Il tempo, che non poteva essere governato, si presentò alla festa vestito male. Un vero peccato. Il comitato del sindaco pianificava la cosa da un mese, ma appena cominciò la settimana del tanto annunciato evento la pioggia, fitta e ininterrotta, cadde dal cielo per giorni e giorni. “Nella nostra cultura, la pioggia è una benedizione”, continuavano a ripetere diversi impiegati, in faccia e nelle orecchie del sindaco, fino a quando a lui non venne voglia di togliersi la cravatta e usarla per strangolare qualcuno.

Il piccolo ponte, la cui “inaugurazione” era il motivo della celebrazione, era stato inagibile dal mercoledì fino al sabato dell’evento. Il fatto che la pioggia fosse la causa dell’impraticabilità del ponte non era di per sé sorprendente per chi aveva visto la struttura. Era chiaro anche all’osservatore più ottimista che una forte pioggia l’avrebbe resa inutilizzabile.

Indubbiamente l’inaugurazione di un nuovo ponte, nello splendore dei suoi tre metri e mezzo, era un evento ancora più raro in queste zone remote

Comunque, erano state invitate alcune personalità di rilievo, che avevano confermato la loro presenza dopo diverse pressioni. Era già stata pagata una fortuna a una “lontana” cugina del sindaco per la fornitura di succo di frutta Oros e scone, e il ponte era comunque visibile dalla striscia di terra su cui erano stati allestiti un podio di fortuna e un gazebo traballante.

Come succede spesso in eventi simili, ogni volto nel pubblico aveva un’aria di crescente attesa per quella giornata. Era importante non solo essere presenti, ma anche dare l’impressione di esserne contenti. Il pubblico aveva superato le aspettative: circa centocinquanta persone, rispetto alle cento previste. Sul podio improvvisato, i dignitari sedevano con sorprendente solennità, forse tradendo il fatto che, nonostante la felice occasione, erano persone sempre assillate da preoccupazioni molto più grandi di quelle che li coinvolgevano quel giorno.

Tuttavia, non c’era niente che sottraesse rilievo all’evento. Non capitava spesso che dei funzionari del governo nazionale si unissero al sindaco, e indubbiamente l’inaugurazione di un nuovo ponte, nello splendore dei suoi tre metri e mezzo, era un evento ancora più raro in queste zone remote. Si diceva che ci sarebbe stata abbondanza di cibo e bevande, ma naturalmente il rispettoso ascolto dei discorsi era il prezzo che gli stomaci brontolanti avrebbero dovuto pagare per il loro vivo interesse verso il consueto rinfresco a seguire.

Un poeta, che aveva scelto come tema le conquiste del partito al governo, rubò la scena quando, alla fine della sua poesia, incitò la folla a cantare con lui: “Venite e ammirate / Venite A e venite B / Oh venite e vedete / Venite C e venite D / Oh venite e ammirate / ciò che il congresso di un tempo / ha fatto, ha fatto”, ripetendolo più volte. Un noto ubriacone, che tutti chiamavano Bra Zest e che non mancava mai a questo tipo di eventi, scattò in piedi e si mise a ballare mentre la folla riprendeva quel mantra, ma il diffuso gradimento per la sua spontaneità fu un poco smorzato quando gli sforzi provocarono una forte scoreggia dalla fessura delle sue natiche coperte di stracci. Alcuni risero bonariamente, altri lo schernirono in maniera poco caritatevole, ma l’espressione del volto di Bra Zest non si allontanò dalla smorfia allegra per cui si era a lungo allenato.

Fu allora che il ministro dei lavori pubblici, senza dubbio toccato dall’appassionato mantra e dalle grida della folla, si alzò personalmente per ringraziare il poeta, consegnandogli quello che sembrava un sottile mazzo di banconote. Il gesto, eseguito con quel tipo di movimento quatto e nascosto di chi vuole concludere la transazione in segreto anche se si svolge davanti a una folla di spettatori, mandò subito in estasi il pubblico. Tra i presenti circolò una notizia che incontrò subito un sussurrato ma ampio consenso: le banconote erano da 200 rand.

Alcune ferventi donne tra il pubblico, unendo le mani per applaudire questo atto di generosità, levarono anche qualche gloria e alleluia. Ma Edith Mvelase, con l’elaborato copricapo che la distingueva tra la folla come una delle partecipanti più illustri (anche se non era sul palco), rivendicò la sua appartenenza lassù più che tra la polvere dei corpi brulicanti là sotto.

“È così”, affermò a voce alta. “Il ministro è così”.

“Anche l’ultima volta, quando abbiamo accolto il premier, ha fatto lo stesso con una bambina che aveva tenuto un discorso. Che Dio benedica quest’uomo generoso”, disse, sventolandosi con un giornale ripiegato mentre orecchie e occhi impressionati assorbivano le sue parole. Purtroppo, il gesto generoso del ministro fece sì che il poeta si lanciasse in un’altra serie di strofe ripetitive, a cui il sindaco, che era l’oratore successivo, reagì aggrottando le sopracciglia con disapprovazione e lanciando un’occhiataccia al bardo sudato.

In realtà, il sindaco era più arrabbiato con il ministro dei lavori pubblici che con l’entusiasta poeta, ritenendo che la generosità del primo fosse una cosa che avrebbe dovuto prevedere, come qualcuno il cui battito cardiaco sia in sintonia con quello della popolazione locale presente all’incontro. Ma l’audacia del ministro, che veniva nel suo collegio elettorale e poi dava spettacolo di generosità per farsi notare, era davvero incredibile. “Ha pensato in che luce mi mette questa sua esibizione?”, pensò il sindaco, furente.

Ben presto fu il suo turno di parlare. Sentendosi in netto svantaggio, prese la parola con uno slancio che non era da lui.

“Dio è buono!”.

E il pubblico rispose: “Sempre!”.

“Sempre!”.

“Dio è buono!”.

Il botta e risposta erano diventati un classico delle domeniche (la maggior parte), durante le quali il signor sindaco svolgeva il ruolo di maestro di cerimonie nella chiesa locale, e aveva presto scoperto che la cosa funzionava altrettanto bene anche in incontri di natura più laica. Ma era un uomo dal temperamento reattivo e volubile, e il pensiero di come il ministro lo avesse appena messo in difficoltà a casa sua lo faceva ancora ribollire di rabbia. Deglutì a fatica, fece un respiro profondo e guardò con gli occhi velati di chi è davvero, anche se solo interiormente, esasperato.

“Questo giovane uomo”, esordì, indicando il poeta, che ora era sceso dal palco e si trovava in prima fila tra il pubblico in piedi. “Questo ragazzo, converrete tutti con me, è uno dei figli più dotati della comunità”. Ci furono mormorii di approvazione e un generale annuire di teste.

Christian Dellavedova

“Onorevole ministro”, continuò, voltandosi per lanciare uno sguardo di fuoco al sorridente membro del gabinetto, “non sorprende che lei sia rimasto così colpito dal modo in cui il giovane usa le parole. Infatti, io e mia moglie stavamo giusto discutendo, poco prima di venire qui, su quando dargli il regalo che gli abbiamo comprato durante la nostra ultima visita nella capitale…”.

“Giovanotto”, continuò il sindaco, agitando un dito fintamente minaccioso in direzione del poeta, “dopo devi venire alla residenza, perché lì ti aspetta il tuo computer portatile nuovo di zecca”.

In quel momento l’assemblea si ammutolì per un attimo. Una confusione, immediata, provocata dal fatto che il sindaco era un uomo notoriamente avaro. Ma la moglie del sindaco intervenne prontamente, prima che un qualsiasi dubbio potesse germogliare in quella situazione. Quasi facendo trasalire l’autrice dei discorsi del ministro, una giovane bella donna che lo seguiva dappertutto, la signora sindaca, come le piaceva essere chiamata, balzò in piedi sul posto e gridò: “Ah! Ma papi, dovevamo darglielo in chiesa! Pensavo che fossimo d’accordo!”.

Ne seguì uno stato di quasi pandemonio che durò più di un minuto. Il poeta, dubbioso e speranzoso allo stesso tempo, sentendo che, anche se non c’era mai stato un computer portatile, ora doveva per forza essercene uno, alzò in aria un braccio e un pugno chiuso in segno di giubilo, al che fu afferrato da molte mani e issato in alto. Questo evento, che fece del poeta il centro momentaneo dell’attenzione, sarebbe potuto continuare ancora per un po’ se una delle guardie del corpo del sindaco non avesse avuto la presenza di spirito di gridare in uno dei microfoni a sinistra del sindaco.

“Mettetelo giù!”.

L’ordine fu impartito con tale forza che le mani, per obbedire all’istante, non ebbero il tempo di pensare a un atterraggio morbido per l’eroe del momento; così il poeta atterrò piuttosto goffamente e dovette allungare una mano per attutire la caduta.

“Vedete”, disse il sindaco, cercando di riprendere parzialmente in mano la situazione. “Guardate come avete quasi ferito il nostro bene più prezioso, il nostro tesoro. Siete forse invidiosi?”.

Quest’ultima domanda fu espressa con un pizzico d’ironia e la folla rise alla battuta. Ma il sindaco era deciso ad affrontare una volta per tutte l’imprevista e sgradita glorificazione del poeta.

Christian Dellavedova

“Soccorsi! Dove sono i soccorsi quando ce n’è bisogno? Dove sono queste persone? Soccorsi!”.

E mentre i primi soccorritori in divisa apparivano, correndo da un veicolo vicino, altre due guardie del corpo avevano già preso il poeta e lo stavano portando verso di loro.

“Ecco”, disse il sindaco con la sua voce più rassicurante, sentendo per la prima volta dopo lunghi minuti che stava riprendendo il controllo della situazione. “Sì… controllate il braccio. Sono sicuro che stia bene, ma… controllate il braccio. Questa folla sta cercando di uccidere il giovane nel suo giorno fortunato”, al che il pubblico scoppiò di nuovo a ridere, sollevato dal fatto che il sindaco avesse conservato un po’ del suo umorismo e lo stesse condividendo con loro.

Fu questo scoppio di risa a svegliare il ministro dei lavori pubblici per l’ennesima volta da quando gli era stata offerta la sedia dorata e rossa a lui riservata per l’occasione. Si guardò intorno irrigidito e imbarazzato, perché chi si sveglia per le risate spesso sospetta di essere il bersaglio di uno scherzo. Il sindaco si schiariva la voce e diceva quanto fosse felice che un ministro in carne e ossa avesse sottratto tempo alla sua fitta agenda, per non parlare del viaggio fino al “nostro piccolo e umile angolo di questa regione” e così via.

Mentre parlava, ripetendo frasi trite che non aveva bisogno di ripassare (ma che, si potrebbe aggiungere, era sempre felice di riesumare), il sindaco agganciò lo sguardo della moglie mentre si girava per rivolgersi agli assistenti del ministro. Un microsecondo fugace, a dire il vero, ma non poté fraintendere il perplesso fastidio nello sguardo che lei gli rivolse. “Come diavolo facciamo ad andarcene da qui in debito con questo ragazzo di un portatile inesistente, e poi dove lo prendiamo? Mi stai incasinando il budget”, disse fugacemente lo sguardo, prima di sciogliersi nella calda e materna sollecitudine della bella autrice dei discorsi, che le domandava se il vento e la polvere non fossero troppo per lei e se non volesse uno scialle per coprirsi le spalle e perfino il viso. Non c’era bisogno che la signora sindaca ascoltasse il discorso del marito, aveva già sentito quelle cose centinaia di volte.

Mentre i venti minuti cominciavano lentamente ad approssimarsi ai trenta e il sindaco continuava a snocciolare i successi della sua amministrazione, il pastore Agrippa Khumalo, uno dei membri della comunità più arrabbiati tra quelli presenti, aveva trovato uno sfogo per la sua frustrazione: lo si sentiva infatti gridare dal veicolo verso il quale i primi soccorritori avevano scortato il poeta illeso.

“Guarisci! Guarisci! Nel nome di Gesù! Guarisci! Urrr…”, si sentiva competere con il monologo del sindaco, che ora stava sciorinando numeri e percentuali di poco interesse per la folla riunita. Dire al probo guaritore di placarsi, era un compito che nemmeno le guardie del corpo del sindaco sembravano disposte a svolgere.

In effetti, il pastore Agrippa Khumalo aveva tutte le ragioni per sentirsi offeso in questa circostanza, in cui, per ragioni che nessuno gli aveva spiegato e ignorando la prassi più o meno consolidata, c’erano importanti personalità che partecipavano a un evento del comune, ma lui non era sul palco. Teneva il poeta in quella che, da lontano, sembrava una morsa; lo stringeva forte da dietro, in modo che il braccio che lo bloccava afferrasse anche la spalla del giovane, e gridava a squarciagola le sue suppliche di guarigione “in caso ci fosse qualcosa di rotto”.

Il pastore Agrippa Khumalo aveva tutte le ragioni per sentirsi offeso in questa circostanza, in cui, per ragioni che nessuno gli aveva spiegato e ignorando la prassi più o meno consolidata, c’erano importanti personalità che partecipavano a un evento del comune, ma lui non era sul palco

“Guarisci! Urrr… Guarisci! Urrr…”, continuava deciso l’uomo di Dio, e il sindaco cominciò a capire che era necessario un intervento rapido.

“Ah, mfundisi! Il mio pastore personale!”.

La stretta del pastore Agrippa sullo sfortunato poeta si allentò un po’.

Mfundisi, sei qua!”.

E la presa del predicatore offeso sul suo paziente si ammorbidì ancora di più.

“Perché nessuno mi ha detto che l’uomo di Dio è qui?”, chiese il sindaco a nessuno in particolare.

“Dov’è una sedia?”, continuò il sindaco, guardandosi intorno sul palco.

Mfundisi! Per favore, sali!”.

Il pastore Agrippa Khumalo lasciò andare il poeta, che ora era decisamente infastidito nonostante le banconote da 200 rand che foderavano la tasca posteriore dei suoi pantaloni a motivi africani, e cominciò a marciare trionfalmente verso il podio.

“Onorevole ministro”, continuò, voltandosi per lanciare uno sguardo di fuoco al sorridente membro del gabinetto, “non sorprende che lei sia rimasto così colpito dal modo in cui il giovane usa le parole”

“Siediti padre mio”, pregò il sindaco, mentre il suo pastore saliva sul palco.

“Quest’uomo è il mio padre spirituale”, aggiunse il sindaco.

“Cominciavo a chiedermi chi avrebbe detto una preghiera finale”.

Ma nel suo cuore, che a volte dimentica la necessità di questo tipo di alleanze strategiche, pensò: “Quest’uomo è uno sfacciato. Si sta prendendo davvero troppo spazio”. In ogni caso, il sindaco accettò il fatto che il suo pastore avrebbe dovuto tenere una preghiera di chiusura, anche se non era stato previsto nulla del genere per quel giorno. Una delle sue guardie del corpo sussurrò anche al sindaco, proprio mentre riprendeva il suo posto dopo aver finalmente terminato il lungo discorso, che gli scone e gli Oros forniti per questa festa inaugurale sembravano piuttosto scarsi per le dimensioni della folla riunita.

Mentre la fronte gli si corrugava per la rabbia, il sindaco stabilì con risolutezza che la presunta lontana cugina fosse una donna avida che in futuro non avrebbe beneficiato di nessuno degli eventi e dei progetti del comune. Naturalmente, questo momento di fastidio non si sovrappose al ricordo del sindaco di aver intascato la metà del denaro destinato alla cugina, soldi che aveva preteso di versare su uno dei suoi conti personali il giorno dopo averli ricevuti dal responsabile delle finanze.

Il pastore Agrippa, arrivato il suo momento sotto i riflettori in tutta la loro gloria, non era il tipo d’uomo che si lasciasse sfuggire l’occasione per usarli, anzi, perfino con un extra. Cominciò la preghiera osservando che la sacra Bibbia ammonisce tutti i buoni cristiani a perdonare non solo i loro nemici, ma anche i loro amici.

“Tu solo sai, o Signore, che noi che abbiamo dedicato umilmente la nostra vita al servizio del tuo vangelo non lo abbiamo fatto per il desiderio di essere ricompensati personalmente… o riconosciuti. Siamo felici di servire la causa del tuo grande regno, ma non lo facciamo per ambizione personale. E so, mio Signore (e qui cominciò ad alzare ulteriormente la voce, già forte), che è solo il tuo santo spirito a ricordare a un raduno dei tuoi figli, come questo, che l’evento non dovrebbe cominciare e nemmeno chiudersi senza una preghiera. E come continuare senza invocare la tua presenza onnipotente per guidarci tutti?”.

Il sindaco, che aveva seguito con attenzione la direzione che la preghiera stava prendendo, dopo un po’ di sconcerto iniziale, si sentì attaccato. Insomma, questo pastore, invece di essere grato di essere stato chiamato sul palco e di aver ricevuto il microfono per la preghiera di chiusura, continuava a prendersela con coloro che avevano osato lasciarlo fuori dal programma?

“Anche l’ultima volta, quando abbiamo accolto il premier, ha fatto lo stesso con una bambina che aveva tenuto un discorso. Che Dio benedica quest’uomo generoso”

Ma il pastore Agrippa Khumalo non aveva finito. L’uomo di Dio non era il tipo di persona che si lascia sfuggire un’opportunità, così spostò l’attenzione sul ministro dei lavori pubblici, che era, lode a Dio, in mezzo a loro. E gli rivolse la sua attenzione con tutta la forza della profezia.

“Mio Dio! Mio Dio!…”. L’emozione sembrava soffocargli la voce, senza comprometterne per una frazione di secondo il volume. L’intensità appassionata del momento fece sì che uno dei confratelli tra la folla cominciasse una rumorosa liturgia. Il baritono echeggiante di quest’ultimo minacciava di sovrastare perfino le grida del pastore Agrippa. E una donna anziana vicino a lui cominciò a piangere in modo incontrollato per ragioni che, anche mentre scrivo, caro lettore, mi rimangono poco chiare. Queste due ultime interruzioni fecero sì che il pastore si fermasse un attimo, per evitare che la sua profezia sul ministro si perdesse nel tumulto, cosa a suo parere davvero inopportuna.

“Mio Dio!”, ricominciò.

“Solo con il dono della tua benedizione, che ci fa vedere più lontano di quanto gli uomini possano vedere, posso dire oggi, in questo angolo nascosto del paese, senz’ombra di dubbio, che siamo davvero in presenza di un futuro presidente di questo paese!”.

Dal pubblico si levò un forte coro di alleluia misto a esclamazioni di sorpresa, shock e stupore. Il ministro, naturalmente, sapeva che tipo di gioco si stava giocando. Era il tipo di leccata di culo a cui si era abituato, in occasioni diverse e per motivi diversi. Ciononostante, si concesse un breve momento d’irritazione, accompagnato da un sorrisetto di apprezzamento per lo spettacolo.

Ora, se a questo punto degli eventi qualcuno avesse intravisto il poeta (e tu, fortunato lettore, sei nella posizione giusta per riuscirci) avrebbe notato che il tipo era abbastanza imbronciato. Tutte le attenzioni, infatti, gli erano state tolte, comprese quelle sgradite dell’uomo di Dio, il pastore Agrippa Khumalo. Inoltre il poeta aveva cominciato a pensare molto seriamente a come mettere le mani sul promesso, inesistente computer portatile. Secondo il poeta, oltre alle banconote da 200 che teneva in tasca avrebbe dovuto ottenere qualcosa di tangibile per la sua brillante performance di quel giorno.

Ma dobbiamo arrivare alla questione degli Oros e degli scone, soprattutto perché l’abbondante offerta di questi basici prodotti era il principale fattore di motivazione per buona parte dei partecipanti. Purtroppo, si scoprì che la presunta lontana cugina del sindaco non era stata molto onesta nell’utilizzo del budget a lei assegnato. In effetti, un senso di generale inquietudine, che si trasformò in un forte malcontento dei più coraggiosi tra i presenti, si diffuse rapidamente tra le gole in attesa nel pubblico. Gli scone, trascinati in mezzo alla folla in grandi sacchetti di plastica trasparente, non sembravano in grado di sfamare neanche una folla di cinquanta persone, per non parlare delle centocinquanta bocche e stomaci presenti. L’augusta occasione, cominciata così bene, sembrava davvero destinata a una conclusione infausta.

Ancora peggio, si scoprì presto che gli Oros erano stati diluiti solo per dargli una parvenza di colore e non, come le gole radunate si aspettavano, per la dolcezza del gusto. Infatti, mentre i dignitari si preparavano a scendere dal palco e a dirigersi verso gli imponenti convogli che li avrebbero scortati al municipio, dove il cibo sarebbe stato senza dubbio di qualità molto superiore, la delusione dei presenti per il rinfresco che era stato preparato per loro divenne palpabile. Il poeta, con i soldi che aveva in tasca e che non vedeva l’ora di spendere al Kentucky Fried Chick­en vicino al garage all’angolo, oltre il quale si vedeva la strada sterrata che portava alla township, bevve un sorso di Oros annacquato e rovesciò il contenuto del suo bicchiere, sbuffando con disprezzo. “Ma non faranno mica sul serio”, sibilò a nessuno in particolare. Dentro di sé, però, il poeta non poteva fare a meno di sentire che aveva avuto, a tutti gli effetti, una buona giornata.

Sentiva con forza che la promessa del computer portatile doveva essere rapidamente esaudita. Sfortunatamente, decise che la guardia del corpo preferita del sindaco era la prima persona che avrebbe dovuto aiutarlo in questa impresa. Subito. La sua richiesta perfettamente ragionevole fu accolta con la più inaspettata delle aggressioni. Innanzitutto, l’uomo lo fece precipitare all’indietro con un deciso spintone.

“Perché lo chiedi a me? Perché non lo chiedi a lui direttamente? Datti una calmata!”.

La cosa colpì il bardo della comunità come una grande ingiustizia. Quando cercò di intervenire con un “ma, capo!” ben scandito, le cose peggio­rarono.

“Vattene via, ragazzo!”.

La loro inimicizia fu suggellata da quest’ultima dichiarazione di rifiuto. Un ultimo atto di violenza ingiustificata. Gli occhi del poeta si riempirono di lacrime di fronte a questo insulto. “Pensano che non siamo niente, perché loro sono al potere. Non rispettano il popolo”. Nel suo momento di cieca furia, il poeta era abbastanza convinto che questo attacco alla sua dignità, per non parlare dell’apparente sabotaggio delle sue prospettive personali e dei suoi benefici materiali, fossero letteralmente l’incarnazione del disprezzo del partito al potere per “il popolo”.

Non è necessario, a questo punto, entrare nel dettaglio del fatto che il poeta era un tipo piuttosto presuntuoso, spronato e guidato dall’ambizione, e che gli eventi del giorno non fecero altro che esaltare alcune sue qualità intrinseche, in particolare la sua tendenza a ingigantire ogni piccolo affronto personale rendendolo una questione di vita o di morte.

Più tardi, quando la madre del poeta, avendolo sentito arrivare a casa, entrò nella sua stanza per chiedergli come fosse andata la giornata, lui dovette nascondere in fretta il ferro carico di proiettili che aveva trovato circa due mesi prima, durante una festa dello sport, nascosto nell’erba vicino al piccolo anonimo ruscello che scorreva a sud dell’unico campo da calcio della comunità. Lo teneva tra le mani pensando, ehi, queste guardie del corpo credono di essere le uniche ad avere una pistola. Gliela faccio vedere io! Non mi conosce. Nessuno può spingermi così, davanti a tutta quella gente. ◆

Perfect Hlongwane è nato a Mbabane, nello stato che allora si chiamava Swaziland (oggi Eswatini), da genitori sudafricani in esilio. Una prima versione di questa storia è stata pubblicata dal periodico sudafricano Culture Review Magazine con il titolo Anatomy of an opening. La traduzione è di Sarah Victoria Barberis.

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Questo articolo è uscito sul numero 1492 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati