Epiteti come “cervello di gallina” e “oca giuliva” riflettono la diffusa opinione popolare che gli uccelli (tranne forse i gufi) non siano molto intelligenti. Tre libri recenti contraddicono quest’opinione. “Cornacchie e pappagalli ottengono risultati paragonabili a quelli dei cani nei test di ragionamento e apprendimento”, scrive l’ornitologo statunitense David Sibley in What it’s like to be a bird (Nei panni di un uccello). In The bird way (Alla maniera degli uccelli), Jennifer Ackerman racconta che le cornacchie della Nuova Caledonia sono in grado di assemblare strumenti composti da più di un elemento, cosa che i bambini non sanno fare prima dei cinque anni. Sibley descrive un esperimento in cui un corvo, per recuperare un pezzo di cibo che galleggia a metà di un cilindro di vetro, ci butta dentro dei sassolini che fanno alzare il livello dell’acqua, dimostrando così una capacità di risoluzione dei problemi simile a quella di un bambino di cinque o sette anni. Scrivendo What it’s like to be a bird, Sibley, famoso per le sue guide all’identificazione degli uccelli, si è convinto che “un uccello vive esperienze molto più intense, complesse e ‘profonde’ di quanto immaginassi. Gli uccelli prendono costantemente decisioni”.

Pur essendo una divulgatrice scientifica e non una scienziata di professione, Ackerman ha esaminato dettagliatamente la letteratura scientifica sulle capacità cognitive degli uccelli nel saggio Il genio degli uccelli (La Nave di Teseo 2018). E ha fatto lo stesso per The bird way, interessandosi soprattutto alla struttura e al funzionamento del cervello aviario e agli esperimenti che rivelano come gli uccelli impiegano l’esperienza, il ragionamento e la memoria nel processo decisionale.

I loro organi sensoriali non funzionano come quelli degli esseri umani. Vedono, sentono e annusano il mondo in modo diverso da noi

I pionieri della ricerca, una generazione fa, pensavano che il comportamento degli uccelli fosse prevalentemente innato. Nel 1973 Nikolaas Tinbergen, biologo e ornitologo olandese dell’università di Oxford, ottenne il premio Nobel per i suoi studi sul comportamento e la comunicazione animale, nel corso dei quali aveva scoperto che il piccolo del gabbiano reale stimola i genitori a nutrirlo beccando una macchia rossa sul loro becco giallo. Konrad Lorenz, che ricevette il Nobel insieme a Tinbergen, aveva studiato il fenomeno dell’imprinting: un piccolo di animale stabilisce un attaccamento verso la prima cosa che vede, normalmente la madre, creando così un’associazione con la propria specie. Le oche allevate da Lorenz avevano ricevuto l’imprinting su di lui e lo seguivano dappertutto nel parco della sua villa in Austria.

Oggi, racconta Ackerman, le ricerche sul comportamento degli uccelli si sono decisamente spostate verso l’esplorazione dei processi di pensiero coscienti. Questi studi potrebbero essere sospettati di antropomorfismo, cioè la proiezione sugli animali di pensieri e sentimenti degli esseri umani. Ackerman è consapevole di questo pericolo, e nel libro Il genio degli uccelli preferisce usare l’espressione “capacità cognitive” invece di un termine dalle connotazioni più umane come “intelligenza”. Le strutture e le connessioni neurali del cervello degli uccelli sono organizzate in modo diverso da quelle degli esseri umani, e perciò anche le loro esperienze saranno diverse, scrive Ackerman, ma a loro modo altrettanto intense.

Anche i loro organi sensoriali non funzionano come quelli umani. Gli uccelli vedono, sentono e annusano il mondo in modo diverso da noi. La loro vista è superiore sotto vari aspetti: la potenza a distanza, la velocità di risoluzione dei dettagli, l’ampiezza laterale (nella maggior parte dei casi) e la percezione di uno spettro di colori più ampio. Gli uccelli, in particolare, distinguono la luce ultravioletta. Alcuni di loro, che noi vediamo in tinta unita, probabilmente luccicano e risplendono agli occhi dei loro simili. Inoltre gli uccelli, a differenza degli esseri umani, riescono a percepire il campo magnetico terrestre. In un raro volo di fantasia, Sibley immagina ciò che una parula bianconera in migrazione “potrebbe vedere nel cielo: una striscia di luce polarizzata blu e una striscia rossastra orientata con il campo magnetico, con un punto più luminoso che mostra l’inclinazione magnetica”.

Per molto tempo si è pensato che gli uccelli non avessero il senso dell’olfatto. L’ornitologo John Audubon, per esempio, credeva di aver dimostrato che gli avvoltoi dal collo rosso individuavano le carogne servendosi esclusivamente della vista. In realtà questi uccelli hanno un apparato olfattivo insolitamente sviluppato: trovano le carogne seguendone l’odore, ma preferiscono quelle fresche, e perciò sdegnavano quelle in avanzato stato di decomposizione che Audubon gli offriva. I tecnici delle compagnie petrolifere aggiungono un composto sulfureo al gas naturale: l’odore attira gli avvoltoi dal collo rosso, che volteggiando sopra i gasdotti segnalano la presenza di perdite.

Richiami e canti

Gli uccelli percepiscono una gamma di suoni più ampia di quella percepita dagli esseri umani, e l’udito svolge un ruolo enorme nelle loro vite. Probabilmente è una forzatura rintracciare analogie con il linguaggio umano, come fa Ackerman, ma gli uccelli comunicano molto attivamente con richiami e canti. Si tratta di due cose diverse. I richiami sono brevi segnali usati tutto l’anno, che trasmettono informazioni importanti dal punto di vista sociale: non solo l’avvicinarsi di un pericoloso predatore, per esempio, ma anche il tipo di predatore (serpente, falco, gatto, essere umano). Il canto contiene messaggi più elaborati, in genere legati all’accoppiamento, ma può avere altre funzioni: rivendicare un territorio, allontanare i maschi rivali e anche, come immaginano le persone più romantiche, dimostrare a una femmina le doti del cantante.

Ci sono cornacchie giocherellone, che sono state viste scivolare su cumuli di neve, tornare su volando e scivolare giù di nuovo

Il canto comporta elementi innati e acquisiti. Sembra che sia un istinto innato, perché anche gli esemplari di uccelli canori allevati in cattività tentano di cantare quando raggiungono la maturità sessuale. Tuttavia, non avendo mai sentito cantare un maschio della loro specie, producono un cinguettio confuso. I nidiacei imparano i canti specifici della loro specie dai maschi adulti, compreso il padre, che cantano nelle vicinanze. Naturalmente anche i maschi di altre specie cantano lì intorno, ma un modello innato impedisce ai piccoli di imparare da loro.Sembra che durante lo sviluppo del cervello aviario esista un periodo di disponibilità a questa particolare forma di apprendimento, così come durante lo sviluppo del bambino esiste un periodo favorevole all’apprendimento delle lingue. Una delle massime autorità in questo campo è Donald Kroodsma, dell’università del Massachusetts. Ascoltando e registrando attentamente gli uccelli canori, ha scoperto che non si limitano a ripetere le stesse frasi, ma scelgono deliberatamente all’interno di un repertorio. Ma non tutti gli uccelli cantano: circa quattromila specie, un po’ meno della metà del totale, sono classificate come canore, perché hanno dei cluster di neuroni cerebrali specializzati nella creazione e nel riconoscimento del canto.

Lunghi steli d’erba

La costruzione del nido è un’altra attività complessa in cui si mescolano comportamenti ereditari e acquisiti. Anche questa capacità, come il canto, si riscontra negli uccelli allevati in cattività e in isolamento, e perciò è probabilmente innata. Anche le tecniche di costruzione devono essere innate, perché i nidi degli uccelli appartenenti alla stessa specie si somigliano tutti. Spesso si tratta di strutture incredibilmente complesse. Qualche anno fa, nel Connecticut, io e mia moglie abbiamo osservato un merlo dalle ali rosse che intrecciava lunghi steli d’erba nel nido e poi li annodava. La scelta del luogo dove costruire il nido, invece, è sicuramente più consapevole. Infatti, se qualcosa va storto, la volta successiva l’uccello lo ricostruirà in un luogo diverso, anche se comunque specifico della sua specie.

Particolarmente interessante è il fatto che gli uccelli usano degli strumenti. L’astuta cornacchia della Nuova Caledonia ricava utensili appuntiti dalle piante per estrarre dalle cavità bocconcini altrimenti inaccessibili, mentre in cattività raggiunge il medesimo scopo piegando a uncino un pezzo di filo di ferro. Il fringuello picchio delle isole Galápagos usa in modo simile le spine dei cactus. Un airone verde è stato filmato mentre attira i pesci con un pezzo di pane. Quando la corrente sposta il pane, l’airone lo rimette al suo posto. Un pesce lo mordicchia e viene catturato.

La memoria è un’altra capacità in cui alcuni uccelli superano gli esseri umani. Qui i campioni sono le ghiandaie e altri membri della famiglia dei corvidi, che mettono da parte il cibo per consumarlo in seguito. La nocciolaia di Clark, un corvide nativo delle montagne degli Stati Uniti occidentali, può nascondere più di trentamila semi e ricordarne la collocazione precisa molti mesi dopo. Questi uccelli sono anche in grado di nascondere le loro scorte ai rivali e sanno che bisogna recuperare per primi gli alimenti deperibili.

Gli elefanti e i delfini si riconoscono allo specchio, dimostrando un senso del sé raro al di fuori della specie umana. Se si applica sul loro corpo una macchia visibile allo specchio, cercano di rimuoverla. Analogamente, se si attacca un adesivo sulle piume di una gazza in cattività, la gazza lo stacca appena lo vede allo specchio. Finora le gazze sono gli unici uccelli che hanno dimostrato questa capacità. Anche se alcuni riescono a trovare del cibo nascosto usando uno specchio, nessun’altra specie è nota per compiere azioni che dipendono dal riconoscimento di se stessi allo specchio. Neanche un pappagallo cenerino particolarmente abile come Alex, di proprietà della studiosa del comportamento animale Irene Pepperberg, che gli ha insegnato ad applicare più di cento parole a oggetti, azioni e colori, oltre che a contare fino a sei oggetti: ebbene, Alex non è mai stato in grado di riconoscere la propria immagine riflessa.

Ackerman dedica un’intera sezione di The bird way al gioco. Non è un’attività comunemente attribuita agli uccelli, a causa del rozzo utilitarismo evolutivo secondo cui in una popolazione animale si diffondono solo i comportamenti che favoriscono la sopravvivenza. Perciò alcuni biologi considerano il gioco nei giovani animali un allenamento per attività adulte essenziali come la caccia. Alcuni uccelli adulti, tuttavia, soprattutto quelli appartenenti alle famiglie dei corvi e dei pappagalli, si dedicano comunemente ad attività che non sembrano legate alla sopravvivenza. Il kea, un grosso pappagallo della Nuova Zelanda, è “il più bizzarramente giocherellone degli uccelli”, scrive Ackerman. Avidi di novità e apparentemente “motivati più dal gioco che dal cibo”, i kea passano parte del loro tempo a lanciare e riprendere oggetti e ad azzuffarsi tra loro. Quasi altrettanto giocherellone sono le cornacchie, che, ci dice Ackerman, sono state viste scivolare lungo cumuli di neve, tornare su volando e scivolare giù di nuovo. Io stesso ho osservato dei corvi che eseguivano giravolte complete in volo, un’attività priva di ogni apparente utilità.

Le emozioni degli uccelli sono un argomento spinoso, esposto alle più grossolane proiezioni sentimentali. Gli uccelli provano sicuramente alcune emozioni: in loro la paura e la rabbia sono spesso evidenti. Se si cercano le prove di emozioni meno palesi, tuttavia, si entra subito nel campo delle congetture. Ackerman sostiene che gli uccelli sperimentano l’amore e il lutto, ma su questo punto, eccezionalmente, non fornisce alcuna prova.

Una volta io e mia moglie abbiamo assistito a un comportamento che evocava un sentimento di lutto. Nel parco regionale di You Yangs, vicino a Melbourne, in Australia, ci siamo imbattuti in alcuni gracchi alibianche, straordinari uccelli bianchi e neri grandi come cornacchie, noti per un complicato sistema di allevamento cooperativo. Danzavano freneticamente intorno al cadavere di un membro del loro gruppo che era stato ucciso da un’auto. Quella danza era un’espressione di cordoglio o di allarme, di avvertimento o semplicemente di confusione? La loro agitazione e ciò che l’aveva provocata sembravano evidenti. Ma se è solo attraverso le nostre emozioni che possiamo vagamente comprendere quelle di un’altra persona, come possiamo sostenere di capire le emozioni degli animali?

Colomba frugivora corona rosa (Leila Jeffreys)

Anelli numerati

Gli uccelli sanno riconoscere gli esseri umani. Per studiare le cornacchie americane, Kevin McGowan, ornitologo della Cornell university, metteva anelli numerati e colorati sulle zampe dei piccoli, ma poi subiva rabbiosi attacchi da quelle stesse cornacchie di cui aveva invaso i nidi. John Marzluff, dell’università di Washing­ton, esperto di adattamento degli uccelli agli ambienti urbani, ha invece scoperto che alcune cornacchie fanno regali alle persone che le nutrono regolarmente.

La migrazione richiede agli uccelli uno sforzo enorme. Il 40 per cento circa delle quasi undicimila specie aviarie del mondo compie viaggi stagionali tra un’area di riproduzione e un’area di svernamento, che possono trovarsi a migliaia di chilometri l’una dall’altra. Questo viaggio può richiedere una prodigiosa capacità di resistenza. Ogni autunno la pittima minore – un uccello ripario dalle lunghe zampe delle dimensioni di un piccione – viaggia senza mai fermarsi dall’Alaska alla Nuova Zelanda, percorrendo una distanza di più di undicimila chilometri. Non essendo dotata di piumaggio impermeabile, non può riposarsi sull’acqua. Sette giorni o più di volo ininterrotto richiedono una radicale mobilitazione delle fonti energetiche del corpo, in seguito alla quale la pittima perde la metà del suo peso.

Gli sforzi mentali richiesti dalla migrazione sono formidabili quanto quelli fisici. Ogni autunno gli uccelli migratori trovano un luogo adatto per trascorrere la stagione non riproduttiva. Poi, in primavera, tornano a nidificare nel luogo dove sono nati, spesso a migliaia di chilometri di distanza. Terminato il periodo della nidificazione, si trasferiscono di nuovo nel luogo dello svernamento. Tutto questo è stato dimostrato contrassegnando gli uccelli, come fece Audubon nel 1803 legando un filo d’argento alla zampa di un febe orientale che nidificava nella sua proprietà in Pennsylvania. La primavera successiva l’uccello tornò nello stesso luogo. Una femmina di colibrì rossiccio ha dimostrato straordinarie capacità di navigazione. Nell’autunno del 1996, dopo aver sbagliato rotta nel suo viaggio verso sud, è approdata a una mangiatoia ad Agawam, in Massachusetts, invece che in Messico. Esaurito l’impulso migratorio, la colibrì si è fermata ad Agawam, e non sarebbe sopravvissuta all’inverno se non fosse stata trasferita in una serra a Northampton. La primavera seguente è partita, presumibilmente per il suo luogo natale sulla costa nordoccidentale del Pacifico, per poi tornare ad Agawam in autunno, e per i sei anni successivi ha svernato nella serra di Northampton. Ackerman non cita questo caso ben noto, ma parla di altri colibrì marcati che fanno ritorno a particolari mangiatoie dopo lunghe assenze. Racconta inoltre che i colibrì hanno una sofisticata mappa interna che gli permette di tenere traccia, all’interno di un vasto campo, dei fiori di cui hanno già succhiato il nettare e di quelli ancora intatti.

Le anatre e le oche giovani seguono quelle più anziane, che conoscono già le catene montuose, i fiumi e le coste da sorvolare

Mappa mentale

Per la navigazione è necessario non solo sapersi collocare su una mappa mentale, ma anche sapere in quale direzione e per quanto tempo occorrerà viaggiare per raggiungere una certa destinazione. Nei viaggi semestrali degli uccelli migratori sono coinvolti comportamenti innati e acquisiti. Quando arriva il momento della partenza, le specie migratorie sono prese da una smania di viaggiare, probabilmente attivata dal cambiamento nella lunghezza delle giornate. Questo impulso compare anche negli uccelli in gabbia appartenenti a specie migratorie, anche se allevati in cattività e in isolamento. Ackerman non si occupa di questi comportamenti innati, per quanto siano interessanti. Tuttavia nella migrazione può entrare in gioco anche l’apprendimento, soprattutto in alcune delle specie più grandi. Le anatre e le oche giovani seguono quelle più anziane, che conoscono già le catene montuose, i fiumi e le coste da sorvolare. In altre specie, come quelle riparie, adulti e giovani volano a sud in momenti diversi e seguendo rotte diverse.

Ci sono altre competenze che possono assistere gli uccelli nella migrazione. Oltre alla percezione del campo magnetico terrestre, anche i suoni a bassa frequenza emessi dal mare possono aiutarli a orientarsi. Perfino l’olfatto può contribuire alla ricerca di un posto preciso. La navigazione degli uccelli richiede tante capacità diverse, molte delle quali, ammette saggiamente Ackerman, rimangono misteriose. Perché alcune specie di uccelli si sobbarcano gli sforzi e i rischi imposti dalla migrazione? I pericoli insiti in questi lunghi viaggi, già considerevoli, sono molto aumentati negli ultimi anni a causa dell’usanza diffusa tra gli abitanti di alcuni paesi costieri del mar Mediterraneo, soprattutto Malta, Cipro ed Egitto, di uccidere milioni di uccelli migratori, abbattendoli a fucilate o catturandoli con le reti. La situazione non è migliore in alcune zone dei Caraibi. Questo comportamento, più che un mezzo per alleviare la fame, è uno sport e un rito di passaggio per giovani uomini che possono permettersi una jeep e un kalashnikov.

Mike Unwin e David Tipling, gli autori di Flights of passage (Voli di passaggio), calcolano che questa pratica uccide 500 milioni di uccelli all’anno. Unwin e Tipling dedicano le pagine introduttive del libro a una breve esplorazione delle origini della migrazione, seguendo l’opinione scientifica diffusa che la considera un adattamento evolutivo risalente alla fine dell’ultima glaciazione, quando gli uccelli poterono accedere a nuovi territori dove il cibo era abbondante e la competizione scarsa, ma gli inverni erano rigidi. Il loro scopo non è ricapitolare le conoscenze sull’argomento, ma “celebrare le meraviglie” della migrazione.

Lungi dall’essere un semplice viaggio da nord a sud, la migrazione degli uccelli comporta l’impiego di molteplici strategie. Le anatre si radunano alla fine dell’estate a centinaia o perfino migliaia di chilometri dalle loro zone di nidificazione, e lì fanno una muta completa, diventando inabili al volo e vulnerabili per un certo periodo prima di migrare a sud. Uccelli marini come albatri e procellarie seguono un immenso percorso a otto che li porta fino ai mari del sud e poi di nuovo a nord al termine della nidificazione.

Unwin e Tipling illustrano molte di queste strategie con una selezione di 67 specie prese da tutti i continenti eccetto il Sudamerica. Omettono anche la migrazione altitudinale tra le quote alte e le quote basse delle grandi catene montuose. Per il resto, il loro libro esamina la maggior parte delle strategie migratorie, accompagnando ogni specie con un breve testo e una rudimentale mappa delle rotte seguite. Queste mappe mostrano la grande varietà dei comportamenti migratori. Si potrebbe obiettare che alcune mappe dei movimenti degli uccelli marini diano l’impressione di peregrinazioni casuali, ma in realtà questi uccelli hanno rotte e tabelle di marcia ben definite.

Piccione doppiacresta (www.leilajeffreys.com, 2)

Il fatto che la migrazione non sia completamente innata è dimostrato dall’esistenza di popolazioni non migratorie all’interno di specie prevalentemente migratorie, e viceversa. Oggi la maggior parte degli statunitensi conosce le oche canadesi soprattutto per la loro costante e indesiderata presenza sui campi da golf e nei parchi pubblici. Queste oche non migratrici sono in realtà una creazione umana, distinte dalle loro cugine migratrici che ogni autunno vediamo ancora passare, dirette a sud, nei loro ben noti stormi a V. Alcune discendono dalle oche che un tempo venivano allevate dai contadini per venderle come richiami per i cacciatori. Quando i richiami vivi furono proibiti, nel 1935, queste oche semiaddomesticate, ormai inutili, furono liberate. Diffondendosi e riproducendosi con grande rapidità, finirono per stabilirsi definitivamente negli spazi verdi urbani del Nordamerica.

Un esempio opposto, in cui la migrazione è stata acquisita, è quello del ciuffolotto messicano, un uccello per lo più stanziale negli Stati Uniti sudoccidentali e nel Messico. Negli anni quaranta alcuni esemplari, probabilmente catturati nei dintorni di Los Angeles, furono liberati vicino a New York da commercianti di uccelli che temevano di essere accusati di traffico illegale di specie autoctone. Quegli uccelli prosperarono e si diffusero in tutto il Nordamerica orientale. Ora una parte di quella popolazione migra a sud per evitare gli inverni freddi. È probabilmente un’evoluzione genetica, dato che i ciuffolotti che svernavano altrove avevano un tasso di sopravvivenza più alto di quelli che restavano stanziali.

Gli uccelli sono estremamente adattabili: sia il loro comportamento sia le loro caratteristiche fisiche possono cambiare in caso di necessità. La capinera, un silvide europeo, un tempo migrava dall’Europa settentrionale all’Africa in autunno. Quando il clima più mite e la diffusione delle mangiatoie hanno reso il sud del Regno Unito un habitat più adatto a loro, le possibilità di sopravvivenza delle capinere stanziali hanno superato quelle delle capinere che si esponevano al rischio di attraversare il mar Mediterraneo, il deserto del Sahara e il Sahel, regioni dove ogni anno ne vengono sterminate tantissime. Oggi la maggior parte delle capinere sverna nel Regno Unito.

Diamante cigliarosse (Leila Jeffreys)

Cardellini in cattività

Un tale adattamento è possibile perché gli uccelli differiscono individualmente all’interno delle specie. L’ornitologo britannico Tim Birkhead racconta l’antica pratica, citata da Plinio il Vecchio, di addestrare i cardellini in cattività ad attingere cibo e acqua servendosi di un minuscolo secchio legato a una catenella. Gli uccelli tiravano su un tratto di catenella e poi la trattenevano con le zampe mentre ne tiravano su un altro tratto. Ma secondo Birk­head, nei test eseguiti dagli scienziati moderni non tutti i cardellini sono riusciti a eseguire questo trucchetto. Circa un quarto dei cardellini in cattività l’ha imparato da solo. Un altro quarto ci è riuscito dopo avere osservato gli altri. Il resto non c’è riuscito affatto. Di libri sugli uccelli se ne pubblicano un’infinità, perché sono redditizi. Hough­ton Mifflin lo scoprì nel 1934, quando tentò la sorte con Roger Tory Peterson, un giovane e sconosciuto decoratore di mobili con un certo talento per disegnare gli uccelli. Il libro di Peterson, A field guide to the birds (Guida degli uccelli), seguiva un approccio nuovo: invece delle solite, complesse descrizioni piuma per piuma, erano proposti disegni semplificati che evidenziavano i segni di riconoscimento caratteristici di ogni specie. La guida andò subito esaurita. Ora che non era più necessario un fucile per identificare accuratamente un esemplare, era nato il moderno hobby del birdwatching. In seguito Houghton Mifflin adattò l’approccio di Peterson a una vasta gamma di argomenti di storia naturale. Più di recente altre case editrici sono entrate nel redditizio settore dei libri sugli uccelli.

Sibley è in un certo senso il Peterson dei giorni nostri. Dal 2000 le sue guide sono diventate il più comune ausilio all’identificazione degli uccelli negli Stati Uniti. Di recente Knopf, il suo editore, ha aggiunto gli alberi e il comportamento degli uccelli a quella che è ormai diventata una collana di Sibley. A differenza delle guide di Peterson, in cui i disegni avevano uno scopo funzionale, quelle di Sibley mirano al piacere estetico oltre che alla dimostrazione dei criteri identificativi. In What it’s like to be a bird, Sibley applica a uno scopo più vasto la sua capacità di conferire volume e animazione alle immagini bidimensionali.

What it’s like to be a bird non è uno studio sistematico delle capacità cognitive o del comportamento degli uccelli. È una cornucopia di fatti notevoli e disparati su 96 specie di uccelli presenti in Nordamerica, illustrati mentre svolgono le loro attività quotidiane. Ogni specie è accompagnata da una lista di dieci o dodici informazioni interessanti, non necessariamente collegate l’una all’altra o a un unico tema. Questo libro piacerà alle persone che trascorrono almeno una parte del loro tempo a osservare gli uccelli. Sarebbe bello se anche quelli che ogni primavera e autunno uccidono gli uccelli migratori potessero scoprire questo piacere. ◆ sp

From The New York Review of Books. Copyright © 2021 by Robert O. Paxton

From The New York Review of Books. Copyright © 2021 by Robert O. Paxton

Robert O. Paxton è un politologo e storico statunitense. Insegna scienze sociali alla Columbia university ed è specializzato in storia europea moderna. È redattore della rivista North American Birds ed ex presidente della Linnaean society di New York.

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Questo articolo è uscito sul numero 1404 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati