“A nord, ci sono l’Inghilterra, paese incomprensibile, e gli stati scandinavi, paesi incomprensibili. A sud, c’è il Vaticano; la cupola di San Pietro è lo spegnitoio del pensiero occidentale: come questo duomo, ma più grande (indicò il Sacré-Cœur di Montmartre, lì accanto, sulla loro sinistra). Intorno al Vaticano c’è l’Italia, e l’Italia sono gli aerei che hanno protetto i rinforzi di Franco, quando la partita era tutto fuorché chiusa”. Si fermò, prese il compagno per il braccio. L’altro si fermò.
Henry de Montherlant, Il caos e la notte

Erano state le madri a metterli in contatto: due ragazzi dello stesso distretto che ora erano entrambi all’estero dovevano, dovevano incontrarsi. “Ngoba, non puoi mai sapere, un giorno potreste avere bisogno l’uno dell’altro”, aveva detto la madre di Soso durante una delle loro telefonate, e la madre di Mandla aveva ribadito lo stesso concetto al figlio, anche se le loro telefonate erano decisamente meno frequenti. Le case dove vivevano le madri si trovavano in due villaggi vicini nello stesso distretto. Le madri si erano incontrate a un congresso regionale delle chiese e, dopo aver esaltato la rispettiva prole con la sobrietà concessa alla gente di chiesa, avevano scoperto di avere entrambe un figlio all’estero – “Phi?” – “eYurophu! Owakho?” – “Naye!” – e la loro amicizia si era consolidata all’istante.

Quando Soso si decise a chiamare Mandla, dopo settimane di riluttanza e distrazione nonostante i regolari solleciti della madre, la sua telefonata era attesa da tempo. “Le nostre madri vogliono che c’incontriamo”.

“Lo so”, disse Mandla, “anch’io dovevo chiamarti, ma è stato un periodo un po’ –”.

Non erano vicini quanto pensavano in famiglia, ma del resto per le loro madri il fatto che si trovassero entrambi in Europa rendeva tutto semplice

“Lo so, mia madre mi assilla da quando ha conosciuto la tua e ha scoperto che anche tu vivi qui. A proposito, dove vivi esattamente?”.

Soso viveva a Madrid, “… dove passo dieci ore al giorno, cinque giorni a settimana, a volte pure sei, una roba ridicola, chiuso in biblioteca a scartabellare i manoscritti di un ignoto poeta sudafricano che si è trasferito qui anni fa. Sto cercando di scrivere una tesi su di lui. E tu?”. Mandla passava più o meno altrettante ore a perfezionare le sue interpretazioni di Stravinskij sotto la guida di un celebre pianista cinese a Stoccolma.

Non erano vicini quanto pensavano in famiglia, ma del resto per le loro madri il fatto che si trovassero entrambi in Europa rendeva tutto semplice. “Quanto potrà mai essere grande iYurophu?”, aveva chiesto la madre di Mandla, non capendo come mai l’amicizia combinata di suo figlio non stesse procedendo spedita quanto la sua con la madre dell’amico prescelto. “Non mi sembra tanto grande”, si era risposta. Soso l’aveva trovato molto divertente, perché sua madre aveva detto più o meno la stessa cosa.

Considerati i costi, la perdita di tempo e le altre difficoltà che un viaggio avrebbe comportato per entrambi, decisero di dire alle madri che si erano visti, era stato piacevolissimo ed erano felicissimi di aver fatto conoscenza. Organizzare un vero incontro avrebbe causato dei disagi non solo inimmaginabili, ma anche irrilevanti per le loro madri, alle quali importava solo che due ragazzi dello stesso modesto distretto erano in Europa e dovevano, dovevano incontrarsi e conoscersi, casomai fosse successo qualcosa e allora avrebbero avuto bisogno l’uno dell’altro. Stavano ancora cercando di farsi andar bene quel nuovo piano quando Mandla ammise: “Faccio sempre fatica a mentire a mia madre, soprattutto –”, e a quel punto Soso confessò che anche per lui era difficile e così decisero di fissare un altro appuntamento telefonico per parlare più concretamente di quale poteva essere il periodo migliore dell’anno per incontrarsi.

Fu Mandla che chiamò per suggerire un incontro a metà strada, a Londra. “O magari a Berlino. È un po’ che voglio visitare Londra e Berlino”. Scelsero aprile, l’unico momento in cui Mandla poteva fuggire, durante una tournée del suo maestro in Brasile. I tre mesi di preparativi furono elettrizzanti, intensi e sorprendentemente rapidi. Durante il primo mese si sentirono una o due volte alla settimana, a febbraio i contatti erano diventati quasi quotidiani e a marzo si parlavano mattina e sera, aggiungendo e sottraendo attività al loro programma della settimana, infervorandosi più delle loro madri al pensiero di quella vacanza che si stava rivelando in sintonia con la personalità e le abitudini di entrambi.

Avrebbero alloggiato in un albergo londinese dotato di un pianoforte a coda dove Mandla avrebbe potuto studiare il pomeriggio in vista del suo concerto di fine giugno. Soso nel frattempo sarebbe andato alla British library per consultare alcuni documenti del suo autore, che prima o poi aveva comunque intenzione di esaminare. La mattina e la sera avrebbero usato parte dei soldi delle loro borse di studio e dei loro guadagni per frequentare i teatri di Londra, mangiare in un certo ristorante vegetariano a Covent garden, passeggiare per Kew gardens e Hyde park, visitare la Monk’s house, pregare nella cattedrale di san Paolo, ascoltare gruppi rock a Camden town, esplorare il quartiere di Zadie Smith a Willesden green, vedere Soho di notte e magari camminare lungo il Tamigi o trovare “qualche altra attività meno schifosamente turistica”, disse Soso, che era diventato l’organizzatore del viaggio.

Le loro madri erano state da tempo estromesse dai preparativi, dopo aver entrambe disapprovato quello che ai loro occhi stava diventando uno sperpero di soldi all’insegna della bisboccia, e avevano ricevuto solo le informazioni minime sul futuro incontro. Però, i loro ragazzi. In Europa. L’orgoglio che provavano parlando di loro. E ne parlavano in continuazione, di come gli sforzi per crescere dei figli da sole fossero stati ripagati ora che avevano un figlio phesheya kwezilwandle. Diventate migliori amiche, avendo scoperto di avere tanto in comune rispetto alle loro compaesane, seguivano la nascente amicizia tra i loro figli come se la loro stessa amicizia ne dipendesse, cosa in parte vera.

“È così bello, yazi, avere dei figli che ti danno ancora retta, anche da lontano”, diceva MaXaba.

“È una benedizione, mngani”, concordava MaZondi, e non lasciandosi mai sfuggire un’occasione di sottolineare il proprio ruolo nella vicenda aggiungeva: “Li abbiamo cresciuti bene, non c’è che dire. Non tutti i genitori possono dire lo stesso, ngabantwana babo, soprattutto dei figli maschi”.

Naturalmente nessuna delle due avrebbe saputo spiegare cosa facesse esattamente il figlio in Europa, ma a loro bastava sapere che, qualunque cosa fosse, era una cosa seria e importante agli occhi di chi queste cose le capiva. Quando qualcuno, per esempio il loro reverendo padre, le chiedeva cosa facesse il figlio, MaXaba rispondeva che il suo era un musicista, non diceva mai un pianista, e MaZondi, ancora più in crisi, dopo vari tentativi falliti aveva scoperto che “uSosobala uyiProfessor” nella maggior parte dei casi era considerata una risposta abbastanza impressionante e soddisfacente.

“Non hanno abbandonato gli usi del paese, pur stando lontano, e questa è davvero un’ottima cosa”.

“Sì, cara, li abbiamo educati bene. Capiscono ancora l’importanza di conoscere abantu bendawu, ed è un segno che sono ancora legati agli usi del paese, e questo è un bene”.

La prima volta che vide Mandla nell’affollatissimo aeroporto di Heathrow, Soso seppe che era lui prima ancora di averne la conferma. Forse era per via di com’era vestito: scarpe marroni, pantaloni leggeri grigi, camicia azzurra, giacca di pelle nera e una sciarpa bordeaux, proprio come aveva detto. Ma in seguito Soso si sarebbe detto che non era stato quello il motivo e che aveva notato l’abbigliamento solo dopo aver constatato il fatto, come una conferma della certezza già arrivata, che quell’uomo, con gli occhiali da sole che spuntavano dalla sciarpa, la valigia nera al suo fianco, un telefono nella mano destra, un anello alla sinistra e un auricolare in un orecchio, era l’uomo che stava cercando. Soso rimase fermo lasciando scorrere i secondi, cercando di non farsi notare mentre lo osservava, lo assorbiva, cercando anche di riprendersi, perché si era improvvisamente reso conto di essere più agitato e sudato e meno distinto, dopo aver attraversato di corsa i terminal, terribilmente consapevole del ritardo con cui aveva raggiunto il luogo dove si erano dati appuntamento. Come una preda quando sente di essere osservata, Mandla cominciò a guardarsi intorno, finendo per girarsi nella sua direzione, e Soso dovette far finta di non averlo ancora visto e di essersi invece fermato per orientarsi e capire se si trovava vicino al posto giusto. Mandla gli fece un cenno di saluto con la mano e Soso s’incamminò verso di lui, sorridendo, sgranando gli occhi, ancora turbato dal fatto di non aver pensato, durante quella sua muta contemplazione, a una buona frase di apertura che lo facesse sembrare davvero sorpreso di vederlo (finalmente).

“Santo cielo, questo posto è un labirinto!”, disse e si slanciò goffamente in avanti come per abbracciarlo, ma fu trattenuto dal borsone che gli pendeva dalla spalla e finì per tendergli la mano. “Che piacere vederti, finalmente! Le nostre madri sarebbero così felici! Dai, chiamiamole subito e poi torniamocene a casa”, e Mandla, ridendo, rispose alla stretta di mano con un abbraccio virile e disse: “Non ci pensare nemmeno, bello, capirebbero subito che le stiamo prendendo in giro!”.

Il tragitto in metropolitana sembrò molto più breve di quanto fosse in realtà, e il tempo fu modulato dalle allegre chiacchiere su casa e sul loro itinerario, che sarebbe cominciato nel preciso istante in cui avessero lasciato i bagagli. Facendo colazione tardi, o meglio pranzando presto, parlarono di nuovo a lungo dei loro rispettivi campi di studio e di lavoro, mostrando reciproca ammirazione per la strada intrapresa.

“Naturalmente mia madre non capisce nulla di quello che faccio. Quando la gente glielo chiede dice uthi ngingu-professor, e ormai appoggio questa versione, anche se isende kakhulu indiela prima che io raggiunga quel livello”.

“Mia madre è uguale, dice –”.

“Lo so –”.

“Sono un musicista –”.

“Un cantante, lo so, è quello che mi ha detto mia madre!”.

Pierluigi Longo

“E io le dico: ‘Ma dai!’. Ma come si fa, come si –”.

“Devi fartene una ragione –”.

“Tanto è inutile –”.

“Sì, è inutile stare a discutere”.

“Anche se immagino”, disse Mandla, “che il fatto che io abbia cominciato a studiare canto per poi mollare deve averla confusa parecchio, e non sono riuscito a spiegarle il passaggio al pianoforte. Non che l’opera lirica per lei avesse molto senso, ma almeno cantavo”.

Tutte queste cose le sapevano già tutti e due: stavano rielaborando gli stessi racconti ma dal vivo, o meglio li stavano autenticando attraverso la loro presenza fisica, a differenza di quanto avveniva nelle conversazioni disincarnate al telefono, su Skype o via messaggio. Dopo essere tornati su tutti gli argomenti dei loro scambi passati, mentre vagavano per le strade di Earl’s court dove avevano pranzato, nella speranza di notare qualcosa che li potesse dirigere verso il loro albergo (non sapevano più se dovevano prendere un autobus o camminare, non sapevano neanche più esattamente dove si trovavano), Soso si disse che era giunto il momento di affrontare un nuovo argomento che li distraesse dalla crescente frustrazione perché si erano persi.

“Bello, quest’anello. Chi te lo ha regalato?”.

“Chi ti dice che mi è stato regalato?”.

“Be’ –”.

“È bello, vero? Mi piace molto”.

“Anche a me piacerebbe molto. Soprattutto se mi fosse stato regalato”, ribadì senza esitare Soso.

“Lo vuoi? Posso dartelo”.

“Preferirei che mi dessi qualcos’altro”.

“Non sono bravo a flirtare, ti avverto”.

“Come, come? Scusa?! E chi ti dice che sto flirtando?”, rise Soso. “Volevo solo dire che mi sentirei più a mio agio se mi dessi qualcosa di più –”.

“Corposo”, disse Mandla, ridendo alla sua bat­tuta.

“Pensavo a qualcosa di più ‘personale’, ma detto ciò –”, disse Soso.

“Io avrei in mente qualcosa di personale e corposo”, disse Mandla.

“Sei disgustoso e sei anche pessimo a flirtare, hai ragione”, disse Soso ridendo, ma si sentì in imba­razzo.

Ed è così che si aprì la via. Quella notte, rientrando in albergo dopo un pomeriggio alla Royal academy of arts e una serata passata ad ascoltare un attore la cui comicità nasceva dall’incredibile assenza di talento unita a un’altissima concezione di sé, si chiusero la porta della camera alle spalle e cominciarono a baciarsi senza una parola. Durante tutto il giorno avevano entrambi pensato che forse prenotare un’unica stanza matrimoniale (per risparmiare, avevano concordato, anche perché “noi neri dividiamo i nostri giacigli dalla notte dei tempi”, come aveva detto Mandla al telefono) non era stata un’idea tanto geniale. Percepivano entrambi il calore dell’attrazione sessuale crescere con il passare delle ore. Ma a un certo punto della serata, forse durante la cena vegetariana in un locale seminterrato a Covent garden, mentre trangugiavano nervosamente vino e si scompisciavano ripensando allo spettacolo di Mack the Mike, i loro piedi si toccarono, le loro gambe si scontrarono e poi restarono incollate per qualche attimo, poi per qualche minuto, più volte, e i loro sguardi s’incontrarono in modo sempre più diretto e intenso e ci furono sempre più silenzi che non potevano essere interrotti da parole perché le uniche parole adatte a quelle pause sembravano inopportunamente premature, grossolane e sicuramente non avrebbero rispecchiato il motivo per cui le loro madri volevano che quei due ragazzi dello stesso distretto s’incontrassero.

“Non hai ancora risposto alla mia domanda”, disse Soso, interrompendo uno di quei silenzi. “Chi ti ha regalato l’anello?”.

“Nessuno”, rispose Mandla.

“Lo sapevo che avresti risposto così. Gli uomini sudafricani sono tutti uguali, ovunque li incontri. Nilahlele, yoh”, e risero entrambi.

“Parli come se non fossi uno di noi”.

“È il più grande mistero di questo secolo: come io sia potuto nascere lì. La mascolinità sudafricana sfugge alla mia comprensione. Io proprio non vi capisco. Ma a quanto pare avete architettato tutto, a partire dalle bugie sul vostro stato coniugale”.

“Guarda che dico sul serio, non sono sposato. L’anello mi piace perché rappresenta qualcosa”.

“Cosa? Il tuo matrimonio?”. Scoppiarono di nuovo a ridere, chiaramente brilli, ma Soso aveva già sollevato la mano con il bicchiere vuoto per chiedere al cameriere di riempirlo.

“In un certo senso sì –”.

Ndazile! Mio dio”.

“Rappresenta la mia unione con il Pianoforte – con la p maiuscola, e con la mia carriera”, e Mandla fece una pausa. “In un certo senso, potremmo dire la mia unione con me stesso. O con l’Arte. O con il Sé, con la s maiuscola. Il Sé superiore, capisci?”.

Soso scoppiò in una risata gutturale e fragorosa, e sembrò incapace di fermarsi anche quando il cameriere si mise ad aspettare pazientemente.

“Basta che mi faccia un cenno con la testa”, disse il cameriere. “Le servo lo stesso vino? Sì. Ok”, e rise anche lui, pur non avendo idea di cosa avesse scatenato quell’ilarità. “Anche per lei, signore?”.

“Sì, grazie. Questo qui è pazzo”, e Mandla si unì alla risata.

Quando il cameriere si fu allontanato, Soso riuscì a riprendere sufficiente fiato per dichiarare che non aveva mai sentito una cazzata tanto colossale, e aggiunse che se mai Mandla si fosse accorto di non avere un futuro da pianista classico, poteva sempre prendere il posto di Mack the Mike nel locale dietro l’angolo. “Faresti furore! Davvero!”.

Mandla, più che ridere, ridacchiava e sorrideva beato, e quando Soso sembrò essersi ripreso a sufficienza e si fu asciugato le lacrime, Mandla gli prese entrambe le mani tra le sue, lo guardò negli occhi e disse: “Soso Zondi, ntsizwa yaseNtab’ay’lali, ti giuro sul mio Sé, sulla mia Arte e sul mio Pianoforte che non sono sposato a nessun essere umano né sono promesso o impegnato o legato a nessuno. Quindi, mi vuoi sposare?”, e il cameriere, che era tornato appena in tempo per sentire quest’ultima parte, fu visibilmente elettrizzato e cominciò a saltare con il vassoio in mano ripetendo “Oh mio dio! Oh mio dio!”, e tutti li fissarono, e anche Soso e Mandla si guardarono intorno, confusi quanto gli altri clienti, prima di rendersi conto di essere loro la causa di tutto quel subbuglio. Ritrassero di colpo mani, gambe e piedi, ripiegandole sopra e sotto la sedia. Il cameriere sembrò prima confuso, poi imbarazzato, e nel ristorante tutti muovevano gli sguardi con curiosità, sospetto o irritazione, posandoli ora sul cameriere ammutolito ora sui due uomini seduti, con l’aria mite e decisamente a disagio. Il cameriere si scusò e sgambettò via. Tornò per raccogliere i bicchieri rotti nell’agitazione e asciugare il pavimento, mentre Soso e Mandla assicuravano al gestore che si era trattato di un incidente e no, non li scocciava che il cameriere gli avesse rovesciato il vino addosso e no, non era colpa del cameriere, anche se restarono vaghi sull’esatto svolgimento dei fatti. Quando il gestore se ne fu andato, il cameriere si tirò su, mormorò grazie e mi spiace davvero e sparì apparentemente per sempre in cucina, mentre Soso e Mandla bevvero in fretta e più compostamente il bicchiere offerto dalla casa e lasciarono il ristorante poco dopo. Presero la metropolitana per tornare in albergo, ridendo ancora della scena che si erano lasciati alle spalle e ormai sicuri di una cosa: la loro reciproca e appena sublimata attrazione sessuale.

Pierluigi Longo

I tre giorni successivi a Londra furono di pura beatitudine, con qualche piccolo intoppo reso inevitabile dall’incontro di due personalità che si stavano scoprendo. Non c’è cosa più bella per due amanti che ritrovarsi in vacanza in un luogo esotico nella prima fase di una relazione, quando i sensi sono vigili, attenti e aperti a ogni cosa, a ogni sensazione, a ogni vista. Uno vuole andare a sinistra, l’altro a destra e naturalmente qualunque sia la decisione finale non avrà le stesse conseguenze che avrebbe se la relazione non fosse agli albori. Uno finge di protestare, l’altro esagera i modi da prepotente, ma non nasce nessun rancore perché non importa dove stanno andando ma come ognuno di loro sperimenta lo spazio. Sono innamorati e davvero felici, anche se il loro carattere fondamentalmente scontroso non vuole ammetterlo.

“È il tempo, stupido”.

“No, sei tu”, rispose Mandla, e saltando di fronte a Soso attaccò a cantare Amarilli, mia bella accanto alle bancarelle di libri lungo il Tamigi. Soso si mise gli occhiali da sole e sorrise, cogliendo di tanto in tanto l’aria altrettanto perplessa dei passanti e delle persone lì intorno. Quando Mandla finalmente concluse l’aria, una folla di spettatori applaudì, Mandla s’inchinò con fare teatrale e tutti ripresero a camminare.

“Spero di non dovermi sorbire questa roba ogni volta che decido di fare una passeggiata con te, altrimenti dovrò seminarti”, fu il commento di Soso sullo spettacolo.

“Ma piantala, ti è piaciuto e lo sai”.

“Non è vero!”.

“E invece sì!”.

“Non sei mica Mawrdew Czgowchwz. Meno male che hai scelto il pianoforte”.

“Be’, senza voler offendere la tua Mardù non-so-che, sono stato proprio bravo. L’hanno pensato tutti!”.

“Ma va, cos’altro dovevano fare se non applaudire? È stato imbarazzante”.

“Lo so che ti è piaciuto”.

“Non è vero”.

E così via.

Aveva cominciato a unirsi allo slancio del ritmo, a incoraggiare le oscillazioni e le spinte, aprendosi lungo tutto il suo essere, mettendo gradualmente da parte tutte le sue inibizioni mentre s’immergeva sempre più pienamente nel caos di quel piacere crescente

Il primo vero banco di prova arrivò quando Soso chiese a Mandla di fidarsi di lui mentre si imbarcavano in un giro non molto pianificato di North west London alla ricerca di una qualche biblioteca –

“Kensal Rise”, disse Soso.

“Ah, se non sbaglio potrebbe aver già chiuso”, disse la bibliotecaria del Kilburn library centre. “È la biblioteca di cui avevano parlato tutti i giornali?”.

“Sì, proprio quella!”, disse Soso.

“Allora sì, mi sa che ha chiuso”.

Ma Soso disse che dovevano andare a verificare di persona, camminando da Kilburn high road fino a Willesden Green spinto da un bisogno, espresso male ma intenso, di fare l’esperienza diretta dei luoghi in cui erano ambientati alcuni romanzi a lui cari.

“Stiamo inseguendo una chimera”, lanciò Mandla dopo un’ora passata a camminare in un quartiere all’apparenza banale, senza nulla da segnalare tranne dei normalissimi edifici di mattoni tutti uguali e nemmeno l’ombra della fantomatica biblioteca.

“Se inseguiamo una chimera, vuol dire che finiremo per trovare quello che stiamo cercando”, ribatté Soso.

“Non capisco”.

“Allora smetti di usare espressioni che non capisci”, e Soso riprese a studiare la sua piantina, insistendo perché proseguissero. Oltre la stazione, oltre il centro islamico, oltre un’altra fermata dell’autobus, entrando nell’ennesimo isolato di periferia, e sempre senza nessuna traccia della biblioteca o del cimitero accanto al quale, secondo la bibliotecaria, doveva trovarsi.

“Ma poi, cosa c’è di speciale in questa biblio­teca?”.

“Niente. Dei libri. Non lo so. A quanto pare ha chiuso”.

Si chiusero la porta della camera alle spalle e cominciarono a baciarsi senza una parola. Durante tutto il giorno avevano entrambi pensato che forse prenotare un’unica stanza matrimoniale (per risparmiare, avevano concordato, anche perché “noi neri dividiamo i nostri giacigli dalla notte dei tempi”, come aveva detto Mandla al telefono) non era stata un’idea tanto geniale

“Lo so. Ce l’ha detto la tipa. Ma allora perché vuoi vedere una biblioteca vuota?”.

“Potrebbe non essere vuota. E comunque è importante. L’ha costruita Mark Twain. Ed è importante per questa comunità, ma il governo vuole chiuderla. Ci spiace, ma la chiudiamo. È un atto di solidarietà”.

“Solidarietà verso chi? Verso una biblioteca chiusa? Dici sul serio?”. E scoppiò in una di quelle risate riservate a Mack the Mike e simili.

“Se ti scoccia tanto, Mandla, forse dovresti tornartene in albergo! Non sopporto la tua negatività, il tuo piagnisteo. O mi aiuti oppure te ne vai, perché in questo momento sei solo una seccatura e non sopporto più le tue battute irritanti. Che palle!”.

Dopo aver camminato un po’ in silenzio, Soso finì tuttavia per accettare la sconfitta, si fermò di colpo a una fermata dell’autobus e decretò che avrebbero dovuto prendere il primo autobus che passava diretto alla stazione di Kensal e da lì riprendere il treno verso il centro.

Dopo aver martellato per quasi due ore il pianoforte, suonando un’interpretazione particolarmente dissonante dell’accordo di Petruška, Mandla lasciò l’hotel insieme a Soso in un silenzio carico di tensione, anche se poi le avventure di quella sera a Soho curarono tutte le ferite del pomeriggio. E lo stesso successe dopo quando fecero l’amore, un’attività che li occupava ancora due volte al giorno e una fonte di conforto che sembrava non doversi esaurire mai. Soso adorava il modo in cui Mandla lo prendeva, un modo rude e delicato al tempo stesso, quasi sempre afferrandolo con una certa forza come temendo che potesse cambiare idea, saltare dalla finestra dell’albergo sul primo treno per Heathrow e lasciarlo lì. Eppure quella presa dominatrice racchiudeva in sé tutta l’energia protettiva che Soso aveva ricevuto da ogni persona che aveva conosciuto fin lì, anzi ne lasciava traboccare altra ancora. Mandla faceva l’amore con lui come sull’orlo del pianto, e lo tirava a sé e gli entrava dentro carezzandolo come per berlo fino in fondo, e attingendone sempre più mentre si spingeva dentro di lui, sperimentando forse una gioia così timorosa da non poterla credere duratura e perciò aggrappandosi forte, sempre più forte, per non lasciarla andare mai. Dato che lo stereotipo sui membri degli uomini neri era stato, purtroppo, confermato (“Ammazza, sei da competizione!”), per Soso il dolore iniziale provocato da quella forza fu alleviato dalla tenerezza dei baci di Mandla sulle sue labbra, orecchie, collo, petto, schiena o spalle (a seconda), dalle sue carezze e dalla dolcezza delle sue parole e dei suoi gemiti che nascevano dal puro piacere che provava appagandosi su di lui. Soso si sentiva un oggetto ammirato di piacere senza precedenti, e per questo sopportava il dolore che comunque si attenuava fino a essere superato dal piacere che provava nel sapere che anche i suoi bisogni erano soddisfatti. E aveva cominciato a unirsi allo slancio del ritmo, a incoraggiare le oscillazioni e le spinte, aprendosi lungo tutto il suo essere, mettendo gradualmente da parte tutte le sue inibizioni mentre s’immergeva sempre più pienamente nel caos di quel piacere crescente. A quel punto Mandla sembrava raggiungere la massima sicurezza, incoraggiato dall’espressione senza filtri di quell’appetito così animale che era determinato a soddisfare. Mandla lo trascinava verso desideri sempre più umilianti, spingendolo verso posizioni indecenti, e soddisfaceva un bisogno che sapeva di aver risvegliato in Soso solo se Solo lo chiedeva esplicitamente, anche se in ogni momento Mandla sapeva già cos’era che Soso più desiderava che venisse fatto al suo corpo. Anche se Soso sentiva che a Mandla piaceva vederlo supplicare, così abbandonato, così disperato e vulnerabile, privo di freni, dal piacere di Mandla non trapelava nessun desiderio di umiliare, piuttosto la voglia di dare piacere e forse di essere esaltato.

Pierluigi Longo

Il giorno seguente Mandla saltò lo studio e trascorsero la giornata in albergo, chiesero il servizio in camera e guardarono la televisione e dormirono e bevvero a letto e fecero una doccia solo la sera prima di andare all’opera, dove non sarebbero andati se non fosse stato per l’amico e collega di Mandla che faceva parte del cast e aveva fatto mettere da parte dei biglietti omaggio per due ottimi posti. Andarono con l’amico e alcuni componenti della compagnia in un pub aperto fino a tardi dalle parti di Piccadilly circus, cantando arie e bevendo tutti troppo, anche se nessuno si ubriacò ma tutti dissero un sacco di sciocchezze.

“Ma il punto è –”.

“In sostanza si toccava ascoltando la voce di lei –”.

“E lo faceva come se niente fosse, come –”.

“Come fosse normale –”.

“Non che ci sia niente di sbagliato!”.

Mandla gli fece un cenno di saluto con la mano e Soso s’incamminò verso di lui, sorridendo, sgranando gli occhi, ancora turbato dal fatto di non aver pensato, durante quella sua muta contemplazione, a una buona frase di apertura che lo facesse sembrare davvero sorpreso di vederlo (finalmente)

“Caccialo fuori e datti da fare –”.

“Ma ti pare una cosa normale?”.

Tenori, bassi, baritoni, contralti, soprani e mezzosoprani che snocciolavano scemenze a proposito di scemenze.

Tornarono in albergo, ubriachi, e fecero l’amore, dormirono, si svegliarono e fecero l’amore due volte, poi sfiniti uscirono per andare a visitare i Kew gardens e la casa di Virginia Woolf a Richmond che ora divide il giardino con gli uffici della Montblanc. Mentre pranzavano tardi in un pub di Richmond che dava sul Tamigi e finivano le ultime briciole di una torta di mele particolarmente acida, Mandla si fece una foto con Soso e mandò lo scatto a sua madre, e poi affrontò la questione della loro incombente partenza due giorni dopo.

“Non abbiamo ancora parlato di quando ci rivedremo”.

“Non so, Mandla. Magari potresti venire a trovarmi a Madrid. Tanto più che non ci resterò ancora a lungo. E poi potrei venire io a trovarti in Svezia”.

“Mi sembra un ottimo piano. Perché tu sai che non posso vivere senza di te”.

“Ma dai, sai benissimo che non è vero. Hai vissuto senza problemi finora”.

“Sì, ma era prima d’incontrarti. È questa la differenza, ora ti ho incontrato. E ti dico che non posso vivere senza di te”.

“È il tramonto che illumina il fiume e si riflette su queste finestre mentre mangi questa disgustosa torta di mele che ti fa parlare così, tesoro. Gli inglesi non sanno davvero cucinare. Ricordami di non mangiare mai più in un pub. Mi dimenticherai nel momento esatto in cui atterrerai a Stoccolma e riprenderai i tuoi concerti e tutta quella gente ti applaudirà sera dopo sera e vorrà la tua compagnia e la tua attenzione. Dimenticherai tutto questo”, e con un gesto della mano abbracciò l’interno del pub e la vista fuori, “nel momento in cui ricadrai nelle tue abitudini, nella tua routine, e riprenderai la tua vita di sempre”.

“È il tuo modo di dirmi che non mi ami?”.

“Neanche tu hai mai detto che mi ami”.

I tre mesi di preparativi furono elettrizzanti, intensi e sorprendente-mente rapidi. Durante il primo mese si sentirono una o due volte alla settimana, a febbraio i contatti erano diventati quasi quotidiani e a marzo parlavano mattina e sera

“Ti sto dicendo che non posso vivere senza di te e da questo non deduci che ti amo?”.

“Mandla, non è da me fare deduzioni da ciò che non è enunciato esplicitamente”.

“Devi essere un pessimo ricercatore, allora”.

“Enunciato esplicitamente nella vita. Con i testi è diverso”.

“Non vedo perché”.

“È così. Se tu avessi letto un po’ lo sapresti”.

“Grazie. Comunque è irrilevante. Non hai ancora risposto alla mia domanda”.

“E tu non hai risposto alla mia”, disse Soso.

“Qual è la domanda? Se ti amo o no? Ascolta, Soso, io ti amo. Tu mi ami?”.

Soso sospirò. Guardando intensamente Mandla, esaminando per la prima volta i suoi lineamenti, Soso notò quanto le sue guance fossero leggermente paffute, il suo volto tondo, gli occhi grandi, e quanto le labbra fossero piccole in confronto al resto dei tratti. Mandla non era l’uomo più attraente che avesse mai visto, no, e come mai era un tenore mentre il suo corpo sembrava quello di un basso? E poi come riusciva a suonare il pianoforte con quelle dita così tozze? E da dove nascevano quei modi garbati, scherzosi, l’eleganza nel vestire, in uno che poteva tranquillamente passare per un uomo convenzionalmente mascolino, serio, austero e privo di fantasia, mentre non era nulla di tutto ciò?

“Wow. Cioè, davvero, wow. Sono talmente sconvolto che non so cosa aggiungere”, finì per dire Mandla, ma Soso restò in silenzio e fece un altro sospiro. “Neanche una parola, eh? Sono davvero esterrefatto. È la più grande doccia fredda del giorno. Che dico, della settimana! Anzi, dell’anno! Cazzo. Sei davvero crudele in questo momento, lo sai?”, e si sentì ferito.

“Mandla…”.

“Tutta questa felicità è spaventosa. A maggior ragione perché non può durare. Siamo realisti, nessuno può aspettarsi che continui all’infinito. E tra poco partiremo e io non voglio che tu te ne vada ma dobbiamo partire e non so cosa fare”

“No, guarda, non farmi la lezione”.

“Non capisci. Hai frainteso il mio silenzio”.

“Cos’altro può voler dire se non che non provi per me quello che io provo per te? Lo capisco, sai? Tu sei una persona sveglia, brillante, che legge di tutto, un sacco di libroni. Sforni grandi pensieri su grandi poeti, scrivi libri sterminati e io… sono solo un pianista. Un musicista, come direbbe mia madre”, e rise, “che ha solo del talento e a te questo chiaramente non basta. Ti stai chiedendo come potrebbe alimentare il tuo interesse e –”.

“Mi sto chiedendo come possiamo andare avanti così. Se possiamo andare avanti così. Mandla, questi ultimi giorni, qui con te… Tutta questa felicità è spaventosa. A maggior ragione perché non può durare. Siamo realisti, nessuno può aspettarsi che continui all’infinito. E tra poco partiremo e io non voglio che tu te ne vada ma dobbiamo partire e non so cosa fare e non vedo come dirti ‘ti amo’ aiuterebbe, considerate tutte le circostanze e il fatto che non possiamo continuare così e io non credo, non ho mai creduto nei propositi che uno formula in queste condizioni e lo so che parlando così rovino tutto, lo so, ma so anche che non sarei sincero se non dicessi quello che sto dicendo anche se più di ogni altra cosa vorrei dirti che ti amo, ed è vero, ma non capisco perché mi dovresti credere e prenderlo per vero sapendo quanto tutto è andato in fretta e quanto tutto diventerà impossibile nel momento in cui questa vacanza finirà. Capisci?”.

“Quindi. È ‘sì’ o ‘no’? Vorrei solo che tu fossi chiaro, se non ti dispiace”.

Soso sospirò di nuovo e disse: “Immagino ‘forse’. Sì, ti amo e forse possiamo fare in modo che questa cosa funzioni ma non so come”.

“Be’, ottimo. Prolisso ma ottimo. Stai analizzando troppo la cosa. Possiamo parlarne ora, come stavo provando a fare, e vedere le nostre opzioni”.

Le loro madri li contattarono quella sera, dopo che la madre di Mandla aveva inoltrato la loro foto alla madre di Soso, ed entrambe si erano stupite di trovarli ancora insieme, giorni dopo. Che facevano ancora a Londra? Non era uno spreco di soldi? L’albergo sarà stato pure economico, ma quanto economico? Condividevano una stanza? Un letto? Tutto questo tempo? Molto interessante… Ma perché altri due giorni? Perché restare così a lungo? Ci fu un chiaro cambiamento di tono rispetto ai primi messaggi d’incoraggiamento, sostituiti da appelli alla prudenza e imploranti incitazioni a tornare a concentrarsi sul lavoro e sulle rispettive occupazioni prima di compromettere tutto quello su cui avevano lavorato tanto sodo con i loro capi. Per i bianchi due giorni in più possono essere l’equivalente di un mese – “Sai, abelungi banjani. Magari ti licenziano, e poi che fai?”. “Non è bianco, è cinese”. “Ahi, peggio mi sento. Ti licenziano di sicuro” – e li supplicarono di tornare al lavoro e risparmiare invece di sprecare soldi con uno sconosciuto che probabilmente guadagnava meno di lui e in un modo o in un altro se ne stava già approfittando.

Gli ultimi due giorni sembrarono al tempo stesso interminabili e brevi, costellati da un lungo viaggio in treno in campagna, in gran parte contemplativo, per andare a visitare Charleston, nell’East Sussex, e da una serie di telefonate ignorate, delle madri, della compagnia operistica e di rispettivi amici che proponevano d’incontrarli dopo aver scoperto da Twitter e Facebook che erano a Londra. I due furono costretti a separarsi per il periodo più lungo da quando stavano insieme, perché Soso si decise finalmente ad andare alla British library per quei documenti che aveva intenzione di consultare già da tempo. Si assentò per quattro ore e a Mandla, che nel frattempo avrebbe dovuto studiare per il suo concerto, sembrò un’eternità e non fece che mandare messaggi a Soso chiedendogli se aveva finito. Ma non dovresti studiare? Chiama tua madre, lo scaricò Soso, e Mandla, con sua stessa sorpresa, seguì il consiglio e chiamò MaXaba.

Pierluigi Longo

Quando telefonò, le due madri erano insieme e Mandla disse loro che il giorno dopo sarebbero finalmente tornati ognuno nella sua città. Parlò con entrambe, e quando ebbero finito le madri chiamarono Soso che rispose sussurrando e le richiamò qualche minuto dopo essere schizzato fuori dalla biblioteca. Le madri conoscevano bene i rispettivi figli e durante quelle brevi conversazioni riuscirono a cogliere quel dolore inaspettato ma inespresso portato dalle loro voci attraverso gli oceani fino alle terre della loro infanzia. Sedute nella cucina di MaZondi, sorseggiavano del tè bollente e inzuppavano biscotti nelle tazzine che MaZondi aveva preso dalla vetrinetta in onore MaXaba. Dopo le telefonate rimasero un po’ in silenzio, tranne per il rumore dell’aria soffiata sulle tazzine per raffreddare il loro tè Five Roses.

“Si direbbe che si sono divertiti”.

“Sì, mngani, proprio così”.

Non si parlarono quasi per niente, rimanendo con la testa appoggiata al finestrino, pensosi, chiedendosi, per la prima volta dall’inizio della loro vacanza in quella città, cosa avessero pensato di Londra rispetto a Madrid e Barcellona, o a Stoccolma e Helsinki, eccetera eccetera

“Forse un po’ troppo. Sono preoccupata per il capo di Mandla. A quanto pare non è bianco, che già sarebbe stato tremendo, ma cinese, e quelli sono davvero crudeli. Se Mandla torna in Europa troppo tardi, dio solo sa cosa potrebbe fargli quell’uomo”.

“Anch’io sono preoccupata per Soso. Mi è sembrato stanco. Come riuscirà a finire il suo libro se se ne va in giro eyobhiyoza per una settimana intera?”.

Continuarono a snocciolare e ad affastellare le loro inquietudini. Erano semplicemente troppe. Così giunsero alla conclusione che l’Europa, in fondo, era un posto molto grande e che i loro figli non avevano più bisogno di prendersi cura l’uno dell’altro. Decisero che avrebbero trasmesso questo messaggio non appena si fossero salutate dopo il loro tè.

Soso tornò al suo tavolo in biblioteca, prese Casa e lo rilesse. Già a Madrid aveva cominciato a notare, con un certo disagio, quanto fossero simili le opinioni che lui e il suo oggetto di studio avevano su una serie di cose. Per esempio, alla domanda di un giornalista su cosa trovasse più affascinante nella vita, Mdunyelwa aveva risposto, a quanto pare “senza esitare”: “Me encanta el hombre guapo y bondadoso porque es poco común”, che in un certo senso, aveva concluso Soso dopo una lunga riflessione, era quello che anche lui trovava affascinante in un uomo. Un uomo bello e anche gentile era davvero uno spettacolo per gli occhi, la cui rarità era stata notata dal poeta più di mezzo secolo fa. “Pero ¿dónde encuentras esos hombres guapos, amables?”, aveva chiesto all’intervistatore, prima di aggiungere: “Quizás, uno tenga mas suerte buscando un unicornio”. L’intervistatore osservava che lo scrittore esule, nonostante tutte le difficoltà che aveva dovuto affrontare e pur essendo diventato ormai una figura controversa anche in Spagna, “manteneva, come tutti i neri, un buon senso dell’umorismo”.

Durante quel pomeriggio trascorso tra gli archivi della British library, Soso trovò la bozza inedita di una composizione musicale scarabocchiata in uno dei tre diari lì archiviati. Mdunyelwa doveva averla scritta a Madrid qualche mese dopo il suo incontro con il generale di destra, ma quando ancora scriveva in inglese e imparava lo spagnolo, avendo già abbandonato lo zulu. Soso fu così commosso da quel pezzo che decise che lo avrebbe letto a Mandla e poi lo avrebbe obbligato a suonarlo dopo cena quella sera, la loro ultima sera insieme a Londra. Era un componimento semplice, perfino ridicolo, ma struggente, forse per la solitudine e l’autocommiserazione vissute dall’autore in quel periodo della sua vita. Un uomo nero esiliato nella bianca Europa, solo, che si sentiva non amato e non amabile, e che forse soffriva di una depressione non diagnosticata, e a cui l’amore e la sicurezza si presentavano ora solo sotto una forma complicata e compromettente.

E troverò una casa

lontano da casa

E in quella casa

Troverai un letto

E in quel letto

Troverai un uomo…

il mio uomo

forte, buono e sincero

E mi amerà come io lo amerò

E con lui lì accanto

al mio fianco

Faremo della mia casa la nostra casa

Con bambini, brandy e torte

Un giardino e dei libri

– e se vorrà una piscina

faremo anche quella.

Trascorsero la sera a camminare per Soho, spostandosi da un ristorante che chiudeva a un pub ancora aperto per finire in qualche locale anche se non ne avevano voglia, tutto pur di non dormire le ultime poche ore che ancora avevano insieme. Per la prima volta da quando si conoscevano non bevvero, rimanendo sobri per evitare che l’alcol accentuasse la sonnolenza che sembrava inverosimile anche se i corpi si facevano stanchi. Alle due del mattino entrarono in un centro massaggi tailandese all’angolo di una strada e restarono un’altra ora a fissarsi negli occhi, in silenzio, lottando contro il sonno, ricavando le stesse sensazioni dai massaggiatori che lavoravano fianco a fianco sulle loro schiene. Dopo furono assaliti dalla fame, presero qualcosa da mangiare al distributore dell’albergo, e poi fecero l’amore piangendo dal primo all’ultimo istante. Ci fu solo tenerezza, in ogni momento, priva del desiderio sfrenato delle loro prime scopate. Steso sulla schiena, Mandla sembrava sconfitto mentre Soso, seduto sopra di lui, controllava il ritmo di ogni cosa. Si baciarono più appassionatamente, si strinsero con più forza, ognuno prendendo il viso dell’altro tra le mani e asciugando le sue lacrime e prolungando la loro congiunzione e ritardando i loro orgasmi. Facevano l’amore per ricordarsi l’uno dell’altro, non avendo ancora stabilito cosa ne sarebbe stato di loro tra qualche ora, lasciandosi a Heath­row per tornare a Madrid e a Stoccolma. Si stavano dando amore, perché era di questo che ognuno aveva bisogno e l’altro adesso lo sapeva, perché durante quella settimana a Londra più di tutto avevano imparato che l’amore ha il potere di trasformare ogni cosa.

Camminando per le strade di Willesden green, cercando e non trovando la bellezza che la lettura di quei libri gli aveva fatto immaginare, Soso aveva capito che era l’amore, l’amore delle persone, non i mattoni e la calce, che rendeva Willesden green com’era nelle pagine che lo avevano portato lì. Era stato l’amore a trasformare quel posto. E l’amore aveva preso un uomo un po’ sovrappeso, con un viso tondo e una voce buffa, con le labbra sottili, le dita tozze e un grosso pene, e lo aveva trasformato in un uomo affascinante e bello e spiritoso la cui partenza faceva venire le lacrime agli occhi. L’amore era così. Cambiava le cose. E quando alla fine vennero, anche fare l’amore li aveva trasformati. Parlarono fino all’alba, dormirono due ore, poi si svegliarono per fare le valigie, vestirsi, fare il check-out e prendere il treno per l’aeroporto. Il viaggio questa volta sembrò più breve di quando erano arrivati, anche se non si parlarono quasi per niente, rimanendo con la testa appoggiata al finestrino, pensosi, chiedendosi, per la prima volta dall’inizio della loro vacanza in quella città, cosa avessero pensato di Londra rispetto a Madrid e Barcellona, o a Stoccolma e Helsinki, eccetera eccetera. ◆

Nozizwe Herero è un eteronimo dello scrittore sudafricano Abdul-Malik Sibabalwe Oscar Masinyana. Scrive racconti, saggi e libri per bambini. Questo racconto è uscito sulla rivista letteraria sudafricana Prufrock con il titolo Two (serious) boys, Eyurophu. La traduzione è di Francesca Spinelli.

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Questo articolo è uscito sul numero 1492 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati