Alle cinque del mattino l’autobus per Edendale si fermò davanti all’ingresso. Il motore faceva un gran baccano. Victor non aprì gli occhi. Infilò la mano nella tasca interna del cappotto Crombie che aveva accanto, che era appartenuto a un milionario dello zucchero il cui nome era scritto in filo azzurro sotto il colletto, e cercò il lasciapassare. Non trovò niente. Non ci poteva credere. Si rimise a dormire, a sognare la sua imminente fortuna. Aveva tutta la fortuna, tutti gli amici, il custode come garante, un altro garante che sarebbe diventato famoso in tutto il mondo.

Nel sogno riusciva quasi a toccare il morbido volto bruno di suo padre, un faro di amicizia, e a vedere le lentiggini uniformemente distribuite dalla fronte al mento. Il vecchio era stato abile. Aveva sollevato con l’unghia la fotografia in bianco e nero sul lasciapassare, che apparteneva a un minatore mozambicano di ritorno nel suo paese, e l’aveva sostituita con quella di Victor, scattata dall’assistente indiano dei Crown portrait studios. Da allora le referenze sul retro, timbrate e indecifrabilmente firmate e datate su una tabella in inchiostro viola, erano state controllate centinaia di volte da poliziotti, amministratori giudiziari e impiegati governativi. Di suo padre non aveva più saputo niente.

Girò il letto su un fianco, ma non c’era niente. Niente nelle scarpe. Niente nella camicia abbottonata sulla gruccia. Non trovò niente nelle tasche posteriori dei pantaloni

Se non era in tasca, dove la sua mano cieca non riusciva a trovarlo, il lasciapassare doveva essere da qualche parte accanto al materasso. Victor controllò sotto il cappotto e tutto intorno. Senza aprire gli occhi cercò lungo il materasso.

All’improvviso si svegliò del tutto. Sentì un rumore di zoccoli sulla strada, un cavallo che sembrava venire verso di lui, e si alzò. Dalla finestra vide, tra le stanghe di un carro, l’alto animale che trascinava verso il ciglio della strada i fagotti che portava legati. Aveva due paraocchi neri, uniti da un sostegno sopra la testa. Il conducente, che indossava un berretto di velluto a coste, lo fermò davanti alla sala da tè ed entrò, mentre l’animale continuava ad agitare la coda.

Victor vide che il cavallo non era più giovane. Il suo alto petto grigio, spruzzato di peli scuri in alto e in basso, era muscoloso come i culturisti che si esercitavano con i pesi nel retro dell’ostello. Continuò a guardare il cavallo sotto la tettoia della sala da tè e cercò d’ignorare il disagio che gli cresceva nel petto. Non sapeva se quel giorno sarebbe stato fortunato come nei suoi sogni.

Innanzitutto rimise in ordine, per poter trovare il lasciapassare più in fretta. Ripiegò la coperta sotto il braccio e la ripose sotto il materasso. Girò il letto su un fianco, ma non c’era niente. Niente nelle scarpe, a parte l’odore di lucido. Niente nella camicia abbottonata sulla gruccia. Non trovò niente nelle tasche posteriori dei pantaloni né nella tuta che indossava in tipografia. Sentì che stava cercando la soluzione di un enigma impossibile.

L’enigma era la stanza. Difficile ispezionare tutto quello spazio, che oltre a essere la sua camera da letto era usato come ripostiglio. C’erano due spazzoloni nel secchio, accanto a prodotti per la pulizia dall’odore penetrante. Alcune scatole contenevano lampadine rotte. Le tenevano come uova in un cartone, casomai un bel giorno dovessero tornare ad accendersi. Il custode dell’ostello maschile cristiano Caledonian, il suo amico, il signor Samuel Shabangu, odiava buttare via le cose. Quindi c’erano un rotolo di rete metallica annodata, latte di vernice Dulux dal coperchio macchiato, pezzi di filo e a parte, su una coperta, vari attrezzi, chiavi inglesi, cacciaviti e una livella, necessari per le riparazioni quotidiane del custode.

Solo un incantesimo, proibito a un cristiano come il signor Shabangu, avrebbe potuto sfilargli di tasca il libretto delle referenze e spostarlo dall’altra parte della stanza. Tuttavia Victor si mise a controllare sotto le latte di vernice. Scostò il pesante rotolo di filo metallico per vedere cosa potesse nascondere. Niente. Era diventato un criminale dall’oggi al domani.

Victor aveva aggirato la legge per rimanere in città. Suo padre aveva un permesso quando lavorava al Natal command, la caserma di fronte alla North Beach di Durban, dove portava secchi di avena calda per i cavalli bai nel cortile della cavalleria e lavava gli stivali dei soldati. Da bambino Victor gli dava una mano. Sistemavano le coperte sul dorso dei cavalli quando il reggimento tornava dalle esercitazioni, ispezionavano gli zoccoli ferrati degli animali, pettinavano le criniere mentre i cavalli s’inginocchiavano davanti alla caserma.

Lui e suo padre dormivano fianco a fianco in un box tutto per loro. A mezzanotte Victor si svegliava sentendo i rumori soddisfatti dei cavalli che urinavano, lo scalpitio degli zoccoli contro le porte dei box e la sommessa conversazione che gli animali, cavalli e cani, intrattenevano tra loro. I pastori tedeschi dalla lingua ruvida dormivano naso contro naso e trotterellavano diffidenti a cinque metri di distanza dai cavalli. Ciascuno faceva amicizia con un cavallo e un cavaliere in particolare. Se erano contrariati spesso ringhiavano, abbastanza forti da alzarsi sulle zampe posteriori e inchiodare Victor contro il muro, con le spalle abbastanza robuste da tenerlo lì mentre distoglieva la testa dal loro alito salato, finché non erano soddisfatti dell’espressione del suo volto. Ma non mordevano quasi mai.

Tre anni prima un certo individuo aveva cercato di rubare il lavoro a suo padre. Aveva raccontato storie al sergente maggiore europeo, accusando suo padre di maltrattare i cani e di vendere il loro cibo a un orticoltore indiano. L’accusa era rimasta sospesa nell’atmosfera nonostante la mancanza di prove. La tosse di suo padre si era aggravata, e lui temeva di finire in carcere per un sospetto di furto o di vedersi togliere il diritto di tenere il figlio con sé in caserma. Non riusciva a dormire e aveva perso la voglia di parlare con i tanti cavalleggeri europei suoi amici. Ben presto non aveva più retto alla pressione. Si era licenziato, aveva comprato il permesso di soggiorno per il figlio in modo che non perdessero il loro punto d’appoggio nella provincia, lo aveva lasciato a Pietermaritzburg ed era tornato nella loro terra natale, vicino al Lesotho, non lontano dalle montagne. Aveva promesso a Victor di tornare quando le voci sul presunto furto si fossero placate. Da allora non gli aveva più scritto.

Per tre anni, addormentato o sveglio, Victor non si era mai allontanato dal suo libretto delle referenze. Si sentì montare la febbre mentre frugava di nuovo nel cappotto e lo rivoltava. Spostò le latte di vernice e le portò una per una nell’angolo opposto, staccò lo stendi­biancheria dalla parete, infine aprì la porta che dava sull’esterno. Non aveva la serratura. Dal corridoio la luce entrò nella stanza e non fornì alcun indizio su dove si trovasse l’oggetto scomparso. Gli girava la testa.

L’edificio era silenzioso. La lampadina nuda sopra la scala brillò pallida e gialla nel mattino senza emettere luce. Victor guardò oltre le scale, verso il cortile. A quell’ora gli abitanti erano invisibili, centottanta uomini adulti e brizzolati, irrequieti e impavidi, che discutevano dai loro letti e dalle file di gabinetti aperti, che chiedevano prestiti con rapacità e poi cercavano di non restituirli, tranne quando il prestatore era il signor Shabangu.

Gli uomini erano esausti. Il giorno prima, invece di andare in chiesa, si erano esercitati a ballare sul cemento. Bevevano boccali di spumeggiante orange beer illegale prima di affilare i coltelli per le risse che scoppiavano sulla via del ritorno dalla birreria. Trattavano Victor come una propaggine del signor Shabangu, affidandogli messaggi, avvertimenti, richieste, comunicazioni di controversie e altri annunci che dovevano andare prima al custode e poi, tramite lui, al consiglio dei supervisori, cinque europei scelti tra le file della gerarchia ecclesiastica e della polizia. I loro arroganti messaggi, tuttavia, venivano ricevuti e poi ignorati dal signor Shabangu.

Victor cercò l’amico. Il custode doveva essere in giro. Sembrava che non dormisse mai. Poteva aggirarsi nel corridoio a qualunque ora, per ispezionare le sbarre alle finestre in cerca di macchie di ruggine, per accompagnare i membri del consiglio a visitare l’ostello, per condurre un poliziotto a un colloquio con uno dei residenti riguardo a un furto o a un’aggressione, per sfogliare qualche passo di una Bibbia dalla lustra copertina di pelle nera ingrassata.

Il signor Shabangu, dopotutto, era la persona a cui rivolgersi se avevi perso qualcosa o cercavi qualcuno. Non c’erano limiti evidenti al suo sapere. A volte sembrava addirittura che conoscesse il futuro, che sapesse chi poteva trovare lavoro nelle officine meccaniche, un montatore-tornitore e un fabbricante di grandi utensili e stampi in Rissik square, quale dei residenti poteva finire all’ospedale distrettuale e quale essere arrestato per un furto con scasso in un certo locale. Il signor Shabangu rappresentava un sistema immutabile, in cui si sapeva misurare chi e cosa era importante.

In fondo al corridoio, la porta della camera di Shabangu era chiusa. Victor si chiese se era il caso di bussare. Il custode non tollerava alcuna sparizione nell’edificio, che si trattasse di uomini, donne o effetti personali, perché lo metteva in cattiva luce. Aveva visto il peggio che un uomo poteva fare, tante volte, e gli piaceva ricordarti le lezioni che aveva imparato mentre beveva juba acidissimo da un cartone da cui usciva un odore di alcol pungente come il profumo di una donna europea.

Molti ritenevano che Victor fosse una specie di figlio per Shabangu. Si sbagliavano. A volte non esisteva alcun legame tra lui e l’uomo più anziano. Il custode, in certe occasioni, faceva fatica a ricordare il nome di Victor. La sua grande faccia diventava inespressiva mentre cercava di concentrarsi sulle lettere, come se qualcuno avesse allentato il filo che gli teneva imbrigliati gli occhi alla bocca. Non riusciva a serrare le mascelle. Faceva spavento. Temevi che gli fosse venuto un colpo e potesse soffocare.

Nel giro di un paio di minuti il signor Shabangu tornava padrone di sé, completava la frase, ritirava la lingua e di nuovo sembrava riconoscere l’altra persona. In seguito non accennava mai a questi incidenti. Le persone che Shabangu ricordava veramente, per le quali gli si tendeva il filo della faccia, erano quelle a cui aveva prestato dei soldi. Il venerdì si piazzava alla scrivania nell’ingresso, dietro la porta a vetri smerigliati, e distribuiva banconote nuove da due rand in cambio delle loro firme. Nel periodo di Natale faceva prestiti a lungo termine, soldi che i residenti portavano nelle zone rurali per pagare un tetto nuovo, una bara, la dote di una figlia o di una sorella, i festeggiamenti per la circoncisione di un bambino. Si annotava il numero del loro lasciapassare come misura di sicurezza. Guardando da sopra gli occhiali di plastica, copiava i dati sulle ultime pagine della Bibbia. Quando restituivi il prestito, una riga cancellava il tuo nome con l’aiuto di una penna Parker e di un righello.

I conti in sospeso appartenevano a uomini scomparsi. Alcuni decidevano di non tornare nell’area urbana perché si sentivano sotto pressione. Altri morivano dopo una breve malattia e li seppellivano in una fossa comune. Molti avevano lasciato il paese per unirsi all’Umkhonto, e in tal caso la loro scomparsa cadeva nel silenzio. I nomi rimanevano comunque nel libro e trascritti su una nuova Bibbia quando c’era bisogno di spazio. Un giorno sarebbero potuti rientrare nel paese. Quando controllava i suoi registri colonna per colonna, il signor Shabangu ripeteva i numeri sottovoce, aggiornando il capitale per tenere conto di ogni mese d’interessi. Solo lui era capace di fare quei calcoli a mente. Era bravo come un indiano.

Gabriella Giandelli

Victor bussò e rimase in ascolto. Tutto taceva. Aspettò, accostando l’orecchio alla porta. A volte in corridoio sentiva il custode parlare da solo sulla sua lunga brandina dopo avere riposto stracci e secchi. Le sue labbra severe ricordavano i nomi dei debitori e gli importi dovuti con una voce così sommessa che dovevi stare accanto alla porta per distinguere le parole e i numeri. Ti sembrava quasi di averlo sorpreso a lanciare un incantesimo.

Victor ripercorse il corridoio ed entrò nella sua stanza, ricordando l’aura di magia nera che circondava il custode. Se qualcuno rimaneva indietro con i pagamenti avrebbe senz’altro subìto qualche disgrazia, lo sapevano tutti. Shabangu mandava Victor a sollecitare i morosi. Victor ritornava con promesse, scuse e altre storie, e con la certezza che il pagamento sarebbe arrivato. Nessuno sfidava Shabangu, per paura di ciò che poteva fare a distanza.

Quando voleva festeggiare un incasso ragguardevole, il custode entrava nel magazzino con un piatto di fagioli al forno zuccherati e sorprendentemente arancioni, o con una ciotola di pappa bianchissima e insipida da cui si levava un vago aroma d’acqua. A volte, durante un lungo periodo di vacanza, quando certi vecchi conti erano stati chiusi, poteva arrivare con una lattina di sciroppo dorato senza etichetta. Mangiava lentamente e con gioia, senza però offrirne nemmeno una cucchiaiata a Victor. Nessuno conosceva i parenti di Shabangu. Victor era chiaramente il suo preferito all’ostello e forse nella vita.

Con gli altri residenti dell’ostello il custode si comportava in modo distaccato, addirittura scortese. Pur non essendo molto amato, il signor Shabangu era rispettato per via della sua longevità. Si pensava che fosse l’uomo più vecchio dell’edificio, con la neve che gli si era depositata fitta sulle sopracciglia e sui peli rigidi intorno alla bocca nera. Andava su e giù per le scale trascinando una gamba. Faceva fatica a stare seduto e trovava pace solo in certe posizioni. Eppure non aveva ancora cinquant’anni.

Victor tornò a guardare nel magazzino. Non poteva sperare che il suo amico lo salvasse.

Il signor Shabangu non bussò. Entrò semplicemente perché ne aveva diritto, mettendo le larghe mani intorno allo stipite e spingendosi dentro il magazzino, dove ogni cosa era stata capovolta e allontanata dalla parete.

“Come stai stamattina, Victor? Soddisfatto di come vanno le cose?”.

“Non mi lamento, signor Shabangu”.

Il lasciapassare non era da nessuna parte. Victor avrebbe potuto mettersi a urlare. Il passato era scomparso. Non si poteva far nulla per riportare gli oggetti smarriti nella loro posizione. Né si poteva ripercorrere i propri passi con tanta precisione da scoprire a che punto si era perduto qualcosa.

Victor fu sorpreso di trovare le banconote nei pantaloni, dove le aveva lasciate. Diede al custode i quattro rand e venti centesimi che gli doveva. Furono accettati dal signor Shabangu con una cortesia che lo investì come un raggio di luna

“Vedo che qui è tutto fuori posto. Vedo anche che hai spostato le mie scorte dalla loro collocazione. Preferisco che questa stanza sia in perfetto ordine, lo sai”.

“Ho capito. Rimetterò tutto al posto giusto”.

Il custode fece un gesto con le mani.

“Dev’essere come un servizio da tè”.

“Rimetterò in ordine, promesso. Non trovo più una cosa”.

“Niente di troppo importante, spero. So che hai del lavoro extra grazie ai recenti invasori. La colpa è di quel signor Polk, credo. Ti ha messo a dura prova”.

“Mi ha dato la possibilità di lavorare allo spet­tacolo”.

“Comunque è una faticaccia. Capisco benissimo. Quando sei distratto è facile smarrire le cose”.

Il signor Shabangu fece un largo sorriso, che sembrava il prodotto di una lussazione alla mascella. Aveva stati d’animo monotoni per mesi di seguito, infilati l’uno sull’altro come perline in una collana. Superava Natale e santo Stefano senza la minima traccia di allegria, cantando inni nella prima fila del coro con un’espressione annebbiata da scozzese, e poi bevendo il succo di frutta rosso dalla zuppiera del punch con la stessa gioia di chi sorbisce una medicina.

In quello stesso istante Victor capì che era stato lui a prendere il libretto delle referenze. Era venuto in magazzino tutto gongolante, ad annunciargli che non c’era niente da fare.

Pur non essendo molto amato, il signor Shabangu era rispettato per via della sua longevità. Si riteneva che fosse l’uomo più vecchio dell’edificio, con la neve che gli si era depositata fitta sulle sopracciglia e sui peli rigidi intorno alla bocca nera. Andava su e giù per le scale trascinando una gamba. Faceva fatica a stare seduto e trovava pace solo in certe posizioni. Eppure non aveva ancora cinquant’anni

Victor si sentì perduto quanto il suo permesso. Shabangu era in cima alla sua lista, il primo dei suoi patrocinatori. Victor cercava di essere amico di chiunque potesse aiutarlo. Ora, senza alcun motivo comprensibile, il custode gli aveva portato via il permesso. Era una cosa senza senso. Adesso era nudo davanti al signor Shabangu. Barcollò. Voleva sedersi per terra. Non aveva mai provato un tale alternarsi di vampate calde e fredde.

L’intruso s’inoltrò nella stanza, osservando gli oggetti spostati durante la ricerca e il materasso sottile, appoggiato su un fianco contro la parete. Nel magazzino c’era una sola finestra, sbarrata, anche se sarebbe servita una lunga scala per raggiungerla dalla strada. Da lì entrò all’improvviso la luce del sole color farina di mais, che conferì al viso del signor Shabangu un insolito colorito dorato, come di un re Mida che si fosse portato le mani alla testa.

Victor notò, per la prima volta, che non sembrava degno di fiducia. Il signor Shabangu aveva le mani e il petto scarni, eppure il collo e il mento sembravano il collare di una lucertola. Si compiaceva di conoscere le fragilità e le superstizioni degli altri, informazioni che riferiva a Victor, e della quotidiana scoperta che nessuno lì dentro era migliore di lui. Nessun africano poteva batterlo.

Come aveva fatto a sopportarlo per tre anni? Com’era sopravvissuto al peso del custode che aveva gravato su di lui per tre anni interi, rubandogli il respiro dal petto? Che sfortuna aveva avuto quando, in un solo mese di tre anni prima, aveva perso il padre e guadagnato un succube che gli prosciugava le energie vitali? Non riusciva a credere alla sua sventura. Shabangu gli sarebbe pesato addosso fino alla morte.

Il custode si accomodò in fondo al materasso.

“Per te, Victor, la vita potrà rimanere piacevole in eterno, basta che mi paghi l’affitto. Sì, è vero che sono venuto a ricordarti quell’infausto giorno del mese. Ma non voglio portare solo cattive notizie. Questa sera comprerò della carne alla macelleria Clover. Ho ordinato le costolette di montone. Puoi cenare con me, se vuoi”.

“L’affitto glielo pago subito. Però non posso mangiare con lei, signor Shabangu. Il signor Polk mi vuole dal pomeriggio. Stasera c’è la prima dello spettacolo, giù al piano di sotto. Non l’hanno informata? Dovrebbe andare avanti fino a tardi”.

“In effetti ci hanno avvertiti”.

“Quindi non credo che sarò libero”.

In fondo al corridoio, la porta della camera di Shabangu era chiusa. Victor si chiese se era il caso di bussare. Il custode non tollerava alcuna sparizione nell’edificio, che si trattasse di uomini, donne o effetti personali, perché lo metteva in cattiva luce

“Be’, peccato. Costolette squisite”.

Victor fu sorpreso di trovare le banconote nei pantaloni, dove le aveva lasciate. Diede al custode i quattro rand e venti centesimi che gli doveva. Furono accettati dal signor Shabangu con una cortesia che lo investì come un raggio di luna. Victor ricordò che il custode era l’unica persona nell’edificio che conosceva il segreto del libretto delle referenze. Suo padre, prima di lasciare la città, si era confidato con lui, chiedendo il suo parere sul giusto prezzo da pagare. Shabangu aveva protetto Victor per tre anni. In quella settimana fatale, mentre si allestiva lo spettacolo di Polk, il custode non era riuscito a impedirsi di approfittare delle sue informazioni. Voleva trarre vantaggio da entrambe le parti.

Scesero insieme al piano di sotto, dove il signor Shabangu doveva cominciare ad aprire le porte e a rincorrere il personale di cucina. Victor cercò di capire il radicale cambiamento di umore del custode. Era lui, l’enigma. Perché avrebbe dovuto farlo? Perché una cosa del genere avrebbe dovuto rallegrarlo? Inutile rivolgersi alla polizia. Se aveva ragione su quel che era accaduto, e il sorriso del custode gli brillava dentro a dimostrarlo, allora toccava a lui frugare nel cuore dell’usuraio, per non dire nella sua stanza, e recuperare il lasciapassare.

Nel frattempo non poteva permettersi di metterlo in allerta. Non poteva lasciare che il documento uscisse dall’edificio. Sarebbe stata la sua fine.

Si fermarono un momento nella mensa, dove i preparativi per lo spettacolo erano quasi terminati.

“Non verrà a vedere lo spettacolo, signor Shabangu? Lei entra gratis, naturalmente, perché ha aiutato con la messa in scena. Può anche stare sulle scale e guardare dalla finestra. Al signor Polk non dà fa­stidio”.

“Allora è un europeo molto particolare. Mai conosciuto un uomo simile. Non preoccuparsi dei biglietti! Ma ho visto abbastanza per concordare con te sul fatto che il signor Peter Polk è tutto un altro paio di maniche. In ogni caso, Victor, la mia religione non crede nelle opere teatrali”.

Gli fremevano le labbra, come se fosse restio a cancellare il suo senso di vittoria e tornare infelice per i cambiamenti avvenuti nel suo regno. Si guardò intorno nella grande stanza.

“Non so perché si parli tanto della commedia del signor Polk. Ci hanno sconvolto la vita per settimane. E tutto per una finzione!”.

Victor si mise a controllare sotto le latte di vernice. Scostò il pesante rotolo di filo metallico per vedere cosa potesse nascondere. Niente. Era diventato un criminale dall’oggi al domani

Su questo il signor Shabangu aveva ragione. Nonostante il modo in cui Polk aveva presentato il suo progetto ai supervisori, i preparativi per lo spettacolo avevano finito per interferire con la routine dell’ostello. La mensa, in cui di solito le pentole ribollivano sui fornelli piene di scintillante porridge accanto a mucchi di pelose pannocchie zuppe d’acqua bollente, era stata convertita in un teatro. Le panche non erano più al loro solito posto. Sopra il palco improvvisato erano state inchiodate delle tende nere. La sera, quando gli uomini rimanevano sui gradini a parlare o a esercitarsi nel ballo, si sentivano i rumori delle prove dietro le porte chiuse a chiave e la voce seducente di una donna. A tarda sera arrivavano gli scoppi d’ira del regista Polk, che ribolliva e traboccava con la stessa facilità delle pentole sui fornelli.

Stavano anche aggirando la legge. C’erano ordinanze che impedivano agli attori bianchi e neri di esibirsi professionalmente, per soldi, sullo stesso palco. Polk pensava di aver trovato una scappatoia, cambiando il metodo di pagamento, e aveva scelto quattro residenti del Caledonian per lavorare insieme ai due protagonisti, Roland Adams e Janet Gilfillan. Victor li trovava interessanti quanto lo stesso Polk. Sembravano volare da un pensiero all’altro, da un sentimento all’altro, come acrobati. La compagnia di Polk sembrava lavorare fuori dalla legge, al di là di ciò che si poteva facilmente misurare o definire, eppure, come si capiva ascoltando le loro conversazioni, avevano un forte senso di ciò che contava. Mettevano l’individuo sopra il sistema, e avevano un modo di fare le cose sopra tutto il resto e sopra le aspettative degli altri. I due alloggiavano sullo stesso piano dell’albergo per soli bianchi malgrado il colore della pelle di Roland.

Poteva darsi che Polk e i suoi attori avrebbero capito la difficile situazione di Victor. Forse Polk avrebbe provato ad aiutarlo. Ma se Victor si fosse lamentato di Shabangu con qualcuno dei residenti dell’ostello sarebbe stato deriso. Dopotutto, aveva raccontato il suo segreto a un cristiano e si era reso vulnerabile.

“Allora dopo posso venire nella sua stanza, signor Shabangu. Vedrò se è ancora sveglio. Forse potremo ancora festeggiare insieme”.

“Ci vediamo più tardi, allora. Goditi lo spet­tacolo”.

Victor aspettò che il custode uscisse in corridoio, poi chiuse la porta. Stava tremando. Il libretto delle referenze sarebbe tornato nelle sue mani quella sera o mai più. Quando c’erano disordini, le leggi erano applicate in modo rigoroso. Se si scopriva che le referenze sul tuo lasciapassare erano scadute, ti caricavano su un furgone diretto alle riserve dei nativi.

Victor voleva viaggiare in Mercedes e in aereo, assistere al doppio spettacolo al drive-in europeo, comprare più carne da Clover di quanta potesse mangiarne un uomo in una volta sola, camminare per strada senza paura di essere intercettato e baciare le donne riluttanti in città. Per poter fare quelle cose doveva recuperare il permesso prima che sparisse per sempre.

Non sarebbe riuscito a fare nulla durante lo spettacolo. Molto probabilmente il custode sarebbe rimasto nella sua stanza, agitato come se dovesse impedire ai demoni di entrare dal piano di sotto. Era un’occasione unica. Da quando Victor era arrivato all’ostello, Polk era stato l’unico a far esitare il signor Shabangu sotto il tetto del suo regno.

Il mondo era cambiato con le unità di misura. Non c’erano più pollici e iarde, non più distanze in miglia sui segnali stradali, non più banconote da una sterlina prelevate dal registratore di cassa, non più le pinte e i galloni del sistema imperiale. Invece c’erano le unità metriche, che semplificavano la divisione e la moltiplicazione e perciò mettevano in risalto gli sfasamenti del sistema attuale.

Alla stazione di servizio della Shell avevano convertito una fila di pompe per vendere la benzina in rand al litro. Quando il Medio Oriente aveva interrotto le forniture di petrolio, si era formata una lunga fila di Chevrolet, Ford Cortina e Hillman Avenger. Lì vicino c’era la sala da tè Galaxy dove gli uomini compravano le provviste. Aveva cominciato a vendere zucchero bianco in pacchi da mezzo chilo circondati da mosche e latte in bottiglie di vetro da mezzo litro, mentre dietro il banco il proprietario, Tarun Naicker, annunciava che adesso faceva le cose a metà.

Gabriella Giandelli

Nessuno aveva dimestichezza con i litri, per non parlare dei centimetri, dei chilogrammi e dell’elettricità venduta in pacchetti di kilowattora. Quei termini avevano un suono da era spaziale, da vocabolario di astronauti e cosmonauti. Tutti avevano sentito parlare del successo di George Foreman, avevano osservato l’immagine sfocata del campione del mondo dei pesi massimi sullo stesso giornale in cui avevano letto che la guerra del Vietnam era finita. Due reginette di bellezza erano andate a Londra sullo stesso jumbo per partecipare al concorso di miss Mondo, una miss Sudafrica con le gambe lunghe, la pelle chiara e gli occhi azzurri, più una miss Africa del Sud con le gambe lunghe e la pelle scura. Lo Skylab 2 era stato lanciato per studiare un pianeta in cui Bruce Lee, la star di cento film di kung-fu, era morto all’improvviso. L’11 settembre, in Cile, il generale Pinochet aveva raso al suolo il palazzo presidenziale di Santiago.

Ed era la sera della prima all’ostello maschile cristiano Caledonian. Era l’unico spettacolo teatrale che si fosse mai tenuto lì dentro, a parte le rappresentazioni della natività messe in scena dagli evangelisti in visita. Polk era più calmo che mai. Era seduto al volante del suo pick-up Datsun, e dal finestrino aperto istruiva gli operai che scaricavano gli scatoloni. Aveva poco più di quarant’anni, eppure vedendolo così, sprofondato nel sedile, sembrava pesante come un vecchio.

“Hai visto Roland? Ormai dovrebbe essere qui”.

“Non l’ho visto, signor Polk. Devo andare a cercarlo?”.

“Vai pure, ma non credo che troverai niente, ragazzo mio. Il giorno della prima Roland fa sempre i capricci. Tu vai dentro. Non voglio che il tuo signor Sobukwe mi faccia il malocchio”.

“Signor Shabangu”.

“Signor Shabangu che controlla tutto qui dentro. Non t’invidio, tu che devi obbedirgli”.

A Victor non dispiaceva correre alla ricerca di Roland. Gli attori sarebbero spariti entro il fine settimana. Voleva memorizzare ogni improbabile minuto della loro apparizione, assorbire l’immagine di Janet nella camicetta di raso con le rose rosse in rilievo sulla tasca. Era già sul palco a leggere le sue battute da un foglietto, i capelli rossi tirati indietro sul cuoio capelluto bianchissimo. Victor avrebbe potuto spiarla tutto il giorno dal suo punto di osservazione nel corridoio. Aveva una strana, incommensurabile bellezza da strega. Non sarebbe più riuscito a togliersela dagli occhi.

Nello stesso tempo non voleva essere sorpreso a guardare. Solo alcune persone avevano il diritto di guardare gli altri. Anche con Polk e le sue star, gente diversa da tutti gli altri europei che aveva incontrato, Victor provava l’impulso di ritrarsi quando gli rivolgevano la parola.

Gabriella Giandelli

Tornò fuori e infilò la testa nel finestrino del pick-up.

“Roland non è arrivato. C’è Janet”.

“Sali di là. Andiamo a cercare una bottiglia di Castle lager”.

Victor salì e prese posto sul sedile del passeggero, dove mancava la cintura di sicurezza e c’era un pannello arrugginito al posto della radio. Polk indossava la sua solita uniforme, una camicia da safari a maniche corte, pantaloni marrone chiaro con cintura ed eleganti scarpe marroni. Sembrava un contadino. Appariva piuttosto compiaciuto della sua mole. Si vedeva da come guidava il pick-up.

“Non vuole cercare Roland, prima?”.

“Quando torneremo dal negozio di alcolici vedremo se è qui o no. Se non è ancora arrivato andremo a prenderlo. E allora sarà nei guai”.

Polk parlava come un contadino, rigirandosi le frasi in bocca, adottando una parlata così roca e sincera da perdere ogni credibilità. Potevi parlare così solo se vivevi nel cuore del paese, se non avevi mai ascoltato un disco o un dramma radiofonico, se misuravi ancora i tuoi prodotti in libbre e galloni e once, anziché in litri e chilogrammi. Ma Polk non era un contadino. Aveva visto il mondo e aveva già cominciato a minare il sistema del signor Shabangu.

Sulla strada principale viaggiavano camion Bedford diretti al grande porto in costruzione a Richards Bay. Il telone si sollevava sotto le corde per rivelare cataste di assi di pino e bombole di gasolio. Tra un camion e l’altro c’erano furgoni più piccoli usati dai padroni per trasportare nei cantieri gli operai, uomini scalzi in pantaloni corti seduti sul pianale con zappe e rastrelli.

Polk parcheggiò davanti al negozio di alcolici e aspettò che Victor gli portasse le bottiglie. Poi si fermarono sul ciglio della strada e bevvero la birra da un sacchetto pieno di ghiaccio. Non era la prima volta che lo facevano. Ogni sera, una volta terminate le prove, Polk si scolava una sfilza di Castle, una dopo l’altra. Beveva sul sedile anteriore del Datsun finché la sua faccia non diventava rossa nella luce dell’abitacolo. Quando finiva una bottiglia, scendeva barcollando dal pick-up e apriva il bagagliaio per cercarne un’altra. Aveva raccontato a Victor dei diciannove mesi che aveva trascorso su una nave mercantile dopo aver mollato l’università, attraversando il golfo Persico con carichi di semi di soia e parti di automobili, e della sua prima opera teatrale andata in scena in una scuola con una sola aula a King William’s Town, e degli spazi aperti della campagna che soggiogavano ed esaltavano il cuore.

Gabriella Giandelli

A Victor piaceva ascoltare Polk. Quel giorno avrebbe ascoltato la sua voce, e bevuto con lui, ancora per qualche ora. Ma non voleva che il regista si stancasse così presto il giorno della prima. Temeva che si sarebbe addormentato se si fosse scolato un’altra bottiglia, con le grosse gambe incastrate in modo innaturale sul freno a mano.

Quando Polk aprì la portiera per pisciare nel parcheggio e guardò con affetto la vetrina del negozio di alcolici, Victor decise di ricordargli che bisognava tornare all’ostello a cercare Roland. Polk faticava a capirlo. Sembrava frastornato. Victor non riusciva a immaginare dove si trovasse, in un uomo così sbronzo, il potere dell’immaginazione.

Ma Polk si riprese presto. Mandò Victor a prendere una tazza di caffè bollente con Cremora nella vicina sala da tè. Lo bevve senza scottarsi e tornò indietro guidando con cautela, sporgendosi verso il parabrezza per vedere meglio la strada. Ogni mattina, in fondo, era come se la sera precedente e la bottiglia precedente non fossero mai esistite. Polk non ricordava già più di essersi arrabbiato con Roland. L’attore avrebbe avuto una seconda possibilità.

Victor si accorse, costernato, che nella stanza del custode c’era già la luce accesa. S’inginocchiò e guardò dal buco della serratura per capire come stavano le cose.

Il signor Shabangu non si vedeva da nessuna parte. Al suo posto c’era un europeo, seduto alla scrivania dove il custode controllava i suoi calcoli e faceva i conti. Il blocco di carta carbone era stato sostituito da una macchina complicata, un motore con due mandrini intorno ai quali passava uno spesso nastro marrone.

Sicuramente il custode aveva disposto tutto in anticipo. Victor non riusciva a immaginare che quella macchina fosse stata installata in una sera sola. Era sorpreso che il signor Shabangu non lo avesse avvertito di stare alla larga dall’ultimo piano dopo lo spettacolo. Era come se volesse essere colto in flagrante, come se volesse ostentare il suo amico europeo.

Victor, accovacciato davanti alla porta, notò la giacca di cuoio rossastro dai grossi bottoni sullo schienale della sedia e i capelli tagliati corti sulla testa rettangolare dell’uomo. Aveva le cuffie sulle orecchie e stava regolando le manopole della macchina.

A un certo punto il custode sarebbe riapparso. Non aveva mai dormito da nessun’altra parte, mai viaggiato durante le vacanze, mai passato una notte in ospedale. Quindi Victor non avrebbe avuto un’altra occasione per cercare in quella stanza. Le sue chance diminuivano di ora in ora. La sera prima il signor Shabangu lo aveva divorato. Quella sera era comparso un altro uomo con un registratore per custodire ciò che gli era stato sottratto.

L’uomo era un agente della polizia segreta, Victor ne era certo. Vestiva in borghese, con la giacca di pelle al posto della divisa blu. Gli agenti avevano la reputazione di essere più intelligenti del poliziotto medio. Non avevano bisogno di alzare la voce, perché la loro potenza era temuta in tutto il paese. Un agente della polizia segreta poteva farti sparire per sempre. Poteva invalidare all’istante le referenze del tuo datore di lavoro e stracciarti il lasciapassare. Se eri un europeo poteva confiscarti il passaporto, imbarcarti su un aereo per espellerti dal paese, imprigionarti o segnalarti al ministero per farti mettere agli arresti domiciliari. Se ti prendeva, finivi nei guai.

Victor si stava rialzando in piedi quando si sentì afferrare per il collo e spingere dentro la stanza del signor Shabangu. L’uomo alle sue spalle, forte ed efficiente, gli bloccò le braccia dietro la schiena, impedendogli di voltarsi. Quello davanti a lui si alzò, improvvisamente rosso in viso, togliendosi le cuffie e spegnendo il registratore.

Nessuno aveva dimestichezza con i litri, per non parlare dei centimetri, dei chilogrammi e dell’elettricità venduta in pacchetti di kilowattora. Quei termini avevano un suono da era spaziale, da vocabolario di astronauti e cosmonauti

“Ho trovato un amico qui fuori. L’hai mai visto?”.

“Lavora con Polk. Non è vero, amico mio?”.

Victor fu percorso da un brivido, dalla punta dei piedi fino alla radice dei capelli. Il mondo era una recita. Lui, suo padre e Samuel Shabangu erano attori senza nome, persone che nel grande disegno della vita non contavano niente. Non riusciva a spiccicare parola con gli agenti della polizia segreta. Però li sfidava. Non gli dispiaceva di essere ammutolito davanti a loro. Era più fortunato di quanto non fosse mai stato. Il suo nome sarebbe diventato leggendario.

L’uomo alle sue spalle lo afferrò per un orecchio e parlò.

“Ci hai presi per il cinema? Pensi di poterci guardare così, amico mio? E comunque, cosa ci fai qui?”.

“Dormo nella stanza accanto, dove c’è il materasso. Ero solo passato a trovare il signor Shabangu”.

“Il tuo Shabangu non è qui per salvarti. Dov’è il tuo lasciapassare?”.

“Mi chiamo Victor Moloi. Il signor Shabangu glielo dirà. Il mio lasciapassare l’ha preso lui. È da qualche parte in questa stanza”.

“Racconti un sacco di balle, ragazzo mio. Devo proprio dirti che racconti un sacco di balle”.

L’uomo se lo teneva stretto accanto alla testa. Victor si alzò in punta di piedi, senza quasi avvertire il dolore, e guardò l’altro che rimetteva in ordine e s’infilava la giacca. Era un sollievo essere scoperto, catturato, trattenuto e costretto a confessare. Viveva nascosto da tre anni. Ora poteva essere libero da tutto. Poteva tornare da suo padre.

“Bene, dovrai restare con noi per un po’, amico mio. Del resto non possiamo mica lasciarti andare a raccontare storie a Polk e alla sua sfilza di brillanti attori e attrici. Non vogliamo disturbare la sua bella rossa. Domani cominceremo a chiarire l’accaduto. Faremo qualche chiacchierata con le persone coinvolte. Tu, intanto, sei arrivato nel bel mezzo di un’ope­razione”.

L’uomo alle sue spalle lo lasciò andare e lo spinse sul letto. I due poliziotti, ora entrambi in giacca di pelle, si sedettero davanti al registratore, cercando di estrarre le due bobine senza rompere il nastro. Gli sembrarono ancora più inetti di lui. Il loro sistema di lasciapassare e forze di polizia, prigioni e registratori, quel sistema che portavano nel cuore e trattavano come vangelo, era un’invenzione infantile. Aveva effetti nefasti, eppure le sue ragioni non erano più serie della logica di un bambino.

“Il mio libretto delle referenze è qui, in questa stanza, perché è stato il signor Shabangu a vendermelo. Lo sanno tutti. Se gli dai abbastanza soldi, lui va al dipartimento e ti procura un libretto delle referenze”.

“Stai muovendo un’accusa grave. Il signor Shabangu è amico del nostro dipartimento da molti anni. Non credo che traffichi in lasciapassare”.

“Lasciatemi dare un’occhiata in giro. Così lo trovo e ve lo faccio vedere”.

Non glielo permisero. L’altro poliziotto andò a chiamare il custode. Tornò qualche minuto dopo, con un sorriso che gli rimase sulla faccia. Non aveva niente di amabile.

“Il nostro Shabangu deve aver sentito qualcosa. Se l’è data a gambe”. ◆

Imraan Coovadia è nato a Durban nel 1970. Ha pubblicato romanzi e raccolte di racconti, e insegna all’università di Città del Capo. Il suo High low in between ha vinto il Sunday Times prize. In italiano ha pubblicato Il matrimonio (Marsilio 2002) e I ladri dagli occhi verdi (Newton Compton 2010). Questo racconto è un estratto del suo romanzo Tales of the metric system. La traduzione è di Silvia Pareschi.

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Questo articolo è uscito sul numero 1492 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati