Sono pulito da più di vent’anni. Lasciatemi spiegare con un esempio il problema della dipendenza e qual è la portata della questione. Nell’aprile 2019 sono andato dal dentista. Avevo un leggero dolore a un molare. Il dentista mi ha detto che il dente era completamente marcio e che non poteva fare più niente. Non c’erano speranze. Il dente era ridotto a uno schifo e bisognava estrarlo. Mi ha dato il numero di un chirurgo dentale, che ho chiamato per prendere un appuntamento. Ho parlato con mio padre, che si è fatto togliere i denti un sacco di volte, e mi ha detto che non era un problema. Quando sono andato dal chirurgo gli ho detto che ero un ex tossicodipendente e che volevo evitare gli antidolorifici oppiacei. Mi ha guardato la bocca e ha detto: “Le servirà un antidolorifico oppiaceo”.

Poi mi ha fatto un’iniezione di novocaina e ha preso una pinza. Lì ho capito che i dentisti hanno mani morbide e delicate, ma quando devi estrarti un dente devi andare da uno specialista, e la sua qualità principale è la bruta forza fisica.

Questo tizio aveva i capelli bianchi e due braccia grosse come le mie gambe. Mi ha ficcato la pinza in bocca e ha cominciato a torcere, torcere e torcere, e nonostante la novocaina il dolore era come quello di cento piccoli Hitler che mi rosicchiavano i nervi, li masticavano fino alla radice e poi affondavano i loro canini nazisti nel mio cervello. C’era sangue dappertutto. La mia gola emetteva suoni orribili. Il chirurgo mi diceva di resistere per un altro secondo, digrignando i denti, e io mi contorcevo sulla sedia con le lacrime agli occhi.

Poi l’agonia è finita. Lui si è pulito la pinza sul camice bianco e io ho pensato che non avrei mai immaginato che negli Stati Uniti succedessero cose del genere. Mi ha detto: “Le scrivo la ricetta per il Percocet”. È un oppioide a base di ossicodone.

C’era anche un’infermiera, che ha detto: “Forse non è una buona idea, il paziente è un ex tossicodipendente”, ma il chirurgo l’ha ignorata, mi ha scritto la ricetta e me l’ha data.

Ho preso l’auto e sono tornato a casa. La novocaina stava continuando a fare effetto, e una volta finite le brutali manovre nella mia bocca non mi sentivo neanche troppo male. Mi avevano dato un opuscolo sui rischi di un alveolo dentale vuoto. Diceva di non mangiare cibi solidi.

Ho pensato: “Vabbè, ho la ricetta ma magari non la uso”.

Fare la fila per il Percocet in farmacia è stato surreale. Ero pulito da diciassette anni, tre mesi e ventidue giorni. Niente alcol, niente marijuana, niente eroina, niente Percocet, niente Vicodin, niente ecstasy, niente amfetamine. Niente di niente.

Ho portato il flacone a casa e l’ho dato direttamente a mia moglie. Il vetro ambrato risplendeva al sole. Ho applicato il protocollo.

Il protocollo è quello che gli ex tossicodipendenti devono seguire in queste situazioni:

• Consegna il farmaco a un amico o a un familiare. Digli di nasconderlo e di non dirti dov’è.

• Neanche se glielo chiedi.

• Prendi il farmaco solo se davvero non puoi farne a meno.

• Probabilmente mentirai a te stesso su quanto non puoi farne a meno.

• Nei hai davvero bisogno? No.

• No.

• Ok, però…

• Prendi il farmaco esattamente come dice la ri­cetta.

• Smetti di prenderlo quando ancora non ti senti bene.

• Poi dì al tuo familiare di buttarlo nel gabinetto e di tirare lo sciacquone.

Pierluigi Longo

Ero a casa nel mio studio al secondo piano e stavo scrivendo un’email quando la novocaina ha smesso di fare effetto. Non sarebbe un’esagerazione definire la mia casa una villa, pensavo prima che la novocaina smettesse di fare effetto. Le cose mi sono andate molto bene da quando mi sono disintossicato, riflettevo abbracciando con lo sguardo il mio spazioso studio prima che la novocaina smettesse di fare effetto. Questo posto è tutta un’altra cosa rispetto agli spogli letti a castello di metallo del carcere della contea di Cook a Chicago. O anche rispetto alle prigioni relativamente lussuose della periferia. Per non parlare di quelle di Baltimora. Almeno quella della contea di Cook non puzzava di piscio.

Poi la novocaina ha smesso di fare effetto. Ho chiamato mio padre e gli ho detto: “Ma che cavolo è successo?”.

Lui si è messo a ridere. “Non volevo spaventarti”, mi ha detto.

“Vuoi dire che lo sapevi che era così?”. Mentre lo dicevo mi tenevo la faccia. Avevo la voce un po’ ovattata, forse stavo anche piangendo. “Sì”, ha risposto. Sono sceso al piano di sotto e l’ho detto a Lauren. Lauren è uscita dalla stanza, è andata a prendere il flacone ovunque l’avesse nascosto e mi ha dato una pillola.

Mi sono seduto al computer per giocare a Slay the spire. Sentivo che il Percocet cominciava a fare effetto. Mi ricordo che il mio dentista, quello solito, quello con le mani morbide, una volta mentre mi faceva la devitalizzazione di un dente mi ha detto che non prescrive mai oppiacei perché ha letto da qualche parte che non rimuovono il dolore. Fanno solo in modo che il dolore non si senta.

Il mio dentista non capisce niente. È come dire che non ha senso andare in Florida per scappare dall’inverno perché nel posto da cui parti è ancora inverno. È come dire che non ha senso amputare un arto in cancrena perché l’arto è ancora in cancrena dopo che l’hai amputato.

Quando l’effetto del Percocet è svanito ho pensato: “Ok, mi serviva solo un attimo di respiro, ora posso affrontare il dolore da solo. Non credo che mi ammazzerà. Perciò non ho preso il Percocet per tutta la giornata e neanche la notte, anche se non riuscivo a dormire per il dolore, né il giorno dopo. A pranzo e a cena mangiavo con la cannuccia. Mi uscivano pezzetti d’osso dalla gengiva.

“È normale?”, mi ha chiesto Lauren, guardandomi estrarre una scheggia d’osso dalla bocca.

Mi ero ingobbito. Non provavo dolore alla schiena né agli arti, ma camminavo piegato in avanti. Il dolore incessante ti fa ingobbire. Ti rende stanco. Senti che stai invecchiando. Quei minuti e quei secondi che prima volavano via, a un tratto durano un’eternità.

È un fatto scientifico che non c’è un modo esatto di stabilire quanto è lungo un secondo. Un secondo non è come un centimetro. Non puoi mettere un secondo di fianco all’altro e vedere se sono uguali. La verità è che i secondi potrebbero essere tutti di dimensioni diverse. Normalmente, questa sarebbe una di quelle verità astratte e filosofiche sulla differenza tra tempo e spazio, ma quando devi convivere con un dolore cronico prolungato, questa verità perde la sua astrattezza e ti rendi conto che i secondi non sono tutti uguali e che ci sono secondi lunghi, secondi più lunghi e secondi molto lunghi.

La mattina dopo ho chiesto a Lauren un’altra pillola. Sul flacone c’era scritto di prenderne una ogni quattro/sei ore. Ho aspettato tutte e sei le ore prima di chiedergliene un’altra. Non è che sono rimasto lì a guardare l’orologio e ho detto: “Ecco, sono passate sei ore, è arrivato il momento della prossima dose”. No. Mi sono alzato dalla sedia dopo cinque ore e cinquantotto minuti. A cinque ore e cinquantanove minuti le ho chiesto la pillola. Ho calcolato che ci avrebbe messo circa quarantacinque secondi per uscire dalla stanza e tornare con la pillola. Le ho dato quindici secondi in più. Se ce ne avesse messi sedici in più, sarebbe stato un problema. Glielo avrei fatto notare.

Ed era come se per tutto questo tempo, dentro il mio cranio si stesse lentamente sollevando una vecchia palpebra callosa e cicatrizzata. Dentro il mio cranio c’è un bulbo oculare, e quando si apre i miei altri occhi, i miei occhi esterni, gli occhi sulla mia faccia, si offuscano. Questo bulbo oculare nel mio cranio è fatto per vedere una cosa sola. Ha sempre visto una cosa sola, e adesso quella palpebra chiusa per tanto tempo si stava piano piano riaprendo, e alla fine si è riaperta, e l’occhio stava guardando l’unica cosa che guardava da quando era nato, e questa cosa era ancora dentro di me, ed era la prima volta che avevo preso l’eroina.

Quella notte, seduto accanto a Lauren e guardando un programma alla tv sotto l’effetto del Percocet, non ho sentito alcuna connessione con lei. Era come se tutti i collegamenti invisibili, tutti i piccoli fili che collegano i nostri nervi, i nostri ricordi e le nostre sensazioni alle persone che ci circondano, tutti quei sottili filamenti della percezione che erano lentamente ricresciuti in anni di disintossicazione, era come se si fossero tutti strappati, e io stessi fluttuando nello spazio cosmico. Ero seduto accanto a lei sul divano, fluttuavo nello spazio. In orbita. L’orbita del bulbo oculare dentro il mio cranio.

Il giorno dopo ho smesso di prendere il Percocet. Non stavo ancora bene. Avevo ancora dolore. Però non era più così insopportabile, e mentre ero seduto, a quattro ore dall’ultima dose, ho pensato: “Devo smettere adesso”.

Ho chiamato mia moglie e ho guardato mentre buttava il resto delle pillole nel gabinetto e tirava lo sciacquone.

Ok. Respira. Avevo seguito il protocollo, ero ancora pulito.

La disintossicazione prosegue.

Ma quel bianco, il bianco della prima volta che mi sono fatto di eroina, il bianco della perdita di memoria, il bianco che, dopo tanti anni, ha riempito l’occhio al centro del mio cranio… be’, c’è stato un attimo in cui mi ha offuscat0 la vista.

Ed è stato come quando i suoni spariscono da una stanza affollata. E senti il rumore del tuo respiro. E pensi: “Le cose non sono come sembrano”. Case, matrimoni, figli, carriere possono sparire.

Il bianco è reale. È sotto tutte le altre cose. Le altre cose sono fatte tutte di bianco e, guarda!, i contorni cominciano a sfumare. Stanno per diventare bianchi.

Per un paio di mesi sono andato agli incontri dei Narcotici anonimi, più spesso del solito. La palpebra nel mio cranio si è richiusa. Alla fine, si era riaperta solo per un paio di giorni.

Chiamatelo il paradosso dell’antidolorifico. È uno degli aspetti del problema della dipendenza, un problema che non ha nulla a che fare con lo stigma né con l’atteggiamento individuale. E allora direte: “Be’, se è un problema, allora non prendere antidolorifici”. Paradosso risolto.

Certo. Che ne dite di farvi estrarre un molare? Magari con “complicazioni”, come mi ha detto il chirurgo dentale quando sono tornato a farmi visitare: un’estrazione “insolitamente difficile”. La fareste senza prendere antidolorifici?

Il dolore è orribile. È disumano. Letteralmente disumanizzante. Il giorno dopo caracollavo come uno scimmione. E gli oppiacei sono ancora l’unica cosa che funziona. Non è stato ancora inventato un altro rimedio che funzioni. Dovremmo negare l’uso degli antidolorifici ai tossicodipendenti? Costringerli a contorcersi sul pavimento per il dolore perché hanno commesso il reato di essere nati dipendenti? È progressista tutto questo? È moderno? È umano?

Ok, direte voi, allora diamo gli antidolorifici ai tossicodipendenti se e quando ne hanno veramente bisogno. Seguiamo il protocollo, come hai fatto tu. Adesso stai bene, no? Hai appena festeggiato il ventesimo anno di disintossicazione.

Sì, ma se le cose per me fossero andate in modo leggermente diverso? Se per esempio – in una delle innumerevoli occasioni in cui qualcuno mi ha offerto da bere, a un matrimonio, a un pranzo di Natale, sull’aereo, a una cena, a un incontro letterario, a una partita di basket – se in una sola di queste occasioni avessi detto: “Be’, non ho mai avuto problemi di alcol. Il mio problema era l’eroina, non l’alcol, e poi ho avuto una giornata lunga, una giornata dura, una giornata stressante. Dai, dopo vent’anni saprò controllare l’uso dell’alcol! Solo un bicchiere, solo un sorsino”.

Oppure mettiamo che, dopo dieci o quindici anni di astinenza, avessi deciso di non andare più alle riunioni dei Narcotici anonimi. Mia moglie non mi ha mai visto sotto l’effetto dell’eroina. Mia figlia, i miei colleghi, i miei amici: nessuno di loro mi ha mai visto sotto l’effetto dell’eroina. Perché non smettere di andare alle riunioni? Ci sono tante cose da fare, la vita è piena d’impegni. Sarebbe così facile smettere…

Oppure se cadessi in depressione? Se mi sentissi depresso per la situazione politica, per il clima, per lo stato della letteratura, per lo stato delle arti, per la realtà della morte, per la distanza della mia giovinezza che si allontana da me alla velocità della luce… Riesco a vederla ancora a malapena, come una macchia verde in lontananza. Poniamo che mi sentissi definitivamente scoraggiato dalla natura del tempo e, come tutte le persone normali quando si sentono depresse, smettessi di fare alcune cose per un po’ e mi prendessi una piccola pausa. E smettessi di meditare, di fare ginnastica, di aggiornare il mio diario della disintossicazione, di leggere letteratura specialistica sulle dipendenze, di parlare con gli ex tossicodipendenti…

E se fossi rimasto vittima di una delle tante cose che spingono gli ex tossicodipendenti a ricadere nella dipendenza? Se non fossi andato a una riunione due, sei o venti mesi prima di andare dal chirurgo dentale? Che cosa sarebbe successo?

Ve lo dico io cosa sarebbe successo. È successo a un mio amico. Lo chiameremo George. Era pulito da più di dieci anni e ha smesso di andare alle riunioni. Le cose gli stavano andando bene. Non aveva più bisogno di andare alle riunioni. Un paio d’anni dopo ha fatto un’operazione e ha preso il Percocet, e quando il Percocet è finito ha trovato una dose di eroina e adesso è morto. Come i cinque tossicodipendenti che moriranno mentre leggete questo articolo, se siete veloci a leggere.

Andiamo ancora oltre: immaginiamo che non fossi mai andato a una sola riunione. Che questa cosa misteriosa di cui scrivo nel mio libro, White out, non mi fosse mai successa, e che non avessi mai rinunciato davvero a farmi. Come milioni di altri tossicodipendenti che cominciano la terapia ma per i quali, chissà perché, quella cosa misteriosa, forse perfino mistica, non succede mai, e non riescono mai a capire che l’unica via d’uscita dalla dipendenza è anche una via d’uscita da se stessi.

Mille piccole cose, mille considerazioni, anche le più razionali, progressiste e ragionevoli, possono impedire a una persona di fare questo passo e di uscire da se stessa, da tutto ciò che conosce e sa, dal cranio con l’occhio dentro, dalla sua mente. E se non esce da quella mente, muore.

Fin quando ci sarà un modo veramente efficace di fermare il dolore, ci saranno tossicodipendenti, e fin quando ci saranno tossicodipendenti, molti di loro moriranno. Ecco che problema è la dipendenza. Il paradosso dell’antidolorifico è solo uno dei suoi aspetti. Ce ne sono tanti altri.

Non mi fraintendete. Non sono contro la campagna contro lo stigma. Non sarei neanche contro una campagna come just say no, di’ semplicemente no. Sono per i centri di cura con il Suboxone, per i centri di riabilitazione, per il programma dei dodici passi, per la depenalizzazione, per la ripenalizzazione, per tutto e il suo contrario. Sono favorevole a tutto quel che può essere utile. Però non prendiamoci in giro. La dipendenza è un problema pubblico. Ma non ha una soluzione pubblica.

Ha solo soluzioni private. Soluzioni non oggettive, non scientifiche. Soluzioni che parlano in prima persona. ◆ fas

Michael Clune è professore di studi umanistici alla Case Western Reserve university di Cleveland, nell’Ohio, Stati Uniti. Questo articolo è tratto dalla prefazione della nuova edizione del suo libro White out: the secret life of heroin (McNally Editions 2023). È uscito sul trimestrale culturale in inglese The Paris Review con il titolo On novocain.

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Questo articolo è uscito sul numero 1505 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati