Una forte carica di energia non sempre armoniosa attraversa The culture. Hip hop and contemporary art in the 21st century, al Baltimore museum of art (Bma). La mostra affronta la cultura visiva dell’hip hop, uno dei fenomeni culturali più onnipresenti dell’ultimo mezzo secolo. Le possibili cacofonie sono subito evidenti.

L’hip hop è il genere musicale più ascoltato sulle piattaforme di streaming. La sua influenza è pervasiva non solo nella musica, ma anche nella moda, nella pubblicità e nel linguaggio quotidiano. La mostra, nata dalla collaborazione tra il Bma e il Saint Louis art museum, dove si sposterà in seguito, è eccezionale: critica dove poteva essere agiografica, concisa dove poteva essere confusa, e generosa dove poteva essere elitaria. E piena di arte straordinaria.

C’era una volta il jazz

Il pathos, inteso come un sentimento di struggente tristezza, è spesso la risposta più adeguata a contraddizioni strazianti e insostenibili. L’hip hop ne è carico. Ma ci sono altrettanti momenti di positività. Prima di entrare, ci s’imbatte in Live culture force 1’s, un gigantesco paio di scarpe da ginnastica realizzate con parti di vecchie auto dall’artista di St. Louis Aaron Fowler. Impossibile non notare l’enorme buffalo hat di feltro disegnato da Vivienne Westwood e indossato da Pharrell Williams. Un altro pezzo forte è la copertina del singolo Beat bop, disegnata nel 1983 da Rammellzee e K-Rob insieme a Jean-Michel Basquiat. Ma questi sembrano omaggi, reliquie più che prove dell’influenza dell’hip hop sull’arte recente.

Una fotografia del 1998 di Gordon Parks getta luce sui reali legami tra hip hop e arte. Intitolata A great day in hip hop, ritrae un gruppo di 177 persone (quasi tutti uomini) legate all’hip hop. Commissionata dalla rivista XXL, riprendeva deliberatamente A great day in Harlem, foto del 1958 di Art Kane, che riuniva 57 giganti del jazz. Lo scatto di Parks è quindi un omaggio e insieme una sfida a quella forma d’arte, e una risposta all’idea che l’hip hop non fosse solo “il nuovo jazz”, secondo quello che aveva scritto Harry Allen, ma l’avesse soppiantato come colonna sonora della ribellione creativa.

Heir to the Throne, Derrick Adams (Private Collection. Courtesy of the Artist)

L’arte è stata profondamente influenzata dal jazz. La mostra sostiene che l’hip hop ha avuto un’importanza simile. Ma la questione è complessa. Entrambi i generi musicali sono emersi dalla tradizione e dall’esperienza degli afroamericani negli Stati Uniti. Ma se il jazz tende all’astrazione, l’hip hop è pieno di contenuti. I suoi elementi sono più intricati e i suoi significati più distribuiti. Perciò i segni che lascia sulla cultura visiva sono complessi.

Asma Naeem, la direttrice del Bma e una delle curatrici della mostra, ne individua quattro: il linguaggio, parlato (il flow del rap) e scritto (i graffiti); il beat, che comprende il lavoro dei dj, cioè il campionamento, il turntabling (le variazioni prodotte con giradischi e mixer) e la tecnologia; lo stile, sotto forma di abbigliamento, acconciature, gioielli e accessori; e la performance, nelle forme della danza, dei gesti delle mani e delle altre espressioni fisiche, parte integrante della cultura hip hop. Le opere esposte si ricollegano a tutti e quattro questi elementi.

Una delle più belle è di Anthony Olubunmi Akinbola, che ha tagliato e cucito insieme decine di durag (copricapi elasticizzati) in quattro pannelli che creano una composizione astratta, dinamica e scintillante. Lo stesso vale per un’opera di Mark Bradford, realizzata con le cartine usate dai parrucchieri e intitolata Biggie, biggie, biggie. Si può dire che i ritmi formali dell’opera evocano le rime fluide e la cadenza incalzante del rap. Ma il collegamento più evidente, in entrambi i casi, è quello con il culto dei capelli, carico di significati sociali, politici e personali. Un altro grande esempio della complessità dell’influenza dell’hip hop sull’arte è il collage Expensive pain di Nina Chanel Abney, basato sulla copertina disegnata per l’album del rapper Meek Mill del 2021. L’opera, ispirata a ritagli di Jazz di Matisse, ha scatenato un dibattito sul fatto che celebrasse o parodiasse il lato ipersessualizzato e spesso misogino della cultura hip hop. In attesa di decidere, vale la pena esaminare la rielaborazione pittorica dell’artista Rozeal, che si rifà alla sottocultura nota come ganguro (“faccia nera” in giapponese), emersa tra i fan nipponici dell’hip hop a metà degli anni novanta, per cui i ragazzi si acconciavano i capelli come i neri statunitensi e si scurivano la pelle: una svolta quasi comica, se vista alla luce delle politiche identitarie, e in cui l’appropriazione e l’espressione di sé non possono più essere separate.

It was all a dream, Zéh Palito (Courtesy of the artist, Simoes de Assis and Luce Gallery)

Eccessi e contraddizioni

Quasi tutto ciò che riguarda l’hip hop è influenzato dalle politiche sulle disuguaglianze etniche e di genere, e dall’aspetto più sconcertante di questa cultura: l’adesione all’eccesso capitalistico nelle forme dell’esibizione, del consumo, della celebrità e della spavalderia. È qui che entra in gioco il citato senso di pathos. È presente nel piccolo ritratto di Ernest Shaw, intitolato I had a dream I could buy my way to heaven (Portrait of Ota Benga) e nel breve filmato di Larry Cook Picture me rollin, che mostra una Lamborghini nera girare in tondo con in sottofondo degli stralci del celebre discorso I have a dream, di Martin Luther King.

Il pathos pervade due delle opere più note della mostra. La prima, di Kahlil Joseph, è un video di 15 minuti con le canzoni dell’album good kid, m.A.A.d city di Kendrick Lamar. La seconda è ancora un video, di otto minuti, realizzato dallo studio Tneg per accompagnare il brano 4:44 di Jay-Z, carico di tristezza e vergogna.

Da qualche parte, vicino al cuore dell’hip hop, risiede il complicato impeto di vantarsi quando in realtà non si ha potere, e il relativo pathos di una sottocultura economicamente svantaggiata che definisce il proprio successo in termini puramente consumistici. Naturalmente queste e altre manifestazioni apparentemente contraddittorie possono essere viste come risposte strategiche all’impotenza, e assumono forme esuberanti, consapevoli e sottili.

Ma l’immagine più persistente della mostra è un dipinto di Jordan Casteel, intitolato Fendi. Di dimensioni modeste, mostra una persona qualunque in metro­politana che indossa pantaloni mimetici e stringe borse ricoperte di loghi Fendi. L’etichetta appesa alla parete spiega: “Attraverso oggetti di lusso con marchi vistosi, una persona s’identifica con lo stile di vita e l’opulenza che il marchio rappresenta. Talvolta questa immagine di ricchezza è in contrasto con la realtà”. Quella parola, “talvolta”, è quanto di più carico di pathos ci possa essere. ◆ ff

Questo articolo è pubblicato in Italia per concessione di Adnkronos.

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Questo articolo è uscito sul numero 1507 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati