La piccola isola di Raiatea è il cuore sacro della Polinesia e del Pacifico. Cercandola su Google Earth si capisce perché. È lunga una ventina di chilometri, con una serie di montagne verdi e la barriera corallina che la circonda come un’aureola. Allargando l’immagine satellitare, si vede che l’isola si trova al centro dell’oceano più grande del mondo. Continuando rimarrà un unico pixel verde nella distesa azzurra del Pacifico. Ripresa da così lontano appare minuscola come una stella nel cielo.

Nel suo libro del 1992 The happy isles of Oceania, Paul Theroux descrive gli arcipelaghi del Pacifico come “un universo la cui mappa somiglia a un disegno del cielo notturno”. Per questo e per altri motivi queste isole sembrano imparentate più con i corpi celesti che con i continenti. È particolarmente vero per Raiatea, il cui nome si può tradurre con “cielo lontano” o “cielo con una luce soffusa”.

Raiatea fa parte delle Isole della Società, nella Polinesia francese. Insieme a Taha’a, offre ai visitatori un esempio della vita nel Pacifico meridionale. È più tranquilla di Tahiti, a un’ora di volo a est, e meno ovattata dei resort turistici di Bora Bora, visibile a nordovest. Raiatea e Taha’a, che in tutto hanno 17mila abitanti, sono isole dove “la gente saluta ancora i passanti”, spiega uno degli abitanti.

Raiatea ha rilievi vulcanici alti e ricchi di vegetazione, con fiori bianchi che crescono solo qui. In riva al mare ci sono una decina di villaggi i cui bungalow, con il tetto di lamiera ondulata, durante le piogge tropicali risuonano come xilofoni. Ci sono chiese protestanti con pareti color pesca, giardini di alberi del pane e taro, siepi di ibisco e gardenia, oltre a una laguna con l’acqua così trasparente che quando si nuota sembra di levitare. Ho passato una settimana sull’isola andando in barca a vela e in kayak, nuotando e facendo snorkeling. È un posto intimamente associato all’arte della navigazione e all’alchimia della mappatura della Terra.

Barriera corallina

Le prime mappe che ho visto erano carte nautiche sparse da Terehau Doudoute sul tavolo della cambusa del suo catamarano. Eravamo a metà di una circumnavigazione di due giorni intorno Raiatea. Terehau aveva gettato l’ancora e mi stava facendo vedere la nostra rotta indicandola sulla mappa con l’indice. L’ha puntato sui motu, gli isolotti di palme infilati lungo la barriera corallina come perline di una collana. Ha indicato una punto dove alcune insenature d’acqua dolce scendevano verso i coralli tra i quali nuotavano le razze e gli squali.

La sua attenzione era rivolta soprattutto ai “passi”, i varchi della barriera corallina che collegano il tumulto del Pacifico al santuario della laguna e attraverso i quali le barche entrano ed escono da Raiatea. Per la maggior parte del tempo si sentiva il rumore delle onde che s’infrangevano bloccate dalla barriera corallina. Ma in otto punti c’era un passaggio: il Pacifico, scuro come l’inchiostro, si riversava nella laguna color acquamarina. Quando la barca oscillava e andava bruscamente verso la direzione del vento era segno che un passo era vicino.

“Alcuni varchi possono essere pericolosi”, mi ha detto Terehau. “A volte prima di entrare devi controllare vento e marea. Solo un passaggio è sacro”. È quello di Te Ava Mo’a. Un tempo era la porta cerimoniale per Taputapuatea, un complesso di templi sulla costa orientale dell’isola. I templi, noti come marae, risalgono a prima dell’arrivo degli europei nel settecento. Taputapuatea è tra i siti archeologici più importanti della Polinesia, e fa di Raiatea un luogo sacro.

La mattina dopo sono sceso a terra per esplorare le rovine. I granchi si aggiravano per i cortili ombreggiati da baniani, dove un tempo i sacerdoti incoronavano i capi dalle piume rosse e gli isolani provenienti da arcipelaghi lontani andavano a rendere omaggio agli dèi del luogo. Le onde s’infrangevano contro le fondamenta di pietra e gli altari di corallo sembravano orientati verso il lontano rumore sordo prodotto dall’incontro tra il mare e la barriera corallina. Alcuni storici hanno affermato che nei marae come Taputapuatea si facevano sacrifici umani.

Nella mitologia polinesiana Raiatea è identificata come la Hawaiki, la patria da cui i marinai partivano per colonizzare le tre punte del triangolo polinesiano per un periodo che durò fino al 1400. Questi mari furono l’ultima parte del pianeta a essere colonizzata dall’umanità e anche se ne sappiamo molto poco (perché non c’è nulla di scritto) le traversate partite dal passo sacro furono probabilmente tra le più importanti della storia delle migrazioni.

Le canoe degli antichi navigatori erano piccole, e le miglia nautiche davanti a loro quasi infinite. Un pannello informativo accanto alle rovine mostra che la geo­grafia tradizionale polinesiana ritraeva l’oceano come un polpo: la testa è Taputapuatea e le rotte conosciute sono i tentacoli. Un tentacolo si estende per quattromila chilometri verso nord, fino alle spiagge di sabbia nera delle Hawaii. Un altro va per circa 4.300 chilometri a est, fino alle coste senza alberi dell’isola di Pasqua. Un terzo si trascina per altri quattromila chilometri a sudovest verso la Nuova Zelanda.

La mappa di Tupaia fu uno spartiacque nell’esplorazione europea del Pacifico

Oggi queste rotte sono percorse nella direzione opposta: i pellegrini maori e hawaiani vengono a Taputapuatea per visitare i luoghi dove potrebbero essere i loro antenati e lasciano collane di conchiglie e altre offerte votive. Quando sono tornato al catamarano, Terehau mi ha detto che a Raiatea oggi sono tutti cristiani, ma i marae sono ancora rispettati. Spesso ho sentito la gente accennare con profondo rispetto a les anciens navigateurs (gli antichi navigatori). “Tutto ciò di cui avevano bisogno per stabilirsi su un’isola – maiali, polli, piante – lo portavano con le barche”, mi spiega Terehau. “Navigavano seguendo le stelle”.

Nel 1769, un diverso tipo di barca attraversò il passo di Te Ava Mo’a: la Hms Endeavour, della marina britannica. Il capitano James Cook fu il primo europeo a visitare Raiatea, dove arrivò con un occhio al cielo e l’altro alla terra. Cook stava navigando nel Pacifico per osservare il transito di Venere (un evento che si sperava potesse essere utile per misurare la distanza della Terra dal Sole).

Inoltre aveva ricevuto l’ordine di localizzare e mappare un misterioso continente australe, che non trovò. Trovò invece un aiuto per la cartografia: Tupaia, un uomo orgoglioso e tatuato sulla quarantina che era stato sacerdote a Taputapuatea e aveva ereditato la conoscenza di quelle isole sparse su milioni di chilometri quadrati di oceano. Sulla schiena aveva la cicatrice provocata in battaglia da una lancia con la punta ottenuta dall’aculeo di una razza.

Nel posto sbagliato

Tupaia era affascinato dalle mappe europee, dall’idea che una visione a volo d’uccello del mondo potesse essere rappresentata su carta con l’inchiostro. Aveva fatto i primi esperimenti di cartografia disegnando i passi di Raiatea. Pur riluttante, Cook accettò Tupaia a bordo dell’Endeavour come guida. Il risultato della loro collaborazione fu la mappa di Tupaia, un documento storico che raffigura le 74 isole del Pacifico conosciute dal sacerdote, accompagnate dal disegno di minuscoli velieri. Alcune delle isole disegnate da Tupaia sono nel posto sbagliato, altre forse erano mitologiche e non sono mai state individuate. Tutto diventa confuso man mano che ci si allontana da Raiatea, posta al centro della mappa.

Nonostante questo, il documento fu uno spartiacque nell’esplorazione europea del Pacifico. È una testimonianza delle abilità dei navigatori polinesiani, che misuravano i loro viaggi in giorni invece che in miglia nautiche, traevano indizi dal comportamento delle onde e delle nuvole, ricordavano i nomi delle isole che i loro antenati avevano visitato generazioni prima e recitavano i nomi come se fossero versi di una poesia. Le mappe europee erano documenti freddi e oggettivi, mentre quelle polinesiane erano disegnate a memoria in base all’esperienza personale. Quelle mappe si potevano “sentire” con la prua di una canoa, più che essere lette su un tavolo. Forse contenevano altri mondi e altri regni spirituali.

Tupaia salpò con il capitano Cook per la Nuova Zelanda. Era in viaggio verso il Regno Unito quando morì di dissenteria o malaria nell’attuale Indonesia, oltre i margini della mappa che gli è sopravvissuta.

Uno degli elementi più piccoli della mappa di Tupaia è Taha’a, una minuscola isola a due miglia da Raiatea, all’interno della stessa barriera corallina. Sulle carte moderne ha la forma di un fiore, con le penisole a fare da petali. È ancora più bella della sua vicina: le foreste di acacie si estendono fino alle baie azzurre, le piantagioni di vaniglia sulla riva si affacciano sulle coltivazioni di perle in mare. Lungo le sue coste ci sono alcuni resort turistici di lusso, il tipo di paradisi artificiali dove le alghe vengono spazzate via ogni mattina dalla spiaggia.

Ho alloggiato alla pensione Anahata, a conduzione familiare. Dai suoi balconi si possono osservare i ritmi di vita dell’isola: il furgone della panetteria che consegna croissant ogni mattina, gli scuolabus che partono all’alba per raggiungere il traghetto per Raiatea, gli abitanti che al crepuscolo danno da mangiare ai pesci quando arrivano in banchi sotto i moli. Un giorno, dopo colazione, il proprietario della pensione mi ha mostrato la sua collezione privata di ceramiche pre-europee: teste d’ascia e altri oggetti che Tupaia deve aver conosciuto.

Tupaia viaggiò con Cook, ma furono i missionari francesi a lasciare un’impronta duratura su queste isole, che oggi fanno parte dei paesi d’oltremare della Francia. Nel supermercato locale si può comprare il formaggio Boursin. Per due volte ho sentito alla radio La mer, di Charles Trenet. Un giorno ho partecipato a un’escursione nell’entroterra di Taha’a e la guida, Teva Ebbs, ha tagliato un ramo di ibisco selvatico con il machete, ne ha fatto un flauto e ha suonato le battute iniziali di Frère Jacques (Fra’ Martino campanaro).

Abbiamo camminato attraverso le verdi colline di Taha’a, oltre alle gole dove di notte gli isolani cacciano i maiali selvatici, tra boschetti di avocado e mango. In lontananza vedevamo le acque azzurre della laguna terminare con la barriera corallina: il confine con il resto del mondo. Lungo la strada, Teva ci ha raccontato dei paesi che ha visitato. È stato sotto gli spruzzi delle cascate del Niagara, ha visto le astronavi nei musei lungo la National Mall di Washington, negli Stati Uniti. Ha camminato per le strade caldissime di Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, e ha mangiato la fonduta sul lago di Annecy, in Francia. Dice che molti isolani dubitano che Taha’a sia un paradiso, ma lui no, avendo visto il resto del mondo.

Un cielo pieno di stelle

Le isole tropicali, per esempio in Thailandia o nei Caraibi, sono spesso associate al paradiso perché hanno un clima temperato e sono a misura d’uomo, ma il legame più profondo la parola paradiso ce l’ha con le isole del Pacifico. Nel 1768, arrivato nelle Isole della Società, l’esploratore francese Louis-Antoine de Bougainville “pensò di essere nel giardino dell’eden”. Il botanico britannico Joseph Banks, viaggiando con Cook, parlò dell’“immagine più vera di un’arcadia”. Queste isole furono tra le ultime briciole di terraferma scoperte dagli europei. Ma soprattutto sono stati alcuni degli ultimi territori colonizzati dall’Homo sapiens: piccoli Eden sconosciuti all’umanità fino al nono secolo. L’ultimo luogo che richiamava il primo giardino.

Quella sera sono partito in kayak da una baia di Taha’a. Il vento notturno agitava le fronde delle palme sulla spiaggia. In lontananza si sentiva il brontolio della barriera corallina. Sopra di me si vedeva la mappa più grande e originale: un cielo pieno di stelle lucenti, che al loro sorgere guidavano i navigatori dal passo sacro di Raiatea, illuminando le rotte attraverso miglia e miglia di oceano. Con le ombre della riva alle mie spalle e il fruscio della pagaia accanto a me, mi sono sorpreso a sognare isole paradisiache ancora in attesa di essere scoperte. Ma tra le costellazioni potevo vedere i satelliti in rapido movimento, le cui telecamere mi assicuravano che nessun angolo del mondo è rimasto inesplorato. ◆ bt

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Questo articolo è uscito sul numero 1554 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati