. Perché tutto si teneva nell’ecosistema Mekong, alberi, pesci e spiriti. L’equilibrio è saltato in fretta. In pochi anni è quasi sparito il trei kol raing, una specie di barbo gigante con la testa a forma di serpente, una prelibatezza d’acqua dolce. Un giorno al mercato del pesce di Stung Treng si è creata una piccola ressa: non erano forestieri, erano casalinghe e pescatori locali, contemplavano un esemplare da dieci chili che solo cinque anni prima stava tutti i giorni su ogni banco.

In un paese in cui nessuno paga le tasse, gli oknha sono la cassaforte del regime filocinese di Hun Sen”, dice una fonte diplomatica europea

Sul lago

Siamo andati sul fronte più caldo, il Tonlé sap, il bacino d’acqua dolce più grande del sudest asiatico. Le guide turistiche descrivono ancora Kampong Khleang, la meta più conosciuta per le pittoresche case colorate, come il paradiso dei pescatori. C’è anche chi in passato ha fatto una stima secondo cui il pesce del Tonlé sap costituiva il 60 per cento dell’apporto proteico dei cambogiani. La maggior parte delle duemila famiglie del villaggio vive ancora di pesca. Ma in cinque anni, come dice il vicepresidente dell’associazione dei pescatori, Chea Kchong, sono passati da trecento a trenta chili al giorno: “Il crollo definitivo c’è stato nel 2017, dopo la costruzione dell’ultima diga. Ma l’ecosistema era già compromesso”.

Chea si riferisce alla meraviglia di un fenomeno d’ingegneria idraulica naturale unico al mondo. Durante la stagione delle piogge, il livello del Mekong sale e le sue acque si riversano nel lago attraverso un affluente di 115 chilometri. L’area del Tonlé sap aumenta di cinque volte, superando i 15mila chilometri quadrati. Nella stagione secca, è il lago che alimenta il Mekong, rifornendolo di acqua e di pesci. “Il lago si alzava puntuale ogni 10 di giugno, in quei giorni si ballava e ci si sposava. Il suo livello passava da due a quattordici metri. Ora si riempie ad agosto, perché i cinesi colmano i loro bacini idroelettrici a monte, e non supera gli otto metri. I nostri figli scappano nelle città, i pescatori per sopravvivere diventano braccianti o entrano nel traffico del legno”, dice Chea.

Attraversiamo il lago fino a Moat Khla, il villaggio galleggiante ancorato ai margini della foresta sommersa: “Qui tagliano gli alberi soprattutto per fare spazio alle piantagioni, perché il terreno è fertilissimo. E poi incendiano la foresta per creare pascoli umidi, adatti all’allevamento dei bufali”. In 72 anni di vita, passata tutta sulla sua chiatta esposta alle insidie dell’acqua e del vento, il capovillaggio Chheung Hok deve affrontare per la prima volta il pericolo del fuoco. Quando lago e foresta erano in armonia i problemi per le circa trecento famiglie erano altri, per esempio conservare i corpi dei defunti sugli alberi in attesa della secca per poterli seppellire. “Ora non sappiamo più dove sono finite le anime dei morti, è questo il peggior tormento”, dice Chheung mentre getta interiora di pesce in una gabbia agganciata alla chiatta piena di giovani coccodrilli. “Lo spirito dei nostri cari abita negli alberi, e noi li abbiamo sempre riconosciuti e adorati. Ma ora non ci sono più. Tagliare i tronchi significa attirare la maledizione dei morti, e infatti li abbattono gli stranieri. I locali appiccano il fuoco per non sentirsi in colpa. Ma noi li malediciamo, la loro stirpe non avrà mai pace”.

Alla confluenza

Oknha è una parola ricorrente nei rapporti di Heng e nei dossier della Global initiative, l’ong svizzera che indaga sui crimini transnazionali e ambientali, e che ha confermato le pesanti accuse lanciate dagli attivisti sul coinvolgimento del regime di Phnom Penh nel traffico illegale di legname verso il Vietnam e da lì in Europa. Sono l’equivalente degli oligarchi russi, solo che Vladimir Putin li elimina se non stanno alle regole, mentre in Cambogia sono gli oknha a tenere in pugno il premier Hun Sen: l’autocrate può continuare a governare, come fa da decenni, solo se loro possono continuare a fare miliardi svendendo la Cambogia. “Si sono moltiplicati e sono i padroni assoluti in ogni settore. In un paese in cui nessuno paga le tasse, gli oknha sono la cassaforte del regime filocinese di Hun Sen”, ci dice un’importante fonte diplomatica europea a Phnom Penh. “Gestiscono le concessioni del demanio affidate alle compagnie straniere e la deforestazione, tenendo a libro paga il partito del premier, funzionari del governo e generali. Se il governo sta consegnando il paese chiavi in mano alla Cina è anche perché i cinesi sono i migliori clienti di questi criminali. Il 90 per cento degli investimenti stranieri arrivano da Pechino, l’occidente non tocca palla”.

“La questione ambientale è una faccenda politica e geopolitica”, ci dice il professore Bradley Murg. È un uomo di peso nella capitale, non tanto per la notevole stazza, ma perché è lo statunitense che denuncia con poca diplomazia il saccheggio delle foreste e la costruzione di dighe cinesi sul Mekong, in un paese che ancora odia profondamente gli Stati Uniti. È ricercatore al Cambodia institute for cooperation and peace e sa che qui nessuno ha dimenticato i duecentocinquantamila morti causati dai bombardamenti statunitensi. Secondo Murg la tragica storia del paese ha ritardato lo sfruttamento delle risorse, a differenza di quanto è successo in Thailandia, in cui le foreste sono state spianate da tempo per far posto al riso e alle strade. Quando i cambogiani hanno smesso d’ammazzarsi fra loro hanno cominciato a massacrare gli alberi: oggi i vietnamiti sfruttano le stesse foreste in cui nascondevano le armi durante le guerre contro francesi e statunitensi.

Da sapere
La deforestazione nel mondo
Perdita di foreste primarie tropicali nel 2021 per paese, percentuale (Fonte: World resource institute)

L’ultimo incontro, in questo viaggio al capezzale dell’Amazzonia cambogiana, è stato con Neth Pheaktra, potente sottosegretario e portavoce del ministero dell’ambiente, soprannominato dagli attivisti “ministro della deforestazione”. Il palazzo del ministero rappresenta la ­­Phnom Penh moderna del nuovo quartiere degli affari, in cui spicca la sede dorata della Bank of China, con vista sulla confluenza tra il Mekong e il fiume Tonlé sap. Pheaktra è a suo agio e bendisposto, ha una lista di risposte dietro cui trincerarsi.

Perché la Cambogia registra il tasso di deforestazione più alto del mondo?

“È falso”, dichiara il sottosegretario. “Il problema riguarda tutta l’Asia perché la popolazione aumenta e ha bisogno di spazi da coltivare e dove abitare”.

Che cosa risponde alle accuse che il suo ministero è direttamente coinvolto nel traffico illegale di legno pregiato?

“Non tagliamo gli alberi, ci servono per finanziare la conservazione della foresta e della biodiversità attraverso l’acquisto di crediti di carbonio e l’ecoturismo”.

Gli attivisti, primo tra tutti Heng Sros, hanno dimostrato che la deforestazione della Prey lang è un crimine di stato. Che cosa replica?

“Noi accogliamo la collaborazione di tutti, a patto che rispettino la legge. Quelli che avete citato sono oppositori politici, prendono soldi dall’estero per screditare il governo. Se infrangono la legge e agiscono contro la stabilità della Cambogia sono semplicemente terroristi”. Dopo la notte dell’imboscata sull’argine del Mekong, Heng ci ha elencato diciassette aziende coinvolte nel traffico di legno in sei province, riconducibili ad altrettanti oknha: “Ho inviato un rapporto dettagliato al ministero dell’ambiente, con foto e registrazioni. Con le prove del coinvolgimento di un generale e della polizia militare, del passaggio dei camion in Vietnam, dei certificati falsi che servono per esportare il legno in Europa. Niente, l’hanno respinto”. Ci ha lasciato con un appello: “L’Europa non deve continuare ad acquistare legname dal Vietnam, è legno rubato alle nostre foreste. Se vuole difendere l’ambiente e combattere la crisi climatica, l’Europa deve smettere di essere complice di questi crimini”. ◆

Marzio G. Mian è un giornalista e scrittore italiano. Il suo ultimo libro è Guerra bianca. Sul fronte artico del conflitto mondiale (Neri Pozza 2022).

Nicola Scevola è un giornalista italiano indipendente, affiliato al Pulitzer center di Washington, negli Stati Uniti.

Questo reportage è stato realizzato grazie al supporto del Pulitzer center di Washington, negli Stati Uniti.

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Questo articolo è uscito sul numero 1497 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati