Sul fronte più avanzato della lotta contro il cambiamento climatico c’è un campo di cinquecento ettari, un mosaico di pozzanghere, prati e terra. I contadini lo stanno seminando. A ogni passo i loro piedi nudi affondano nel fango, poi con le dita spingono dei germogli di mais nel terreno. Le zanzare gli ronzano attorno ai polpacci, serpenti velenosi si nascondono nell’erba. Ma loro sono felici di lavorare qui. Solo pochi anni fa in queste terre lungo le sponde del lago Ciad non c’era più nulla da raccogliere. C’era troppa acqua o troppa poca, inondazioni o siccità. Nelle propaggini del lago si trovava a malapena del pesce.

“Ora facciamo il raccolto due volte all’anno”, dice Mahamat Baye mentre guarda i contadini, strizzando gli occhi contro il sole di mezzogiorno. È alto quasi due metri e sembra ancora più imponente per via dell’ampia veste e del cappello colorato a forma di cilindro. Baye è il capo della comunità, una carica che risale all’epoca precoloniale, ma oggi ha cambiato significato. Nella comunità di Melea, dove vivono circa ventimila persone, è lui a prendere le decisioni più importanti. “Non trovavamo più da mangiare. Ora va meglio”, spiega. Melea ha fatto un miracolo: grazie a un sistema di dighe ha trasformato una palude in terra fertile.

È un piccolo trionfo in una battaglia impari. Il Ciad è un paese in difficoltà. Da tempo le conseguenze del cambiamento climatico sono fuori controllo. Gli abitanti devono adattarsi. Anche gli aiuti esterni spesso non vanno oltre le promesse e le buone intenzioni. Ma qualche speranza c’è, come dimostra la storia di Mahamat Baye e della sua comunità.

Il Ciad si trova nella zona del sahel, tra il deserto del Sahara da un lato e le savane umide e le foreste pluviali dell’Africa centrale dall’altro. Lo stato fu disegnato dagli europei tra l’ottocento e il novecento. Tracciati i confini, i conquistatori cancellarono metà del paese. I colonizzatori francesi divisero lo stato in Ciad “utile”, a sud, e Ciad “inutile” a nord. Baye, nato nel 1965, è cresciuto nella parte “utile”. La regione del lago Ciad era considerata la dispensa del paese. Il lago, grande 25mila chilometri quadrati e pieno di isole fertili, era la sesta fonte d’acqua dolce del pianeta. Baye si ricorda di pescherecci con le reti piene, di bovini kuri dalle lunghe corna che pascolavano sulle rive. “Avevamo pesce e latte in abbondanza”, dice. Il commercio era florido.

Baye era ancora un ragazzino quando il lago cominciò a ritirarsi. All’inizio degli anni settanta un periodo di siccità lo fece rimpicciolire a tal punto che i villaggi un tempo vicini all’acqua si ritrovarono a giornate di cammino dalla riva. La crisi è proseguita e la siccità dura ancora oggi. All’origine c’è un insieme complesso di fattori umani e naturali. Negli anni novanta la superficie del lago Ciad copriva solo duemila chilometri quadrati. I pescatori cominciarono a usare reti sempre più fitte e, dato che i pesci appena nati non passavano più tra le maglie, decine di specie scomparvero. Anche le vacche morirono, non trovando più erba fresca lungo le rive. Stando alle stime, la grande siccità nell’area del sahel colpì circa cinquanta milioni di persone, provocando almeno un milione di morti.

Fonte di vita

Da allora sono stati fatti passi avanti nella lotta contro la fame. Ma ora il riscaldamento globale minaccia di azzerare il lavoro fatto, soprattutto nel sahel, dove l’aumento delle temperature è una volta e mezzo più rapido che nel resto del mondo. Dai tempi della grande siccità l’equilibrio di piogge e stagione secca che permetteva alle persone di vivere anche in una regione così inospitale si è rotto. Trovare il momento giusto per la pesca, la semina o il raccolto è diventato difficile. Da anni il Ciad è agli ultimi posti nell’indice globale della fame: secondo i dati dell’Onu, 5,5 milioni di persone su 16 milioni di abitanti dipendono dagli aiuti umanitari.

Biografia

◆ 1965 Nasce a Melea, nella regione di Kanem, nell’ovest del Ciad.

◆ 2014 È scambiato per un complice del gruppo estremista islamico di Boko haram e viene arrestato.
◆ 2018 Supervisiona i lavori per creare il polder, un sistema di irrigazione nella zona del lago Ciad realizzato grazie a finanziamenti delle Nazioni Unite e dell’Unione europea.


Baye cammina a fatica sopra le nuove dighe di Melea, con la veste mossa dal vento. A destra e a sinistra ci sono delle acacie. Le radici delle piante stabilizzano la terra. Nella stagione secca, rami e foglie impediscono al vento di soffiare sabbia nei campi e di farli inghiottire dal deserto. Tre anni fa, racconta, qui i migliori musicisti di Melea hanno suonato davanti a 1.500 persone. Non era un concerto, ma un incoraggiamento per i lavoratori. “Senza ballo non c’è motivazione”, dice Baye. Uomini e donne si erano messi in fila e si passavano sacchi di sabbia. Hanno sgobbato per 135 giorni per creare il polder di Melea, cioè i campi delimitati da dighe che permettono l’irrigazione controllata. Già con il primo raccolto hanno messo insieme 150 tonnellate di mais. Il progetto è stato avviato grazie al Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite. L’Unione europea e il governo tedesco lo hanno finanziato con cinquecentomila euro. L’Onu chiede più soldi per interventi come questi. Quella cifra basta a malapena per gli aiuti d’emergenza. Per il 2021 servirebbero più di seicento milioni di euro, stima l’Onu. Finora però è stato raccolto solo il 22 per cento della somma.

Baye vuole mostrarci dov’è nato. Melea è un insieme di capanne sparse tra la sabbia. L’ospedale è uno dei pochi edifici con mura di mattoni. Due stanze, con l’intonaco screpolato. Baye saluta uno dei due medici. Fa un elenco delle cose che mancano: un ventilatore polmonare, un kit di rianimazione, una sala parto, medicine, una sala d’attesa. I pazienti, anche quelli contagiosi, aspettano fuori sotto una tettoia di bambù.

A pochi passi dall’ospedale c’è una piazza dove spesso gli abitanti di Melea giocano a carte. Per Baye è legata a dei ricordi orribili. Una notte di due anni fa è stato svegliato dal rumore degli spari. Le milizie di Boko haram avevano preso d’assalto la piazza, a quell’ora ancora piena di persone. Il suo vicino di casa e tre altre persone sono morte nell’attacco.

Nel 2014 il gruppo estremista islamico Boko haram è finito sulle prime pagine di tutto il mondo per il rapimento in Nigeria di quasi trecento studenti. Negli anni successivi si è diffuso anche nell’area intorno al lago Ciad. Per questo il confine tra Ciad, Niger e Nigeria è sempre presidiato dai militari. Proprio lì ci sono più pesci. Anche molte delle isole ancora fertili sono “zone rosse” inaccessibili. Terre che sarebbero state utili per adattarsi al cambiamento climatico. Dopo gli attacchi, lo stesso Baye è stato in prigione per giorni. L’esercito l’aveva scambiato per un complice dei terroristi. Secondo Mahamat Baye, Boko haram non si può combattere solo con l’esercito. Il gruppo è riuscito a reclutare dei giovani anche a Melea, non perché fossero dei fondamentalisti religiosi, dice. “In genere chi si unisce a Boko haram è povero. Spera di trovare qualcosa”, spiega. Magari anche solo il potere di prendere in mano un’arma. Circa quattromila profughi della “guerra al terrore” si sono stabiliti nella periferia di Melea. Baye si sente responsabile anche per loro. Il polder non offre terra a sufficienza per tutti, ma aiuta ad alleviare la miseria.

Negli ultimi anni la quantità d’acqua del lago è di nuovo aumentata. Gli esperti dicono che è per le forti piogge cadute nella regione. Ma l’acqua è sempre poco profonda e, dato che circolano poche barche per paura di Boko haram, gran parte dello specchio d’acqua è ricoperto da alghe che impediscono la pesca. C’è una riserva più profonda e più pura d’acqua dolce, ancora intatta e di cui si sa poco, che potrebbe essere una nuova fonte di vita. Per usarla servirebbero investimenti. Ma perché questo accada Mahamat Déby, attuale presidente del Ciad e figlio dell’ex presidente Idriss Déby, dovrebbe avviare le riforme attese per attirare capitali stranieri.

Al polder di Melea i contadini vangano la terra per creare nuovi appezzamenti. Nella lotta al cambiamento climatico, nessuno di loro si fida del governo. Baye sa che le nuove dighe da sole non possono assicurare un futuro a Melea. “Almeno il polder ci dà speranza”, dice. Con ogni colpo di vanga lui e la comunità guadagnano tempo. ◆ nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1434 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati