A lla fine di maggio del 2021 a Istanbul è stata inaugurata in pompa magna la nuova grande moschea di piazza Taksim. Con questo progetto Recep Tayyip Erdoğan ha impresso il suo marchio ideologico sulla piazza centrale della città più grande della Turchia. “Rimarrà qui fino alla fine dei tempi”, ha dichiarato il presidente turco durante l’inaugurazione. La moschea si trova proprio davanti al monumento alla Repubblica, al centro della piazza, che rappresenta il padre della patria Kemal Atatürk insieme a un gruppo di persone nell’atto di fondare il nuovo stato turco nel 1923. Il nuovo edificio sovrasta di molto Atatürk. Cento metri più in là c’è il piccolo parco Gezi, dove nel 2013 era nato un grande movimento di protesta contro l’autoritarismo di Erdoğan. Con l’inaugurazione della moschea si è avverato un vecchio sogno del presidente: certificare che l’islam ha un posto nel cuore della nazione turca.

C’è solo un problema: la moschea è frequentata da pochissimi fedeli. All’una di pomeriggio di un tiepido venerdì di ottobre ci sono poche centinaia di uomini inginocchiati sui tappeti da preghiera dell’edificio da tremila posti. E si tratta del momento di maggior affluenza, la preghiera del venerdì. Il resto della settimana è ancora più tranquillo. La confusione è soprattutto all’esterno, dove passa un fiume ininterrotto di persone dirette a viale İstiklâl, la strada commerciale più importante di Istanbul. Burger King, Espresso Lab e il consolato francese sono i dirimpettai della moschea. “Siamo musulmani solo di venerdì!”, dice Ertan Sakar, il baffuto proprietario del ristorante di pesce Neptün, sul Bosforo, alla fine della funzione. “È il giorno della disintossicazione. Beviamo per sei giorni e di venerdì ci andiamo piano”.

Così la moschea di Taksim finisce per simboleggiare tutt’altro, qualcosa che a Erdoğan non fa certo piacere: la Turchia sta diventando sempre meno religiosa. Nonostante la maggior parte dei suoi abitanti si definisca ancora credente, soprattutto i giovani si curano sempre meno di regole, pratiche e dettami religiosi. L’islam sta battendo in ritirata, nella vita quotidiana come nella testa dei cittadini. Ciò che ad Atatürk non era riuscito fino in fondo – rendere la società turca più laica – sembra realizzarsi da sé sotto la presidenza di Erdoğan, nonostante tutti i suoi tentativi di islamizzare il paese. A dimostrarlo è l’aumento del numero di atei in Turchia: secondo l’istituto di ricerca Konda sono passati dal 2 per cento della popolazione nel 2008 al 5 per cento nel 2018: più di quattro milioni di atei dichiarati. Dal 2014 esiste perfino un’Unione degli atei, Ateizm derneği, l’unica in Medio Oriente. “L’islam è in pericolo”, ha messo in guardia il quotidiano di estrema destra Yeni Akit. “Sveglia, musulmani!”, ha titolato Millî Gazete.

Gli islamisti hanno buoni motivi per preoccuparsi. Oltre all’ateismo, sono minacciati da un fenomeno ancora più diffuso: il deismo. Molti turchi – soprattutto i giovani – credono ancora in un dio, ma non lasciano più che sia la religione a prescrivere come devono vivere. Secondo loro Dio ha creato il mondo, dopo di che gli esseri umani devono vedersela da soli. In Turchia il deismo è un tema delicato da circa cinque anni. Uno studio del ministero dell’istruzione e dell’università di Sakarya ha rivelato che questa tendenza è diventata popolare tra gli studenti delle scuole İmam hatip. Questa forma di istruzione, che dedica grande attenzione al Corano e alla vita di Maometto, è il giocattolo ideologico di Erdoğan, che spera così di allevare una “generazione devota”, come ha dichiarato più volte. Negli ultimi dieci anni una quantità spropositata di finanziamenti è andata a queste scuole.

Per Erdoğan e il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) è stato quindi un duro colpo che proprio le İmam hatip abbiano evidenziato la crisi dell’islam in Turchia. Durante un congresso del partito nel 2018, Erdoğan ha chiamato sul palco il ministro dell’istruzione İsmet Yılmaz e lo ha rimproverato per il suo rapporto intitolato I giovani scivolano verso il deismo. Il presidente non si era accorto che i microfoni erano rimasti accesi, e tutti hanno sentito esclamare: “No, non può essere vero!”. Un paio di settimane dopo Yılmaz è stato sostituito.

Vicino a piazza Taksim, Istanbul, 2018 (Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni)

Voltaire e Marlon Brando

Un anno prima il teologo progressista Mustafa Öztürk aveva già suscitato un vespaio con l’articolo I passi del deismo, in cui affermava che “le nuove generazioni diventano indifferenti alla visione islamica del mondo e ne prendono addirittura le distanze”. Secondo Öztürk i conservatori religiosi con i loro dogmi arcaici allontanano i giovani dalla mentalità più cosmopolita. Il pezzo ha dato il via a una lunga scia di articoli preoccupati e dibattiti televisivi su temi come “deismo e nichilismo”. Così il ministero dell’istruzione ha deciso di studiare il fenomeno più da vicino.

Nel frattempo anche i deisti turchi si sono organizzati. Nel 2018 la Deizm derneği si è staccata dall’Unione degli atei. Il fondatore Özcan Pali, proprietario di una piccola impresa di pulizie a Istanbul, non si sentiva a suo agio all’interno dell’Ateizm derneği perché credeva nell’esistenza di un creatore. Nel suo piccolo ufficio al primo piano che si affaccia su una strada commerciale di Kadiköy, il quartiere laico nella parte asiatica di Istanbul, c’è una fila di ritratti appesa al muro. Accanto all’immancabile Atatürk ci sono Platone, Voltaire, Einstein, Leonardo da Vinci, Rousseau, George Washington, Napoleone, Victor Hugo, Edison, Abraham Lincoln, Clint Eastwood, Marlon Brando. Tutti deisti? “Presumo di sì”, dice Pali ridendo. Anche Atatürk? “Sicuro! Lui non ne voleva sapere niente della religione. A volte pregava, ma beveva tanto. E alla preghiera del venerdì non ci andava”.

Con la sua piccola associazione (appena trecento iscritti), la cui crescita è stata frenata anche dalla pandemia di coronavirus, Pali ritiene di rappresentare un’importante minoranza in Turchia. “La nuova generazione di sunniti non va più alla moschea”, dice. “L’islam appartiene al passato, noi viviamo nel ventunesimo secolo, l’era dei social network. Il mondo è un villaggio. I giovani conoscono altre culture, altre religioni. Pregare cinque volte al giorno? Non scherziamo”.

Un parco sulla riva del Bosforo, a Istanbul, 2018 (Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni)

Secondo Pali tutti i giovani aleviti, la minoranza a cui appartiene lui stesso, sono deisti. È un modo di vivere che si coniuga bene con l’alevismo, che per molti versi è più una cultura che una religione. “Nella mia cerchia sono tutti deisti”, dice Pali. “Molte persone non sono affatto religiose. Niente moschea, niente Corano, niente preghiera. Per questo il governo di Erdoğan vede nel deismo una minaccia più grave dell’ateismo. L’ateismo è molto meno diffuso”.

“Secolarizzazione”: si potrebbe chiamare anche così il processo di diluizione religiosa in atto in Turchia. Secolarizzazione della società, non dello stato, che da quasi vent’anni è in mano a un partito d’ispirazione islamica. Nelle città turche il fenomeno è evidente. Non solo nelle strade dei quartieri più moderni di Istanbul. Anche in altre città, e non solo nell’ovest del paese, si può constatare che le nuove generazioni di turchi non sono interessate agli obblighi e alle tradizioni dell’islam, e preferiscono la cultura urbana globale. Una madre velata insieme alla figlia senza velo è un’immagine che si vede abitualmente per strada.

Kıymet Aksoy, 27 anni, è una di queste figlie senza velo. È cresciuta in una famiglia di contadini vicino a Trabzon, sul mar Nero. I suoi genitori conservatori – religiosi e poco istruiti – hanno reagito con orrore quando si è rifiutata di indossare il velo e si è allontanata dalla religione e da quello che loro consideravano il comportamento decoroso per una ragazza. “Con mia madre litigavo di continuo”, racconta Aksoy. “Quando avevo otto anni decisi di non andare più alla scuola coranica. Più tardi dovetti frequentare un rigido collegio religioso, ma c’era gente terribile. Dovevamo svegliarci presto per pregare. Forse è per questo che ho abbandonato l’islam. Il mio grande sogno era andarmene da Trabzon, essere indipendente. Mi sono iscritta all’università a Istanbul e lì ho trovato la libertà. I miei genitori non andavo a trovarli spesso. Mi rendevo conto che non avevo più niente in comune con loro”.

La sala di preghiera di un traghetto del Bosforo, 2018 (Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni)

Dati di fatto

Il sociologo Volkan Ertit affronta l’argomento in modo meno aneddotico. Da tredici anni si occupa di come la società turca stia diventando sempre più laica. Le sue ricerche e quelle di altri studiosi confermano che la religione gioca un ruolo sempre minore nella vita dei cittadini turchi. La tesi di Ertit è semplice. Se è vero che la Turchia sta diventando sempre più islamica, come molti affermano all’estero, allora questo dovrebbe manifestarsi in tutti i campi della società e nel comportamento delle persone. Ma è vero il contrario, ed Ertit lo dimostra con solidi argomenti.

Per esempio, è vero che l’islam è praticato in modo sempre più rigoroso? Tutt’altro. Tra il 2013 e il 2018 il numero di musulmani devoti è passato dal 13 al 10 per cento. Il numero di persone che digiuna durante il ramadan è diminuito dal 77 al 65 per cento. È un cambiamento che riguarda soprattutto le nuove generazioni.

È vero che le donne indossano più spesso il velo e altri abiti castigati, come ci si potrebbe aspettare in un paese che si sta islamizzando? Al contrario. Negli ultimi dieci anni il numero di donne senza velo è salito dal 34 al 37 per cento. Le donne che indossano lo hijab sono passate dal 13 al 9 per cento. Inoltre anche l’abbigliamento delle ragazze che portano il velo è diventato più moderno, meno islamico.

Se la Turchia si stesse davvero islamizzando, dovremmo aspettarci che le regole islamiche sulla morale fossero osservate con più rigore. Ma è vero il contrario. Sempre di più i giovani fanno sesso prima del matrimonio e hanno più di una relazione nella vita. L’età media di chi si sposa è aumentata.

Urbanizzazione, istruzione e lavoro hanno migliorato la posizione delle donne

Se la Turchia si stesse islamizzando, le donne dovrebbero adeguarsi al ruolo subalterno che l’islam prevede per loro. È vero il contrario. Urbanizzazione, controllo delle nascite, istruzione e accesso al mercato del lavoro hanno migliorato la posizione sociale delle donne. Il movimento femminista turco è la componente più vitale della società civile. Anche il movimento lgbt è cresciuto in visibilità e popolarità nell’era di Erdoğan, nonostante l’ostilità del campo conservatore.

Quando Ertit ha pubblicato le sue conclusioni, i colleghi laici lo hanno preso per matto. La Turchia meno islamica? Ma dai! Non volevano rinunciare al loro amato spauracchio: lo stato basato sulla sharia creato da Erdoğan. “Si sono arrabbiati”, ricorda Ertit. “Pensavano che sottovalutassi Erdoğan”. La sua domanda di dottorato alla prestigiosa Middle east technical university è stata respinta. La professoressa, una kemalista, era sconvolta. “La Turchia somiglia sempre di più all’Iran”, ha detto. “Come fai a non vederlo?”. Per fare il dottorato è stato costretto a trasferirsi a Nimega, in Belgio.

La nuova Anatolia

Quello di cui i colleghi progressisti non tenevano conto era la differenza tra stato e società. A partire dal 2002 i kemalisti avevano osservato con preoccupazione il governo turco finire nelle mani degli islamisti dell’Akp. Vedevano Erdoğan come un lupo travestito da agnello che all’inizio si era astutamente ingraziato l’Unione europea, ma che puntava a fare della Turchia uno stato islamico. La fiducia nelle intenzioni democratiche di Erdoğan che – non senza ragione – prevaleva in Europa quindici anni fa, secondo loro era segno di enorme ingenuità.

Nel 2007 milioni di persone scesero in piazza per “difendere la repubblica”. “No alla sharia!”, era uno degli slogan. A suscitare diffidenza erano soprattutto gli sforzi dell’Akp per eliminare il divieto di indossare il velo nelle scuole, nelle università e nella pubblica amministrazione. Il velo era il simbolo della battaglia culturale tra i laici e l’Akp.

Quando Ertit ha iniziato la sua ricerca, era ancora questo lo stato d’animo della fazione kemalista, specialmente intorno al 2010, quando Erdoğan cominciò a mostrarsi sempre più autoritario e conservatore. “Mi prendevano in giro, nessuno mi credeva”, dice. “Ma se gli chiedevo dei dati, rimanevano in silenzio. Non ne avevano”. Un collega gli disse: “Non vedi che il velo è sempre più diffuso in Turchia? Ci sono molte più studenti velate”. Ertit gli fece notare che il divieto di portare il velo negli atenei era appena stato abolito.

Negli ultimi tempi le critiche si sono quasi del tutto placate. Il suo saggio God is dying in Turkey as well (Dio sta morendo anche in Turchia) non ha sollevato critiche nell’ambiente scientifico. Quasi più nessuno è convinto che la Turchia stia diventando un altro Iran. Quello della Russia è uno spettro ben più reale.

In un locale notturno di Kadıköy, 2018 (Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni)

Ertit lavora all’università di Aksaray, nell’Anatolia centrale. Questa ordinata e tranquilla città di medie dimensioni nella regione più conservatrice della Turchia è un baluardo dell’Akp. Se mai Erdoğan riuscirà ad allevare una “generazione devota”, succederà certamente qui.

Ma passeggiando per la città con Ertit non c’è niente che faccia pensare che il presidente sia riuscito nel suo intento. A sorvegliare la squadrata piazza centrale c’è, come altrove, Kemal Atatürk sul suo piedistallo. Il commercio e lo spirito mercantile la fanno da padrone come quasi ovunque in Turchia. Quello che dà nell’occhio è piuttosto la presenza di giovani donne senza velo con jeans attillati e magliette che lasciano l’ombelico scoperto. “Allora, dov’è l’islam? Io non lo vedo”, esclama di tanto in tanto il sociologo.

In un caffè sulla via principale Ertit incontra cinque suoi studenti. Tre ragazzi e due ragazze, tutti provenienti da famiglie credenti e in parte conservatrici della regione. A un primo sguardo si notano le barbe da hipster, una maglietta con la scritta “Grunge” e le giacche da motociclista. Gli studenti si definiscono atei o deisti. Alcuni raccontano di madri che hanno perso il sonno quando il figlio si è dichiarato non credente, mentre gli altri dicono che i loro genitori sono rimasti solo un po’ delusi.

Una festa privata a Istanbul, 2018 (Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni)

“Alle superiori ho cominciato a farmi delle domande sull’islam”, dice Enes Karakaya, 28 anni, appena laureato in musicologia. “Credo in un creatore, ma non mi lascio imporre niente, ho le mie regole. Una religione di millequattrocento anni fa non può rispondere ai problemi del presente. Il Corano è opera degli esseri umani”. La studente di biologia molecolare Tuba Gök, 23 anni, si dichiara “sciamanista, anarchica e femminista”, oltre che amante dei Clash e degli anni sessanta. Sua madre teme ancora che finirà all’inferno, ma la cosa non rappresenta più un problema tra loro. E neanche il fatto che ogni tanto Tuba beva alcol, un’abitudine che condivide con gli altri quattro ragazzi. Per tutti il sesso prima del matrimonio non è un problema.

Ipocrisia e repressione

Naturalmente questi cinque studenti non sono un campione rappresentativo di tutti i giovani della città di Aksaray, ma sicuramente di una tendenza innegabile tra la gioventù turca. In Turchia si guarda con paura (i conservatori) o con speranza (i progressisti) alla generazione Y, ai millennial, alla generazione Z e a quelli che sono nati dopo il 1995. Sono più istruiti rispetto alle generazioni precedenti e grazie a internet conoscono modi di pensare e vivere alternativi. L’istruzione ha cambiato la loro vita anche in altri modi. Negli ultimi diciotto anni il numero di università in Turchia è triplicato, arrivando a 210, mentre il numero di studenti è salito da 1,6 a 8,4 milioni. Molti di loro vanno a studiare in un’altra città, lasciando la casa dei genitori. La libertà e l’autonomia di cui godono rendono più semplice liberarsi dalla tradizione, dalla vecchia Turchia.

Per le giovani donne, in particolare, questo significa un taglio senza precedenti con il passato. Incoraggiate dalle tesi femministe, si scontrano contro la disuguaglianza di genere che in Turchia fa parte della cultura e della pratica religiosa. È una delle cause principali del distacco dalla religione. “Le donne vedono l’ingiustizia nell’islam”, dice il filosofo tedesco Pierre Hecker, che all’università di Marburgo studia la crisi dell’islam in Turchia. “Alcune cercano una reinterpretazione femminista dell’islam, altre perdono completamente la fede.”

Altri fattori che portano i giovani ad allontanarsi dalla religione sono l’ipocrisia dei credenti e l’autoritarismo del governo di Erdoğan. La dura repressione del movimento del parco Gezi nel 2013 ha aperto gli occhi a molti. “Ho parlato con diverse persone cresciute in ambienti conservatori che hanno perso la fede in seguito a quello che è successo a Gezi”, dice Hecker.

“Forse Erdoğan lascerà una Turchia più laica di quanto Atatürk sognasse”

Mentre i conservatori imputano la diffusione del deismo all’influenza edonistica dell’occidente, secondo il giornalista e storico Mustafa Akyol la causa della crisi dell’islam va cercata proprio in Turchia: “È una reazione a tutta la corruzione, l’arroganza, la grettezza, l’intolleranza, la crudeltà e la brutalità in nome dell’islam”, scrive Akyol, che è diventato famoso con il libro Islam without extremes: a muslim case for liberty. Akyol denuncia lo “spudorato sfruttamento della religione per fini politici”, che secondo lui è “controproducente e non farà altro che accelerare ancora di più la secolarizzazione.”

La spinta conservatrice dell’Akp di Erdoğan si scontra quindi con una semplice verità: anche in Turchia la società può essere manipolata solo fino a un certo punto. Quello che succede nel paese non dipende da ciò che vuole Ankara, ma da profondi processi di modernizzazione: crescita economica, capitalismo, forte aumento dell’istruzione, famiglie più piccole, internet e urbanizzazione.

Non è la prima volta che delle élite hanno creduto di poter plasmare il paese a proprio piacimento, dice lo storico Soner Çağaptay, responsabile per la Turchia presso il Washington institute for Near East policy. “Quei tempi sono finiti. Il modello giacobino di modernizzazione non funziona più”. Esattamente come Atatürk voleva rendere la Turchia più laica, così Erdoğan ha in mente una Turchia diversa, conservatrice e islamica. “Ma è la società che decide, mentre il governo tenta di starle dietro”. Più si cerca di inculcare l’islam nei giovani, più loro lo rifiuteranno. “L’ironia è che forse Erdoğan lascerà una Turchia più laica di quanto Atatürk abbia mai sognato”, dice Çağaptay .

Molte delle dichiarazioni di Erdoğan sono solo retorica e spesso e volentieri non si traducono in legge. Per esempio, quando ha detto che servivano alloggi separati per gli studenti maschi e femmine, al di fuori della Turchia si è pensato che il paese stava regredendo. La realtà invece è che i giovani turchi convivono sempre più spesso prima del matrimonio. Inoltre i dormitori erano già separati.

Le scuole İmam hatip, il tentativo più concreto di islamizzare la società turca, si sono rivelate un fallimento. Gli istituti non hanno una buona reputazione e perdono studenti, e tra i motivi c’è il fatto che dedicano molto tempo a materie come lo studio del Corano. Anche in Turchia i genitori vogliono per i propri figli l’istruzione migliore, non quella più religiosa.

Rielezione in bilico

Il disinteresse dei giovani turchi per la religione è rilevante anche dal punto di vista politico. Nel 2023 in Turchia si terranno sia le elezioni parlamentari sia quelle presidenziali. Un momento cruciale: la confema del regime autoritario di Erdoğan o il ritorno allo stato di diritto e forse all’Europa? L’Akp non se la passa bene. L’economia è fragile e la crisi dovuta alla pandemia non ha aiutato la popolarità del governo. Secondo i sondaggi la coalizione tra l’Akp e il partito nazionalista di destra Mhp perderà la maggioranza in parlamento. La rielezione di Erdoğan non è affatto scontata.

I giovani possono fare la differenza. Nel 2023 la generazione Z rappresenterà il dodici per cento dell’elettorato. Gli innegabili successi di Erdoğan nei primi dieci anni al potere non significano più molto per i giovani turchi, che li danno per scontati. D’altro canto, la secolarizzazione non significa automaticamente meno voti per l’Akp. Molti turchi hanno sostenuto Erdoğan non per la sua retorica islamista, ma per la sua politica economica e la sua immagine di amministratore deciso ed efficiente. Il presidente è un abile manager, e questo è innegabile.

Molto dipenderà dalle macchinazioni politiche di cui il leader dell’Akp è un maestro, e naturalmente dallo stato dell’economia turca in quel momento. Erdoğan può solo pregare che nel 2023 le cose vadano meglio.◆vf

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Questo articolo è uscito sul numero 1439 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati