Il tentativo dei repubblicani statunitensi di colpire i diritti civili sta entrando in una nuova fase. Lo dimostra l’approvazione in Florida di una legge – soprannominata da chi la contesta “don’t say gay” (non dire gay) – che censura il dibattito sull’orientamento sessuale nelle scuole. Di recente l’amministrazione Biden ha deciso di entrare con più convinzione nello scontro. Il problema è che il mondo delle imprese sta facendo il percorso inverso.

In molti stati le grandi aziende, che spesso promettono di difendere la diversità e l’inclusione, sono rimaste in silenzio mentre gli stati controllati dal Partito repubblicano approvavano una serie di provvedimenti per limitare i diritti delle minoranze. La decisione della Walt Dis­ney Company (uno dei più importanti datori di lavoro della Florida) di non criticare pubblicamente la legge “don’t say gay” mostra i passi indietro fatti dal 2016, quando il mondo delle imprese si schierò contro il “bathroom bill”, una legge approvata dal North Carolina che imponeva di usare i bagni pubblici in base al sesso biologico.

Nell’ultimo anno molti stati controllati dai repubblicani – tra cui Florida, Georgia, Tennessee, Arizona, Texas e Missouri – hanno approvato norme che limitano l’accesso all’aborto, minacciano il diritto di voto, impediscono alle ragazze transgender di partecipare alle attività sportive universitarie, vietano l’intervento medico per i minori che cominciano il percorso di transizione, impediscono agli insegnanti di affrontare con i loro studenti temi come le disuguaglianze di genere e il razzismo (sia nella storia sia nella società contemporanea), rimuovono i vincoli per il porto d’armi, aumentano le sanzioni per chi partecipa alle proteste e proteggono chi investe con la macchina i manifestanti.

La Florida ha approvato quasi tutte queste norme. Oltre al provvedimento “don’t say gay”, di recente il parlamento ha dato il via libera alla legge “stop woke” (voluta dal governatore Ron DeSantis), che rende più difficile per scuole e aziende organizzare corsi su questioni legate all’uguaglianza di genere. “Gli ultimi due o tre anni sono stati un massacro”, mi dice Anna Eskamani, deputata democratica dello stato. “Sono in corso guerre culturali su ogni fronte”. I 23 stati in cui i repubblicani controllano sia il parlamento sia l’incarico di governatore stanno cercando di cancellare la “rivoluzione dei diritti” degli ultimi sessant’anni, un periodo in cui sia la corte suprema sia il congresso hanno riconosciuto ed esteso la portata dei diritti fondamentali e delle libertà garantite a livello nazionale.

L’obiettivo comune delle proposte dei repubblicani è riportare gli Stati Uniti agli anni cinquanta, quando i diritti fondamentali variavano molto tra uno stato e l’altro. In questo modo stanno difendendo le priorità sociali di una coalizione politica basata sugli adulti bianchi e cristiani che vivono lontano dai centri abitati, a svantaggio delle giovani generazioni più variegate a livello culturale e demografico. Il contrasto è particolarmente forte con la generazione z, quella dei nati dopo il 1996. Quasi metà delle persone in questa fascia d’età non è bianca, circa un quinto si identifica con la comunità lgbt+ e un terzo si definisce laico non legato a una tradizione religiosa. Nella generazione dei millennial, i nati tra il 1980 e il 1996, queste percentuali sono più basse, ma comunque di gran lunga superiori a quelle rilevate per le fasce d’età più anziane.

Ogni proposta dell’amministrazione Biden è stata bloccata dal senato

Parole senza fatti

Nella prima fase di questo conflitto culturale le grandi aziende sembravano essersi schierate al fianco delle nuove generazioni, che rappresentano gran parte dei loro clienti e dei loro futuri dipendenti. Nel 2016, dopo l’approvazione del “bathroom bill”, molte aziende – tra cui PayPal, la Adidas e la Deutsche Bank – avevano protestato e annullato i loro investimenti nello stato. Artisti come Bruce Springsteen, i Pearl Jam e Ringo Starr avevano annullato i concerti in programma nel North Carolina. Lo stato, che da sempre venera la pallacanestro, era stato particolarmente danneggiato dalla decisione dell’Ncaa, la lega che rappresenta questo sport a livello universitario, di spostare in un altro stato la fase finale del torneo. Le pressioni avevano funzionato, visto che nel 2017 il governo statale aveva abrogato la legge. Quello stesso anno un’ampia coalizione di imprenditori del Texas aveva bloccato una norma simile proposta dal vicegovernatore dello stato, il conservatore radicale Dan Patrick.

Il mondo delle imprese non si è opposto nello stesso modo all’ultima ondata di leggi conservatrici. In alcuni casi singole aziende hanno criticato uno specifico provvedimento, ma non hanno mai trasformato le parole in fatti. Nel 2020, quando il parlamento del Tennessee ha approvato delle norme per indebolire i diritti della comunità lgbt+ – limitando il dibattito scolastico, impedendo alle studenti transgender di partecipare alle attività sportive e introducendo una versione del “bathroom bill” simile a quella approvata in North Carolina quattro anni prima – non c’è stato nessun boicottaggio.

La risposta delle aziende è stata ancora meno forte sulla legge “don’t say gay” in Florida, che invece ha scatenato una serie di proteste nelle scuole superiori. A queste manifestazioni hanno partecipato “educatori, attivisti per l’infanzia ed esponenti dell’associazione nazionale dei genitori”, che “sono sempre stati in prima linea contro questi attacchi”, spiega Nadine Smith, direttrice di Equality Florida, un’associazione per la difesa dei diritti della comunità lgbt+.

Perché le aziende si sono tirate indietro? Alcuni lobbisti con cui ho parlato sono convinti che schierarsi pubblicamente sia controproducente, visto anche che un gran numero di funzionari eletti dopo l’ingresso in politica di Donald Trump crede che sia politicamente vantaggioso schierarsi contro le grandi aziende. Inoltre gli imprenditori sostengono che la distanza sempre maggiore tra i partiti politici li metta in una posizione difficile: chiarendo come la pensano su temi controversi, le aziende finirebbero comunque per alienarsi un importante blocco di potenziali clienti. Secondo gli attivisti, gli imprenditori vogliono semplicemente mantenere un piede in due staffe sostenendo a parole cause come la diversità e l’inclusività senza però prendere provvedimenti concreti per difenderle.

Da sapere
Lavoratori indignati

◆ Il 9 marzo 2022 i dipendenti della Walt Dis­ney Company che appartengono alla comunità lgbt hanno rilasciato una dichiarazione pubblica in cui criticano la multinazionale per non aver preso posizione contro una legge approvata dal parlamento della Florida – chiamata polemicamente “don’t say gay” (non dire gay) – che censura il dibattito sull’orientamento sessuale nelle scuole. I dirigenti della Disney hanno risposto sostenendo che il miglior modo per opporsi a provvedimenti di questo tipo sia continuare a produrre “contenuti stimolanti” che includono personaggi lgbt. Quest’argomentazione ha indignato ulteriormente i dipendenti, che hanno dato vita alla protesta: secondo loro da anni la Disney (insieme alla controllata Pixar) limita la rappresentazione queer nelle sue produzioni. Per gli attivisti che si oppongono alle leggi approvate o proposte di recente dai repubblicani della Florida, la decisione della Disney di non schierarsi è particolarmente frustrante. La multinazionale è uno di principali datori di lavoro nello stato. Them


Tasse e privilegi

Ma c’è un fattore che pesa più di qualsiasi altro: per quanto vogliano allinearsi pubblicamente ai valori dei consumatori e dei dipendenti più giovani, le grandi aziende continuano a preferire che gli stati siano controllati dai politici conservatori. Questo perché generalmente i repubblicani tendono ad abbassare le tasse e a eliminare le regolamentazioni per le imprese. Ogni volta che le aziende hanno preso posizione contro delle leggi, i politici repubblicani hanno minacciato di cancellare incentivi e aiuti. Nel 2021, quando l’American Airlines ha criticato la legge del Texas che limita il diritto di voto delle minoranze, il vicegovernatore Patrick ha minacciato pubblicamente di bloccare provvedimenti che avrebbero favorito la compagnia aerea.

Intanto, mentre gli imprenditori fanno un passo indietro, l’amministrazione Biden ha deciso di impegnarsi a fondo dopo una partenza piuttosto lenta. Mese dopo mese, il dipartimento di giustizia ha avviato o ha partecipato a battaglie legali contro le leggi statali su diritto di voto, aborto, controllo delle armi, accesso delle studenti transgender alle attività sportive, diritto di organizzare manifestazioni pubbliche. Il ministro della giustizia Merrick Garland ha dichiarato che “il governo federale ha l’autorità e la responsabilità di garantire che nessuno stato privi gli individui dei loro diritti costituzionali”.

Gli attivisti hanno accolto con favore questo cambiamento, ma non è chiaro cosa possa fare concretamente l’amministrazione Biden per fermare l’offensiva dei repubblicani. Il presidente ha sostenuto alcune leggi federali che avrebbero neutralizzato le manovre degli stati repubblicani sul diritto di voto, i diritti della comunità lgbt+ e l’aborto. Ma ogni proposta, dopo essere stata approvata alla camera, è stata bloccata dall’ostruzionismo repubblicano al senato. Inoltre tutte le azioni legali avviate dall’amministrazione o dalle organizzazioni per la tutela dei diritti s’infrangono regolarmente contro il muro dei sei giudici della corte suprema di orientamento conservatore: invece di limitare le leggi discriminatorie, il più importante organo della giustizia statunitense ha dato il via libera alle norme statali che ostacolano l’accesso al voto e probabilmente farà lo stesso con il diritto all’interruzione di gravidanza.

Per gli attivisti che si oppongono all’offensiva culturale degli stati repubblicani è fondamentale portare il dibattito oltre l’arena politica. Ogni persona con cui ho parlato pensa che le aziende abbiano partecipato alla lotta per i diritti civili non per altruismo ma spinte dalle pressioni di dipendenti e consumatori, appartenenti sempre più spesso alle generazioni giovani. In questo senso, spiegano, una pressione organizzata da parte di clienti e lavoratori potrebbe convincere le imprese a prendere di nuovo posizione. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1452 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati