Dalla sua cella nel carcere di Robben island, un’ex colonia penale nell’oceano Atlantico, Nelson Mandela diventò il simbolo della lotta del Sudafrica contro l’apartheid. Dopo la sua liberazione fu presidente del paese, dal 1994 al 1999. Poi si ritirò a vita privata per trascorrere più tempo con gli amici e la famiglia, da cui era stato separato per ventisette anni. Quella di Mandela però è diventata una figura dominante che ha continuato a incombere sul Sudafrica e sui leader che gli sono succeduti. È così che nasce l’espressione “dopo Mandela”, uno strumento interpretativo per comprendere l’eredità lasciata al paese che ha contribuito a far diventare una democrazia. Un’unità di misura per giudicare i suoi successori, ma anche un segno della fine della speranza e dell’idealismo associati alla sua presidenza.

Ma cosa significa di preciso in termini cronologici? L’espressione si riferisce solo al periodo dopo il 1999, quando Mandela si ritirò (e il romanzo Vergogna di J.M. Coetzee vinse il Booker prize), o anche a quello successivo alla sua morte, il 5 dicembre 2013?

In alcuni ambienti si temeva che l’assenza di Mandela potesse scatenare la temutissima swart gevaar, che in afrikaans significa “minaccia nera”, una fase in cui gli africani avrebbero massacrato i bianchi senza pietà per vendicarsi delle ingiustizie subite durante l’apartheid e il colonialismo. Alla fine non è successo niente di tutto questo. Se in politica il significato di “dopo Mandela” è ambiguo, in letteratura si può dire che l’espressione fa riferimento a un unico, grande fenomeno: l’emergere di una molteplicità di voci nere dopo l’avvento della democrazia nel 1994.

J.M. Coetzee vinse il suo secondo Booker prize nel 1999 con Vergogna (Einaudi), un romanzo di cui si discusse molto animatamente nelle università e tra i politici. L’aveva già ottenuto nel 1983 per La vita e il tempo di Michael K (Einaudi). Nel 2003 ricevette il premio Nobel per la letteratura, il secondo assegnato ad autori suda­fricani dopo quello a Nadine Gordimer nel 1991.

E tuttavia, invece di consolidare il dominio dei sudafricani bianchi sulla cultura delle lettere nel paese, il premio a Coetzee fu seguito da un’affascinante polifonia di nuove voci nere. Una delle più straordinarie è quella di K. Sello Duiker, autore di Tredici centesimi. Sopravvivere a Cape Town (Marotta & Cafiero), uscito nel 2000 e vincitore del premio degli scrittori africani del Common­wealth per il miglior libro d’esordio, e di The quiet violence of dreams (2001). Duiker, morto suicida nel 2005, è spesso citato insieme a Phaswane Mpe, che pubblicò il suo ruvido romanzo Benvenuti a Hillbrow (Il Sirente) nel 2001.

Con la morte di Mpe nel 2004 e del suo amico Duiker l’anno successivo, il Sudafrica ha perso due delle sue voci più originali. Se sono così rimpianti, è in parte perché a lungo si è pensato che la loro scomparsa avesse tolto al paese due voci insosti­tuibili.

Forse è vero, ma in realtà nello stesso periodo stavano maturando altre voci affascinanti. Una è quella di Lesego Rampolokeng (autore delle raccolte di poesie Horns for Hondo, Talking rain, The Bavino sermons, The second chapter; delle opere teatrali Fanon’s children e Bantu ghost – a stream of (black) unconsciousness; dei romanzi Blackheart, White­heart e Bird-monk seding). Rampolokeng, presente con la sua poesia in prosa in questo numero di Internazionale, non appartiene precisamente alla generazione di Duiker e Mpe: è dieci anni più vecchio di loro, e ha cominciato a scrivere negli anni ottanta. La sua prima raccolta di poesie, Horns for Hondo, fu pubblicata per la prima volta nel 1990, alla vigilia dell’avvento della democrazia. Si contraddistingue per il suo stile intenso, respingente e consapevolmente riflessivo, pur riecheggiando alla lontana il romanziere zimbabweano Dambudzo Mare­chera. Sempre in questo numero, il brevissimo racconto di Julie Nxadi riprende lo stile diretto e frammentario di Rampolokeng.

Imraan Coovadia, nato negli anni settanta, è invece coetaneo di Duiker e Mpe, oltre a essere stato allievo di Coetzee. A differenza dei primi due, è ancora vivo, insegna all’università e dirige il corso di scrittura creativa dell’ateneo di Città del Capo, da cui sono emerse molte altre nuove voci. Tra loro ci sono, per esempio, Masande Ntshanga, Yewande Omotoso e Henrietta Rose-Innes. Coovadia ha scritto saggi, come la raccolta Transformations e The poisoners: on South Africa’s toxic past (1973-2020), e diversi romanzi: Il matrimonio (Marsilio), I ladri dagli occhi verdi (Newton Compton), High low in-between, A spy in time e Tales of the metric system, da cui è tratto il testo pubblicato in queste pagine.

Coovadia non è l’unico tra gli autori di questo speciale ad avere un legame diretto con Coetzee. La studiosa di letteratura e romanziera Barbara Boswell, sua collega all’università di Città del Capo, è l’autrice di Grace, vincitrice del premio per un’opera di esordio dell’università di Johannesburg. Il racconto di Boswell che trovate in questo numero, Miss Johns, fa un riferimento diretto a Coetzee evidenziando la sua presenza più che spettrale, che si manifesta ancora oggi nella psiche letteraria del Sudafrica, anche se l’autore si è trasferito molti anni fa in Australia (nel 2018 il sudafricano Nthikeng Mohlele ha pubblicato Michael K, una reinterpretazione del classico di Coetzee).

Parlando del “prima di Mandela”, quando lui non era ancora salito al potere, una storia come quella di Nozizwe Herero sarebbe stata bloccata dai censori del regime dell’apartheid. L’epoca di Mandela ha portato benefici concreti alla comunità lgbtq+. Secondo la costituzione approvata nel 1996, le persone omosessuali godono degli stessi diritti degli altri cittadini per quanto riguarda matrimoni, pensioni, norme sul lavoro, adozioni e altro. Se però le leggi sudafricane non criminalizzano la sessualità queer, la giustizia fai da te e una società conservatrice costringono ancora oggi la comunità a vivere nella paura.

La storia di Keletso Mopai esplora in parte la violenza endemica del paese. Un modo in cui questa si manifesta è l’odio nei confronti dei non sudafricani, soprattutto se originari del continente. Un odio che ha prosperato in Sudafrica. L’estratto del romanzo di Karen Jennings An island, selezionato per il Booker prize nel 2021, potrebbe essere letto anche come una riflessione sulla xeno­fobia e la competizione per i posti di lavoro, esacerbata dall’arrivo di milioni di persone da altre parti dell’Africa meridionale, soprattutto dallo Zimbabwe.

Questo numero di Internazionale avrebbe potuto includere molti scrittori zimba­bweani che vivono in Sudafrica, come Robert Muponde, Sue Nyathi o Siphiwe Gloria Ndlovu. Ne ho scelto uno, Bongani Kona, che vive a Città del Capo ma è nato ad Harare in una famiglia formata originariamente da persone emigrate nell’ottocento dal Sudafrica nella Rhodesia Meridionale, oggi Zimbabwe. Kona, che insegna all’università del Western Cape, ha curato la raccolta di saggi Our ghosts were once people: stories on death and dying.

Infine il testo di Perfect Hlongwane, autore di romanzi come Jozi e Sanity prevail, riflette sulle disfunzionalità, l’avidità e la corruzione del dopo Mandela. Neanche l’epoca di Mandela fu senza macchia: se i leader erano puliti, lo stesso non si può dire di chi gli stava intorno. I semi della corruzione che sono sbocciati in seguito (soprattutto con l’ex presidente Jacob Zuma) furono piantati negli anni novanta. Raccontare questa storia nei dettagli spetta alla prossima generazione di scrittrici e scrittori sudafricani. ◆ gim

I racconti di questo numero sono stati scelti dallo scrittore, giornalista e critico letterario Percy Zvomuya. Nato in Zimbabwe, ha vissuto e lavorato a lungo in Sudafrica. Dirige la rivista When Three Sevens Clash e ha collaborato con Mail & Guardian, The Guardian, London Review of Books e il giornale panafricano Chimurenga.

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Questo articolo è uscito sul numero 1492 di Internazionale, a pagina 11. Compra questo numero | Abbonati